di R.M.L.Bartolucci
Di
una vita molto sommessa, trascorsa quasi
in punta di piedi, rimane un ricordo tangibile
di un unico avvenimento "clamoroso":
si tratta di una lapide in marmo nella chiesa
parigina di San Rocco La vita in questione
è quella del famosissimo scrittore
Alessandro Manzoni, e l'avvenimento "clamoroso"
è la sua conversione religiosa. Il
2 aprile 1810 la capitale francese era in
gran festa, poiché si celebravano
le nozze dell'imperatore Napoleone con l'arciduchessa
Maria Luisa d'Austria. Per le strade la
folla straboccava disordinatamente. Manzoni
e sua moglie Enrichetta erano pigiati nella
calca. Improvvisamente si udì lo
scoppio di una serie di mortaretti: la folla
ebbe un sussulto, si scompigliò.
Lo scrittore, perduta di vista la sua compagna,
ebbe grande paura che ella venisse soffocata
in quel trambusto. Senza rendersene quasi
conto, egli si ritrovò sulla scalinata
della chiesa di San Rocco, e non si sa bene
in che stato si introdusse all'interno del
tempio. In quel momento si accorse di essere
solo. Alcuni cronisti dicono che a quel
punto ebbe una folgorazione nella sua anima
e pronunciò le parole: "Dio,
se esisti, rivelati a me!". Altri biografi
riferiscono che egli si limitò a
chiedere una grazia particolare: poter riabbracciare
la moglie sana e salva. Poi, uscito dalla
chiesa, Enrichetta, incolume e sorridente,
gli sarebbe venuta incontro. Avendo visto
la mano della Provvidenza in quell'avvenimento,
il Manzoni si sarebbe poi convertito.
Egli era nato nel 1785 da un nobiluomo di
stampo campagnolo, Pietro Manzoni, e da
Giulia Beccaria, gaia ed intelligente figlia
di quel Cesare Beccaria che aveva conquistato
già mezza Europa col suo libretto
"Dei delitti e delle pene", che
per quei tempi era diventato un vero e proprio
beast - seller. In realtà gli ultimi
studi critici dicono che egli fosse figlio
di uno dei fratelli Verri e che la Beccaria,
già incinta, avesse accettato di
sposare Pietro Manzoni per dare una paternità
al figlio. Alessandro trascorse l'infanzia
nella villa paterna del Caleotto, in riva
a quel lago di Como in cui più tardi
ambienterà la storia dei protagonisti
del suo principale romanzo, Renzo e Lucia.
Dopo i sei anni visse in collegio a Merate,
a Lugano, a Milano. Di quegli anni gli rimase
impressa soprattutto la dolcezza del Padre
Soave, suo insegnante a Lugano, che non
aveva mai il coraggio di usare la bacchetta
che nascondeva nella manica per punire gli
studenti riottosi. Molto presto Alessandro
fu affascinato dalla poesia, e soprattutto
da Virgilio, che studiava con passione,
e dall'allora famoso Vincenzo Monti, sul
modello del quale egli compose le sue primissime
opere poetiche, anche se già si sentiva
in esse qualcosa di molto personale, specialmente
una tendenza acuta alla penetrazione psicologica
e la precisione nel ritratto esteriore e
morale al tempo stesso. Al termine degli
studi, per un brevissimo periodo si abbandonò
alla dissipazione e negli anni successivi
si rimproverò molto la vita brillante,
anche se mai eccessiva, vissuta in quell'epoca
della sua esistenza. Il disordine di cui
egli accusava se stesso era soprattutto
di ordine intellettuale. Durante la gioventù
aveva subito molto gli influssi dell'illuminismo
e di Voltaire in particolare, dimostrandosi
irreligioso e anticlericalista anche in
maniera violenta. La conversione operò
nel suo animo una graduale presa di coscienza
dei veri valori della vita umana. Gran parte
del merito del suo cambiamento fu opera
della moglie, la dolce Enrichetta Blondel,
che egli aveva sposato nel 1808. Ella era
calvinista convinta e profondamente devota.
Fu lei per prima a convertirsi alla religione
cattolica, abiurando solennemente dalla
religione calvinista, e il Manzoni la seguì
a ruota. Allora i due coniugi vivevano a
Parigi, dove Alessandro aveva raggiunto
la madre. La conversione segnò per
lui l'inizio di una nuova vita. La verità
cristiana, "
il Vero come l'unica
sorgente di un diletto nobile e durevole"
divenne il centro ispiratore di tutta la
sua opera, dagli Inni Sacri alle due tragedie
"Il conte di Carmagnola" e "Adelchi",
ai saggi filosofici e storici, fino a giungere
al suo capolavoro, quei "Promessi Sposi",
"romanzo della Provvidenza", in
cui egli trasfuse tutta la sua poesia, tutta
la sua umanità, tutta la sua concezione
della storia come guidata misteriosamente
dalla mano di Dio. L'idea di una poesia
che avesse per oggetto la verità
e che si proponesse di divertire e di educare
al tempo stesso era propria non solo del
Manzoni, ma di tutto il Romanticismo più
sano: "
Ecco perché io
vedo nel Romanticismo uno spirito cristiano",
affermava lo scrittore. E in questo senso
egli fu romantico, anzi il caposcuola del
Romanticismo lombardo.
Dal 1815, maturata in pieno la sua conversione
religiosa, il Manzoni scrisse per un decennio
un grande numero di opere. Tornato da Parigi
fin dal 1810, trascorreva la sua vita tra
Milano e Brusuglio, dove aveva una villa.
Non avendo problemi economici, poiché
sia lui che la moglie possedevano parecchie
proprietà che garantivano loro una
vita agiata e tranquilla, potè rivolgersi
tutto all'interno di se stesso. Ogni tanto
gli nasceva un figlio o una figlia (ne ebbe
in tutto nove). Nel frattempo scriveva con
foga, pur se tra mille dubbi e incertezze,
come rivelano i suoi manoscritti autografi,
pieni di cancellature nervose, di sostituzioni
di periodi interi, di richiami, di annotazioni,
di segni d'inchiostro. Solo una volta riuscì
a comporre qualcosa di getto: fu quando,
nel parco di Brusuglio, leggendo un giornale
apprese la notizia della morte di Napoleone.
Ne rimase sconvolto, perché affascinato
dal fatto che il grande generale potesse
essere stato uno strumento nelle mani della
Provvidenza divina per portare a compimento
nella storia i progetti di Dio stesso. Allora
il poeta si chiuse in casa per tre giorni,
ossessionato da una marea di impressioni
e di versi che egli cercava disperatamente
di stendere sulla carta. E per tre giorni
Enrichetta, la moglie, rimase al pianoforte
suonando brani che tenessero desta in lui
l'ispirazione. Alla fine di questo "tour
de force" letterario-musicale dei due
coniugi finalmente vide la luce l'ode "Il
Cinque Maggio". Per paura di cominciare
a revisionarlo per troppo tempo, come era
sua abitudine con i suoi scritti, Alessandro
decise di divulgarlo immediatamente: e fu
un successo strepitoso. L'ode, tradotta
in quasi tutte le lingue europee e finanche
in latino, capitò tra le mani del
grande Goethe, che ne rimase entusiasta.
Dopo il 1826 Manzoni non si applicò
più alla poesia, e, pur continuando
i suoi studi letterari, storici e filosofici,
si dedicò per lo più a perfezionare
il suo romanzo "I Promessi Sposi"
con un attento "labor limae".
Poiché Enrichetta soffriva di cattiva
salute ed aveva bisogno di aria pura e bagni
di mare, la famiglia si trasferì
prima a Genova, poi lungo la costa e infine
a Firenze, dove poté "risciacquare
i suoi panni in Arno", cioè
depurare il suo italiano e renderlo più
funzionale tanto che, divulgato attraverso
il suo romanzo, esso divenne la lingua delle
persone colte di tutta l'Italia.
Alla fine della sua vita rimase in silenzio
per ben cinquant'anni, vivendo quietamente.
Pian piano era divenuto un autentico patriarca
della cultura italiana. Era considerato
con venerazione e i suoi sentimenti patriottici
lo rendevano ancora più grande nel
momento in cui si sviluppava il Risorgimento.
La sua dirittura morale, la sua modestia
e la sua intelligenza fervidissima e lucidissima
nell'accostarsi ai problemi culturali lo
rendevano quasi un'incarnazione vera e propria
del genio nazionale. Eppure egli visse senza
solennità pur tra tanta gloria. Non
amava la folla, anzi la temeva, poiché
era fragile di nervi fin dalla giovinezza.
Se doveva parlare in pubblico balbettava.
Amava molto, invece, la serenità
della sua casa, dove poteva parlare liberamente
con i familiari e i domestici l'aristocratico
dialetto meneghino di un tempo, con le "erre"
rotolanti secondo l'uso francese. Ancor
più amava la limpidezza del paesaggio
Brianzolo, poco lontano da quel lago di
Como che il suo romanzo aveva reso famoso
e amato da tutti. Ma quei cinquant'anni
di silenzio non furono lieti, a causa di
una serie interminabile di sventure che
egli dovette sopportare: gli morirono in
breve tempo cinque figlie e due figli, un
altro figlio lo amareggiò con il
suo comportamento. La mattina di Natale
del 1833 gli morì anche la sua cara
Enrichetta. In seguito, la sua situazione
finanziaria peggiorò: spese un mucchio
di soldi per una sfortunata edizione illustrata
del suo romanzo; editori di pochi scrupoli
pubblicavano le sue opere senza concedergli
i dovuti diritti d'autore ed egli, pur se
vinceva cause in tribunale contro di loro,
non ebbe mai il coraggio di infierire su
di essi. Nel 1848 durante la guerra la sua
villa di Brusuglio fu devastata. Nel frattempo
si era risposato con Teresa Borri Stampa,
forse per dare una madre ai figli, ma ugualmente
amata con molta sincerità. Sopravvisse,
però, anche alla seconda moglie.
Il Manzoni non si lamentò mai delle
sue sventure, poiché aveva una fede
troppo radicata e profonda per non vedere
in esse la mano del Signore che dà
e poi toglie secondo il suo disegno provvidenziale.
La sua morte arrivò lentamente. Una
fredda mattina di gennaio in cui lo scrittore,
ormai novantenne, si era recato alla Messa
per fare la comunione nella Chiesa di San
fedele, cadde sui gradini del tempio e battè
la testa. Lo portarono a casa privo di conoscenza
e lo deposero sul suo modesto lettino di
ferro dipinto in rosso. Fisicamente si riprese
un poco, ma non riacquistò più
la lucidità mentale che tanto lo
aveva caratterizzato: rimase in uno stato
di demenza tranquilla e pietosa. Tornò
lucido poche volte, e in una di queste rare
occasioni si dovette annunciargli la morte
di un altro figlio che soffriva da tempo
di un male inguaribile. Tornò lucido
per l'ultima volta poco prima di morire:
fece appena in tempo a ricevere i Sacramenti
e spirò durante la notte, il 22 maggio
1873.
Rossella Maria Luisa Bartolucci
rbart@ciaoweb.it