Si tratta di un romanzo che intreccia tra loro le vite di donne di varie età, colte tutte in un momento difficile della loro esistenza. I problemi affrontati, dalla paura di invecchiare a quello di perdere il lavoro, dallo smarrimento della fede alla violenza in famiglia, tanto per citarne alcuni, rendono il romanzo molto attuale. In questa apologia del quotidiano, quindi, la vera eroina, esplorata nella sua intimità, è la donna di oggi forte, creativa, alla ricerca di se stessa, eppur generosa. Il romanzo non vuol approdare a rivelazioni eclatanti, ma attraverso la scoperta dell’unicità di ogni storia, come il titolo vuol dirci, ci trasmette un messaggio positivo, che lascia spazio alla possibilità del cambiamento.
Intervista all'autrice:
Perché sono trascorsi quattro anni dal suo ultimo lavoro? “ La vita che forse” è un romanzo a cui tengo molto e che mi ha dato molta soddisfazione, avendo vinto vari premi letterari; questo è il motivo per cui non ho voluto offuscarlo con l’uscita di un altro lavoro, che era pronto da un anno.
La nuova storia è dolorosa come la precedente? Pur essendovi affrontati temi importanti, l’atmosfera che si respira nel romanzo, forse proprio per il continuo cambio di protagonista, è più leggera. Non mancano momenti forti, ma neppure quelli addirittura comici.
Le molte storie possono confondere il lettore? Assolutamente no, perché i personaggi entrano in scena uno ad uno, presentandosi in prima persona al lettore, che ne individua subito il carattere e la tipologia di crisi. Dopo, naturalmente s’immettono nel dinamismo della trama e le seguiamo fino alla fine, quando tutte le storie hanno una conclusione.
Ci sono personaggi più importanti di altri? Sì, Laura e Carla, le due amiche cinquantenni che aprono il romanzo, hanno storie più corpose e si portano dietro tutti gli altri personaggi che ruotano nelle loro esistenze, figlia, madre, sorella etc.
E gli uomini? Che ruolo hanno in tutto questo? Compagni più o meno degni delle loro donne, sono in genere figure marginali, non perché lo siano realmente, ma perché ho voluto concentrare l’attenzione sul modo di vivere certi eventi da parte delle donne, non degli uomini, quindi questi ultimi sono solo funzionali alla storia.
In un romanzo di ambientazione borghese, per di più ad intreccio, non c’è il rischio di ricalcare le fiction di oggi, come ad esempio Centovetrine, ricche di colpi di scena? Il rischio è di certo in agguato, anche se in quelle generalmente c’è la ricerca dell’eccesso, di situazioni estreme, invidie, gelosie, ambizioni, colpi di scena; per di più ad uno stesso personaggio si fanno vivere tantissimi eventi, ognuno dei quali basterebbe e avanzerebbe da solo nella vita di una persona normale. Qui ogni donna ha un problema, che viene seguito e accompagnato nella sua evoluzione e spesso soluzione. I personaggi sono molto reali e coerenti con il loro mondo. Inoltre il linguaggio è calibrato sul controllo, non sull’eccesso, proprio per evitare quelle sbavature retoriche.
Cos’è che lega le storie tra loro? Diciamo che è il messaggio positivo finale: la vita offre continuamente nuove possibilità, che rispecchia, poi, il mio ottimismo.
E il titolo? Siamo portati a ragionare per luoghi comuni, invece anche le storie più normali hanno una loro peculiarità.
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