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Inserito il 30 Marzo 2024

Rappoesia

di Andrea Castiglioni


Rappoesia 2024
Prezzo 16 euro Pagine 256
ISBN:9791259845726



Rappoesia

Rappoesia di Andrea Castiglioni
curata da Bottega editoriale e pubblicata da Armando Editore
 
Prefazione di: Renato Minore

Qui di seguito si può leggere un’attenta analisi del testo redatta dal critico letterario Guglielmo Colombero:
Eclettico, enigmatico, esoterico: tre aggettivi che iniziano per “e” risultano perfettamente idonei a rappresentare il microcosmo poetico del “rapper letterario” Andrea “P.Untho” Castiglioni. Una rapsodia oscillante fra febbrili estasi visionarie e lucidi anatemi iconoclastici: in tal senso, spicca subito emblematico, e illuminante, l’incipit della prima parte della silloge, Selezione naturale, che riecheggia certe suggestioni del De André de La canzone del padre («Confesso / Sono giudice e giuria / Anche quello che non ho commesso» come «Il tribunale mi ha dato fiducia, / assoluzione e delitto lo stesso movente»).

L’autore accenna a quel «sacro terrore che mi tiene in vita», e amaramente conclude «Voglio pensare di aver vissuto»: proiezione simulacrale di un’esistenza incompiuta. Riaffiorano traumi infantili («Inseguendo sogni di luce / In una stanza buia»), scorre un rivolo di rabbia come un fiume carsico dentro l’anima («Mi attacco a questo foglio / Che è un figlio di puttana / Ci sputo sopra una rima»). Anche il mondo delle fiabe viene brutalmente dissacrato («Quel che ti spaventa non è mai il lupo / Ma quel cazzo di Cappuccetto rosso cupo»), impastato con una citazione del vademecum orrorifico di Lovecraft («Leggo il Necronomicon ad alta voce»). E, con pasoliniano furore, l’io narrante si dibatte nella palude fangosa dell’ipocrisia («La mia lingua è sporca ma dice la verità / La mia vita è storta ché puzza di libertà / È lingua morta sopra un’urna greca»), evoca fasi storiche del passato per esorcizzarle nel presente («Nella mia testa non c’è / Nessun papa nessun re / A fuoco pira da inquisizione»), usa il turpiloquio come un dirompente ariete dialettico («Prima di farvi la guerra io di bombe ne ho pieni i coglioni»).

In apertura della seconda parte, Evoluzione della specie, la simbologia dello specchio infranto riflette la «rabbia giovanile / Che puzza di umana delusione» (un riferimento fin troppo esplicito all’effimera stagione sessantottina). L’io narrante si concede qualche polemica di sapore addirittura evangelico (fa pensare ai “sepolcri imbiancati”, e non manca una citazione estrapolata alla lettera come «Tra pianto e stridore di denti»): «Tutti talebani a giudicare gli altri / Tutti voi ogni giorno un po’ più morti», e trova espressioni di tangibile crudezza («Mangiare polvere e ruggine», «Siamo pelli abitate da mostri») e di inguaribile pessimismo di fronte al declino culturale dell’Occidente («Che le pagine dei libri non servono a niente / Sono tutte vuote / Sono bianche come la neve / Che muore sopra ogni cosa») e all’apatia di una società ormai incapace di reagire e di rivitalizzarsi («a vegetare ci pensate voi / Pallidi sotto il sole che state sempre all’ombra / Delle vostre ultime stronzate»).

La terza parte, L’uomo nello specchio, trasporta l’io narrante nella dimensione di una vera e propria seduta autopsicoanalitica, costellata di impennate surrealiste alla Magritte («il mio sorriso che corrode i muri di questa città»), da accenti squisitamente junghiani («L’uomo nello specchio mi appare tanto distante / Quanto lo sono io da me stesso»), da simbolismi raffinati e inquietanti («Mantengo il sole acceso anche di notte»), e di nuovo da urticanti insulti scagliati contro il conformismo borghese («Hanno divorziato dalla verità / A favore di una vita tranquilla») e il vuoto spaventoso che tenta vanamente di occultare («Che se poi vi fate i cazzi miei / Vuol dire che non ne avete di vostri»). Non risparmia neppure gli strali contro il secolarismo delle gerarchie ecclesiastiche («Tenete Cristo legato a una catena / Come se fosse un vostro balocco») e l’idiozia pecoreccia delle masse («La maggioranza non sceglie, non pensa, segue / Chi urla più forte, chi la colpisce alla panza»), argomento, purtroppo, di ansiogena attualità.

In alcuni passaggi l’autore rigira il coltello nella piaga, e rappresenta con cruda fisicità l’intossicazione di massa del mondo globalizzato: «forse ci meritiamo / Quello che c’è in giro / Ma più che sciacquarti le orecchie / Dovresti farti un bidet al cervello», ma non solo, anche il degrado del Bel Paese («l’Italia che va giù / Come un gelato con la panna a cui manca il cono»), e lo slittamento in un cupio dissolvi nichilista («Rompendo lo specchio in mille parti / Tagliando le vene e i polsi a questa realtà / Per scriverci sopra la nostra stori»).

Nella quarta parte, Inkognita, l’io narrante ribalta qualsiasi prospettiva fideistica («Credo nei miei demoni, meno negli angeli lassù nel cielo») fino a sfiorare la soglia della parodia blasfema («Dio / Non è nient’altro che un pusher / Con cui hai un debito»). La raffigurazione del contesto sociale resta impietosa («Un tempo erano le zanzare ad attaccarti la malattia / Ora è tutta la società la malaria / Malata di salario, orario e straordinario»), l’Italia declassata a un «museo di cera a cielo aperto», la filosofia sbeffeggiata («un cazzuto Platone seduto sul cesso»), un persistente “male di vivere” («Quel sapore particolare di sangue sulle labbra/Sa di ferro, sa di miele, sa di promesse infrante»), un attonito smarrimento esistenziale («Siamo come dadi ma con nessuna faccia / Numeri chiusi in gabbia, successione di Fibonacci / Bambole di pezza con desideri di stracci»), la rassegnazione di fronte al disfacimento delle utopie («Alle prese con una rivoluzione che non vuole finire / Perché non è mai incominciata»), la derisione corrosiva verso le pulsioni autodistruttive del genere umano («Voi ammazzate la gallina e volete pure l’uovo»).

Dalla quinta parte, Anonimo, emergono pennellate apocalittiche («Non c’è un cazzo da fare siamo tutti quanti scimmie / Nella stessa gabbia ormai piena (altro che occhi della tigre)»); l’angoscia dell’ineluttabile consunzione del tempo («Per rifarmi una vita ribalto la clessidra / Che il tempo è infame e ladro / Mi porta ogni giorno più alla deriva»); l’ennesima folata di insanabile scetticismo («Malato mistico mastico cicoria senza speranza di redenzione»); la stanca sfiducia in istituzioni ormai deteriorate («Questa è democrazia sincopata», «Denazificata, ma sempre carica d’oppressione»).

Nella sesta parte, RKR Kaso rosso kupo, l’autore tratteggia immagini di intensa suggestione metaforica («Tu sei come le ginestre che crescono sulla roccia prima del ponte / Affacciate sull’abisso, affamate di bellezza»), continua a propagare le ondate concentriche della sua rabbia antiborghese («Il marcio del concetto di patria e di nazione»), innesta frammenti di mitologia guevarista («siempre izquierda / Hasta la victoria / Questo è il succo della storia»), personifica una nazione in ginocchio nella figura di una donna piangente («Quante lacrime ha l’Italia e nessuno che gliele / A-sciu-ga!»), evoca al ritmo di una ballata macabra il personaggio sinistro di Mastro Titta, il boia papalino «mai andato in pensione».

Nella settima parte, PDP partigiano della parola, l’autore sviscera la nostalgia per l’utopia dell’immaginazione al potere («Al posto degli occhi hai due grilletti, due pistole / Con cui spari sogni e colore»), rappresenta il processo creativo come un’effusione di fluidi vitali («Avere il sangue in bocca dieci, cento, mille rime in gola»), sprigiona lampi di energia trasgressiva («Di gabbia in gabbia / Hanno provato a rinchiudere la mia rabbia / Ma non ce l’hanno fatta»), ribadisce il motto Nemo propheta in patria («sono l’alieno dalla lingua biforcuta / Che chi dice e proclama verità merita solo la cicuta»), ammonisce la massa intontita dal Grande Fratello televisivo sulla persistenza di rigurgiti reazionari («Gira una gran bestia in città / una bestia per il mondo! / Si chiama fascismo e razzismo e uccide / non è morto!»).

Nell’ottava parte, Diecimila buone ragioni, si amplifica il tenore dell’invettiva antiborghese («Siamo fuorilegge perché ci avete espropriati dei pensieri / Venduti un respiro alla volta alla vostra bella società»), l’io narrante si incattivisce in vampate di furore solitario («Intingo la penna di P.Untho / In sangue, merda e sudore»), sogna lo sgretolamento dei valori tradizionali («Di parole su una base sono pieno, di strofe infinite abrase / Buone per far esplodere tutte le vostre caaa-se»), imprime una spinta destabilizzante contro la letargia conformista («Sono lo scemo del villaggio di cui tutti avete bisogno / Che non riuscite più a distinguere il vostro incubo dal sogno»), recrimina sui fallimenti ideologici di intere generazioni («Siamo figli del nostro tempo / E di una madre sbadata»), trasfigura gli ambienti in una dimensione surreale, quasi dadaista («Questo è il quartiere in cui sono venuto al mondo / Luogo di sogni, chimere e abisso profondo»), punta l’indice contro una società globalizzata in cui nessuno può dirsi innocente («Siamo tutti colpevoli ma abbiamo deciso di assolverci / Per insufficienza di prove»).

La nona parte, Prima la parola, condensa la rabbia nell’ispirazione musicale («Faccio una canzone ignorante / Portatrice sana / Di una furia costante»), la cristallizza su un sentiero sempre più nitido e incalzante («Niente nebbia nei miei pensieri / La mia strada d’oro la lastrico di rabbia»), e, fitta di innumerevoli citazioni (da Guernica a Clint Eastwood, da Crasso al Cile, da Chernobyl a Dante) e di estrosi neologismi (“Utopika”, “Exarchia”) visualizza come un’istantanea scattata su un magma caotico la diffusione ormai incontrollata dell’alienazione di massa («Quando è l’incubo che vince, la ragione perde / Affascinano gli scaltri, seguiti dagli idioti / Gli intelligenti fanno a gara per diventare i loro nuovo iloti»), che riecheggia la sconsolata profezia firmata da Georges Bernanos in I grandi cimiteri sotto la luna: «L’ira degli imbecilli riempirà il mondo».

Nell’epilogo contenuto nella decima parte, Pensodenso, l’autore cerca di tirare le somme: stigmatizza il nodo irrisolto dell’incomunicabilità («Parliamo una lingua straniera / Per le vostre orecchie abituate a ciò che vi dice il sistema»), esprime l’amaro sapore della disillusione («Il cielo in una stanza / Per me non esiste più») e il tracollo delle filosofie alternative («Da qualche parte c’è il beat perfetto / Che combatte i draghi con la cerbottana»). Infine, suggella l’inestinguibile vocazione autoritaria della democrazia di facciata («Un nuovo governo bussa al Quirinale / Adesso tutto è chiaro: è il potere a essere criminale»).

 

 Inoltre, riportiamo la Prefazione firmata dal critico letterario Renato Minore:


 Ti racconto la mia storia, fratè
Perché non c’è niente di più vero
Che mi dice
Sono vivo, sto vivo…
Sono vivo, sto vivo…
Sono vivo, sto vivo…
Sono vivo, sto vivo…
(…)

 
Perché se ti racconto la mia storia
È perché te la voglio dire

 
Un pensiero, un grido, se volete un urlo. Lo si può considerare come si vuole. Una modulazione in sottotono, un ironico graffiante riepilogo, una bandiera a segnare uno spazio, con l’evidente e soffocante impronta del confine. Ma nella ripetizione, “sono vivo, sono vivo”, il pensiero (o il grido o l’urlo) prendono forma. Sono la designazione di una presenza, di una vita, tra il ricordo fievole e canzonato della ungarettiana “vita di un uomo” e il “lasciatemi divertire” di Palazzeschi, nella metamorfosi rap. Affiorano tormenti, paure, sentimenti, risentimenti, una “visione del mondo”, come la intendeva Lucien Goldmann, per lampi, zoomate, capovolgimenti. Affiora quel maelstrom in cui tutto è appena detto e ancora da dire, l’esitare che è replicare, di cui la rappoesia di Andrea “P.Untho” Castiglioni è la messa in scena e anche la violenta parodia di quella messa in scena.

La considerazione di essere (“io in queste cose mi ci intrigo”) trascina anche la conseguenza di essere una storia, “la mia storia”. Il racconto prende sostanza come a singhiozzi o a ripetizioni. Il singhiozzo esplode in una litania e la ripetizione si chiude in un oggettivo specchiarsi di un io scisso e diviso:

Tu lingua biforcuta, io che mangio cocci di vetro
Mi vengono in mente tremila cose meno una ogni minuto
Ho talmente la testa piena che esplode, aiuto

Nella sua scissione c’è la forza e anche il tormentato trascinamento della voce del poeta. Vuole rappresentarsi, essere sul palco:

Se sono ancora in giro è perché cerco pezzi di me
Che il pezzo più grande c’ha un nome e un cognome
Che suona un po’ falso, come fosse parte di me.

Ma vuole anche rappresentare una condizione, un modo di sentirsi e di comunicare che può paradossalmente essere una voce anche “altra”, di altri: “l’uomo nello specchio”. Una voce che, nel ritmo di una danza, diventa voce di tutti e di ognuno. E anche la voce di chi, alterando il suo tono, sente una possibile/impossibile empatia. Disegna la mappa che è il territorio e il territorio è quel trascinamento che include ed esclude. Ironicamente, dolorosamente, nel ritmo anche strafottente che scivola via, tra “grandi scommesse”, “ferite aperte”, “soliti ritornelli”:

 Questa è la vita
Pugni in alto per ballare
Pugni in alto per dire
Che cazzo avranno da fare tutte ste persone
Se non pensare… pensare… pensare
Cose buone o cattive di noi.

L’evidente allentarsi dei legami logico-sintattici nella scansione dei versi, di cui ha scritto Giuseppe Antonelli analizzando le forme poetiche legate alla canzone, produce una continua oscillazione, un molto variato intrecciarsi di temi e di suggestioni. I toni possono anche improvvisamente variare, acquistare sfumature che si incrociano e possono divergere. Una specie di tsunami che induce a risagomare l’io, un “naufrago alla deriva che balla sulle macerie del mondo”. E ancora il puzzle dell’esistenza con i suoi risvolti indecifrabili, i ricordi nell’arco compreso tra traumi giovanili, speranze disattese, delusioni e smacchi amorosi, amicizie tradite. Il patetico quasi crepuscolare risvolto autobiografico e il riflessivo “filosofico” sul senso della vita sbriciolato in flash, pensieri divorati dall’urgenza di dirsi. E ancora più ampie costruzioni e interrogativi riempiono di senso e di possibilità la complessiva “visione del mondo”, cui si è accennato, per la cui definizione non so con quanta consapevolezza il rap di Castiglioni si snoda spostando sempre il centro del bersaglio forse per meglio centrarlo. E azzardando anche qua e là qualche più esplicita dichiarazione di poetica sperimentata con il linguaggio secondo le modalità del rapper nelle punchline, i giochi di parole:

Scrivo all’indicativo presente lettere al futuro e passato
Così da provare a fregare il tempo prima che ci freghi lui
Nero su bianco non ci sono sfumature
Che è come essere un vegano a cui non piacciono le verdure
Penna e calamaio nelle emozioni del mio cuore
Che riempie tutto il foglio come petrolio
Che brucia, prende fuoco questo mondo
Prima di morire e ascoltare un’altra canzone

Selezione naturale, evoluzione della specie, l’uomo nello specchio, inkognita, anonimo, RKR kaso rosso kupo, PDP partigiano della parola, diecimila buone ragioni, prima la parola, pensodenso: racchiuso nelle dieci sezioni dai titoli squillanti e fortemente denotativi, il format della rappoesia di Castiglioni è pronto per essere detto, per essere pronunziato, per essere interpretato nella lettura orale. Ma non è poesia orale. Con le sue invettive politiche e le strizzate d’orecchio letterarie Castiglioni sa di giocare a slang e neologismi con il “poetico” di una tradizione che si direbbe un po’ futurista e un po’ sperimentalista. Sa che il testo non è un pre-testo, ma qualcosa di organico e di definito, aperto alla lettura e alla successiva interpretazione sul palco dove le sue parole possono risuonare con l’intensità rumorosa del “naufrago alla deriva”:

Scrivo all’indicativo presente lettere al futuro e passato 
Così da provare a fregare il tempo prima che ci freghi lui 
Nero su bianco non ci sono sfumature
Che è come essere un vegano a cui non piacciono le verdure 
Penna e calamaio nelle emozioni del mio cuore
Che riempie tutto il foglio come petrolio 
Che brucia, prende fuoco questo mondo 
Prima di morire e ascoltare un’altra canzone

Oppure può alzare la voce con una sconsolata invettiva sull’Italia, il suo “carattere” e, sullo sfondo, il carattere di chi la governa:

L’Italia è un paese fondato sul dolore degli altri 
Che hanno sempre ragione loro
Ustica, Bologna, il delitto Moro 
E tutti gli altri che negli anni
Non hanno mai cambiato né volto né occhi 
Vuoi tu italiano prendere la qui presente Italia 
Nella buona e cattiva sorte
Fino alla fine del contratto
O della prossima legislatura?

 


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