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Inserito il 07 Maggio 2015

Le vie delle stelle

di Fabio Calabrese


Edizioni Scudo 2015
Prezzo 186 euro Pagine 17,75



Le vie delle stelle

Ancora una volta nello spazio con Fabio Calabrese anche se l'esplorazione dello spazio e l'espansione umana nel Cosmo non sono più, com'era per la fantascienza dei primordi, un'immagine attendibile di ciò che il futuro può avere in serbo per noi. I pianeti del sistema solare sono dei deserti inabitabili e privi di vita, mentre le stelle sono poste a distanze incommensurabili rispetto a noi, perse "nel buio degli anni luce" e che alla velocità della luce stessa, la massima raggiungibile, un viaggio fino ad esse impiegherebbe secoli o millenni. Tuttavia c'è ancora una domanda cui rispondere: l'avventura spaziale è davvero morta o ancora viva e con qualche buona freccia nel suo arco?

Il cervello umano è diviso in due emisferi: l'emisfero sinistro, logico, razionale, in possesso delle abilità linguistiche e numeriche, e l'emisfero destro, emotivo, creativo, sede delle emozioni e dei sentimenti. E' una cosa curiosa, ma anche nella narrativa di fantascienza sembra esistere una divisione analoga: esiste una parte di essa che sembra essersi assunta l'incarico di delucidarci sul nostro possibile futuro: fantascienza sociologica ed ecologica che ci parla di possibili catastrofi ambientali, e non ci dipinge di certo un quadro molto ottimistico dei domani che ci attendono, oppure fantascienza tecnologica che ci porta addentro ai misteri della robotica e dell'informatica, a esplorare le realtà virtuali e conoscere le intelligenze artificiali.

Questo è, per così dire, l'emisfero sinistro della fantascienza. L'emisfero destro è imperniato sulle saghe galattiche e oggi come oggi sembra essere soprattutto un rimbalzo della produzione mediatica che ripropone in una serie di varianti gli eroi di Star Trek e di Star Wars. In qualche modo l'evidenza visiva, l'impatto dato al pubblico dallo schermo grande o piccolo, cinematografico o televisivo, supplisce alla mancanza di plausibilità.

Entrambe cercano in qualche modo di aggirare un dato di fondo: l'esplorazione dello spazio e l'espansione umana nel Cosmo non sono più, com'era per la fantascienza dei primordi, un'immagine attendibile di ciò che il futuro può avere in serbo per noi. I pianeti del sistema solare sono dei deserti inabitabili e privi di vita, mentre le stelle sono poste a distanze incommensurabili rispetto a noi, perse "nel buio degli anni luce" e che alla velocità della luce stessa, la massima raggiungibile, un viaggio fino ad esse impiegherebbe secoli o millenni.

I due emisferi del cervello umano non sono separati, sono congiunti da un'area che si chiama corpo calloso, che permette connessioni e scambi fra uno e l'altro che fanno si che la nostra scatola cranica non sia abitata da due diverse personalità, ma da una personalità unica in cui si equilibrano aspetti razionali ed emotivi.

Esiste, esiste ancora, è ancora possibile un corpo calloso della fantascienza? E' possibile scrivere storie di avventura spaziale che tengano conto delle nostre reali conoscenze sulla natura del sistema solare e dell'universo? Io credo di poter dire che queste storie costituiscono una risposta affermativa.

Il sistema solare, tanto per cominciare, rimane alla nostra portata, anche se siamo ormai certi che non incontreremo né i marziani né i venusiani né le creature provenienti dalla sesta luna di Giove con cui ci ha terrorizzati Robert Heinlein, ma c'è comunque una specie con la quale non finiremo mai di confrontarci e che non cessa di fornire spunti narrativi all'immaginazione: la specie umana.

Partiamo dalla Luna. Il satellite del nostro pianeta è quasi la nostra periferia, è stato raggiunto dagli uomini nel 1969, e sappiamo che è un enorme ciottolo cosmico privo di vita e di atmosfera. Ma ... se per esempio il famoso monolito immaginato da Arthur C. Clarke in 2001, Odissea nello spazio esistesse davvero? E' il tema del racconto Zagadoka.

Certo la Luna rispetto alle distanze cosmiche è il cortile dietro casa, ma è pur sempre il nostro avamposto nello spazio, e gli incontri che potremmo fare sul suo suolo sono davvero imprevedibili, ad esempio, che ne direste di un alieno di cristallo, un'astronave vivente venuta da sei secoli nel futuro? Ve lo racconto in Crystal.

C'è almeno un vantaggio nell'avere i capelli grigi: il fatto di essere vissuto e di essere già stato attivo come autore in un'epoca in cui certe idee sulla natura del sistema solare non avevano perso del tutto attendibilità. Il 20 giugno 1976, la sonda spaziale americana Viking 1 raggiunse la superficie di Marte e cominciò a trasmettere alla Terra immagini del pianeta rosso, che fra le altre cose ne hanno dimostrato in maniera lampante l'inesistenza di vita attuale (se Marte possa averne ospitata in passato, se ne discute ancora). Giusto la sera prima, scrissi il racconto I figli del deserto. Già allora, i sospetti circa l'inesistenza dei marziani erano fortissimi, ma prima che questo mito svanisse del tutto, perché non fare un ultimo tuffo nel Marte sognato da Ray Bradbury e Leigh Brackett, non respirare ancora un po' di aria nostalgica e prendersi, in fondo, l'onore di chiudere un'epoca della fantascienza?

"Terraforming" o, con un brutto neologismo talvolta italianizzato in "terraformazione" è la serie di trasformazioni che si possono mettere in atto su di un pianeta alieno per renderlo quanto più simile alla Terra e adatto a ospitare la vita umana. Il pianeta più adatto per tentare un terraforming, è ovviamente Marte, come si narra nel racconto omonimo, ma non aspettatevi che tutto fili liscio.

Un Marte terraformato potrebbe offrire rifugio ai superstiti della nostra specie il giorno che l'umanità terrestre cadesse in una crisi convulsa, ma quando costoro o i loro discendenti dovessero tornare sul pianeta madre, potrebbero trovarvi una sorpresa molto sgradita, è quanto vi racconto in Gaia.

Saremmo più fortunati se un pianeta cominciasse ad avviare spontaneamente una sorta di terraforming naturale con solo un piccolo aiuto da parte nostra. Questo potrebbe accadere a Venere, se la temperatura di 600 gradi al suolo che attualmente lo caratterizza, cominciasse ad abbassarsi. Ma attenzione, questo avviene perché il sole è prossimo a esaurire la sua scorta di idrogeno e a trasformarsi in nova. Ve lo racconto in Un giorno da leoni.

Poiché ci siamo spinti in direzione di Venere, potremmo ancora proseguire verso il sole e incontrare Mercurio, il pianeta più vicino alla nostra stella, anch'esso un gigantesco sasso cosmico, in più calcinato dalla vampa solare, e questo potrebbe mettere in una posizione molto scomoda chi si trovasse sul Ponte di comando di un'astronave che deve passare da quelle parti.

In direzione opposta, troviamo Giove, il pianeta gassoso gigante. Secondo una teoria in voga anni addietro, esso sarebbe una sorta di stella abortita ed emanerebbe una radiazione termica che potrebbe rendere abitabili i suoi satelliti e gli asteroidi dell'omonima cintura, facendo di questi ultimi un buon luogo, uno sfondo plausibile per ambientarvi una storia di fantascienza. L'ho fatto con Una volta o l'altra, anche se la ragion d'essere di questo racconto è quella di presentare una possibile eccezione al secondo principio della termodinamica.

Giove, il gigante gassoso del sistema solare, se volessimo esplorarlo ci imbatteremmo subito in una grossa difficoltà, le enormi pressioni capaci di schiacciare qualsiasi organismo e qualsiasi oggetto ben prima di averne raggiunto la superficie. Però, mi era capitato di leggere in Ai limiti del conosciuto di Jacques Bergier (co-autore assieme a Louis Pauwels del celeberrimo Mattino dei maghi) un'idea interessante: un veicolo composto da un unico "foglio" bidimensionale di circuiti stampati avrebbe solo due facce che sarebbero soggette a una pressione uguale su entrambe, sarebbe il mezzo ideale per esplorare gli abissi oceanici e – ho subito pensato – anche quelli gioviani. A volte succede che un'idea ne trascina con sé una concatenazione di altre: un veicolo del genere (che ho subito battezzato nastronave) dovrebbe essere per forza teleguidato, e meglio di tutto se fosse un veicolo tipo waldo con il driver che ha l'impressione di trovarsi a bordo di esso, o addirittura che esso sia il suo corpo, anche se fisicamente non è lì. Meglio ancora, se il pilota fosse una persona nata con gravi malformazioni e abituata a servirsi di protesi fin dalla nascita. Ho pensato alla menomazione più grave, un individuo che in pratica è solo un sistema nervoso senza corpo. Questa persona non avrebbe neppure sesso, o il suo sesso cambierebbe di volta in volta a seconda dei waldo in cui è inserita. Noi forse non ci rendiamo neppure conto con chiarezza di quanto il sesso condizioni la nostra identità, il nostro modo di rapportarci agli altri, il modo in cui gli altri si rapportano a noi. Io non vorrei sembrare presuntuoso, ma il vero modo di procedere della fantascienza dovrebbe essere proprio questo: si parte da un'idea tecnico-scientifica e se ne scoprono le implicazioni umane, psicologiche e sociali. In questo modo ha visto la luce quel racconto del tutto particolare che è Any.

Almeno le stelle più vicine a noi, sono però del tutto al di fuori della nostra portata? Forse non è detto, e potremmo studiare dei modi per raggiungerle. Uno potrebbe essere rappresentato da un'astronave-macchina del tempo, che arretra nel tempo man mano che avanza nello spazio, un altro potrebbe esserlo dal teletrasporto, sono le ipotesi sviscerate nei due racconti Erpetofobia e La sagola, che evidenziano anche come, in un caso e nell'altro potremmo combinare disastri. La sagola, che è il racconto eponimo di quest'antologia, mi è particolarmente caro, perché mi permise di uscire da un lungo periodo di blocco narrativo, e nacque proprio dalla riflessione sull'uso del teletrasporto in un episodio di Star Trek.

Tuttavia, noi sappiamo che gli autori di fantascienza hanno inventato modi ingegnosi per consentire ai loro eroi di superare l'interminabile pista delle stelle: dalla velocità superiore a quella della luce, la mitica overdrive, all'utilizzo della deformazione o curvatura dello spazio-tempo, fino ad arrivare a Star Trek dove con la "velocità curvatura" si utilizzano entrambi.

Cosa dire a tal proposito? Io azzarderei che non sia consigliabile usare tali espedienti, che non hanno ovviamente plausibilità scientifica, se non con parsimonia, e se non quando sono giustificati dal fatto che la narrazione ha in vista finalità diverse dall'ipotizzare il nostro futuro, cioè quando acquisisce più scopertamente il valore di metafora. Faccio un esempio: I reietti dell'altro pianeta di Ursula Le Guin è una narrazione ambientata negli spazi, ma in realtà si tratta di una moderna filiazione della narrativa utopica, e l'autrice fa bene a non impacciarsi con questioni tecniche estranee al suo argomento, e non abbiamo il diritto di pretenderle come non le pretenderemmo da Platone, Thomas More, Bacone, Campanella o Swift.

Come potete vedere, per quanto mi riguarda, io qui vi porto quattro esempio di trasgressione della regola, ma sempre per giustificati motivi. Stella di neutroni. In questo caso, il racconto è stato costruito intorno a una teoria cosmologica, che non ho altro modo di presentare, e che è quella illustrata dal professor English. Macché materia o energia oscura, ciò che spiegherebbe la "compattezza" gravitazionale delle galassie potrebbe essere il fatto che non sono se non dei giganteschi gorghi intorno a buchi neri supermassicci. Chissà che in questa forma non arrivi alle orecchie di qualche ricercatore dotato dei titoli accademici e degli strumenti giusti per svilupparla!

In altri casi, (fare finta di) dimenticare l'invalicabilità dello spazio interstellare può essere giustificato in un racconto che ha fini polemici, satirici o semplicemente umoristici. Un buco nel cielo, Il connettore e Il ricorso sono tre esempi in questo senso. Un buco nel cielo nacque come "risposta" al racconto La sindrome lunare di Vittorio Curtoni, dove si immagina che in una colonia spaziale, per le particolari condizioni ambientali si vada incontro a una perdita della parte inconscia e irrazionale della mente. Io ho provato piuttosto a pensare a una perdita della razionalità, appoggiandola alla teoria del cervello tripartito (il nostro cervello sarebbe in pratica formato da tre cervelli sovrapposti, il più antico che abbiamo in comune coi rettili e i vertebrati inferiori, il secondo, il cervello-mammifero, e infine il terzo, la neocorteccia, specificamente umano. In determinate circostanze, sono gli strati inferiori a prendere il sopravvento sulla parte più evoluta).

Il connettore è una parodia di Star Trek con qualche allusione al connettivismo e Giovanni De Matteo, tanto per non farci mancare nulla, e Il ricorso semplicemente un racconto umoristico. In entrambi i casi, preferisco non darvi anticipazioni per non rovinarvi l'effetto delle gag finali.

Adesso farò io una domanda a voi: a conclusione di questa carrellata, pensate che l'avventura spaziale sia davvero morta o che non sia invece viva e con ancora qualche buona freccia nel suo arco?  

(c) Fabio Calabrese


Per informazioni e per comprare questo libro
Email: romnod@tin.it

 



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