«…E allora penserò che niente ha avuto senso
A parte questo averti amata, amato in così poco tempo;
e che il mondo non vale un tuo sorriso, e nessuna canzone è più grande di un tuo giorno,
e si tenga il resto, me compreso, la viola d’inverno.»
(R. Vecchioni, La viola d’inverno)
Si può rinunciare ai sogni? Può un’esistenza privarsi di questa dimensione? E cosa comporta farlo? Credo sia questo il fondamentale enigma che si nasconde dietro La Ballata delle Sette Pietre: il tentativo di comprendere se sia possibile sacrificare il mondo della creatività, della speranza, del sogno, alla concretezza, alla esattezza di un mondo che preferisce le geometrie, l’assenza di indugi, di esitazioni.
C’è un uomo, il protagonista, che non riesce a riconoscersi in una vita priva di sogni: un imprecisato male attraversa il suo animo e lo divora, rendendolo sempre più straniero al contesto in cui vive, alle abitudini che dovrebbe condividere con gli altri personaggi. Il protagonista è vittima di un disagio, molto contemporaneo, di una solitudine consapevole, conseguenza ad uno straniamento che appare inevitabile ma, allo stesso tempo, quasi avvolgente nella certezza che tristemente lo anima: quella cioè di non poterlo superare, di non potersi privare della sofferenza che ne deriva perché quella sofferenza rappresenta una sorta di catarsi. La purificazione dal tormento del disagio, della perdita, sia essa di qualcuno appartenuto al passato o dell’energia presente per seguire il cammino, è una progressiva descensio ad inferos: nel cammino verso l’assunzione di consapevolezza avviene la purificazione, la liberazione dal legame con il corpo e con la sua prigionia.
Romanzo molto metaforico, ambientato in un ‘apparente’ futuro, che mantiene i tratti fantasy caratteristici della prosa di Antonio Messina ma, rispetto al genere, tratteggia personaggi con una psicologia definita, indagata, sfaccettata. Vale ancora la pena di difendere i sogni, di preservarsi dal considerare l’esistenza come una sorta di banale consuetudine? Davanti a questi interrogativi Messina delinea figure femminili affascinanti che trainano le fila della vicenda: forti, determinate e determinanti, quasi in aperta conflittualità con uomini tormentati, soli, vulnerabili.
Al centro, concettualmente e a rappresentare una sorta di crocevia, l’amore: perduto, desiderato, vissuto –soprattutto-, forse perfino sublimato, tanto da esserne divorati, perfino in absentia.
Ogni Pietra rappresenta un periodo temporale, una decina d’anni circa, e l’idea di Ballata altro non è se non l’astrazione della danza dell’esistenza: il valzer dei giorni, delle stagioni, in un luogo sconosciuto perché prospetticamente lontano, ma talmente ‘noto’ in ciò che racconta da sembrare attualissimo.
L’inverno del protagonista è la conseguenza della mancanza di passione: passione alla vita, alle sue ragioni, alla ricerca di nuovi stimoli, di un’evoluzione; e dove la passione si abbandona alla sofferenza si fa strada il ricordo, il passato, che uccide il presente e impedisce la primavera.
Quasi in sottofondo, come una musica appena accennata, come un bozzetto a matita, c’è una scelta difficile e inevitabile insieme: la soluzione, lo scioglimento, il Destino che si compie o, forse semplicemente, la presa di coraggio. Perché il coraggio somiglia ad un sacco colmo di oggetti che portiamo in luoghi diversi, sentendo di volerlo fare ma non sapendo mai bene cosa questo possa rappresentare da quel giorno in poi.
L’arte di Messina è questa: costringerti, con naturalezza, a prendere il tuo sacco e a percorrere un tratto di strada con la curiosità di scoprire quante cose ancora esso possa contenere e raccontarti.
(c) Ilaria Dazzi