di R.M.L.Bartolucci
Alzando
gli occhi verso l'architrave, vi avreste
potuto notare questa scritta: "Io ho
quel che ho donato". Parole d'atmosfera
francescana, un'atmosfera confermata dall'apparizio-ne
di un giovane frate, che, facendo un leggero
inchino, vi avrebbe accolto all'interno.
Avreste allora attraversato il parco e sareste
stati introdotti in un edificio su cui si
poteva scorgere la scritta: "priorìa"
. Una volta varcatane la soglia, però,
vi sareste trovati davanti a uno spettacolo
che di francescano non aveva proprio niente:
arazzi, tappeti, statue, incensieri, ninnoli
di giada, cuoi intarsiati, naiadi d'oro
dall'abbigliamento discinto, e via di seguito,
come se ci si trovasse in una lussuosa,
fantasmagorica fiera del paganesimo. Avreste
ben presto scoperto che il proprietario
di quella strana dimora era nientemeno che
il grande Gabriele D'Annunzio, il quale,
poiché stava vivendo una crisi mistica,
aveva fatto travestire da frate il suo cameriere
e faceva chiamare con epiteto francescano
"sirocchie" le sue domestiche.
In realtà questo grande scrittore,
famoso per la straordinaria musicalità
dei suoi versi e per la sua incredibile
abilità nell'uso della parola, era
fatto così: aveva bisogno di circondarsi
sempre di una "scenografia" corrispondente
allo stato d'animo che viveva in ogni particolare
momento della sua esistenza, non importa
se con manifestazioni esteriori esagerate
o di cattivo gusto. Chi avesse voluto giudicarlo,
si sarebbe trovato in una terribile difficoltà,
e lui stesso sembrava ostinarsi a non far
capire fin dove arrivava la sua voglia di
recitare e dove invece cominciava a manifestarsi
il suo senso artistico. Per i suoi detrattori
era solo un esibizionista, un ciarlatano
privo di qualsiasi moralità; tutti
gli altri invece, subivano il suo irresistibile
fascino e ne rimanevano soggiogati, lo vedevano
come un uomo eccezionale ed "inimitabile"
che avrebbe potuto permettersi qualsiasi
cosa. Del resto, anche lui stesso pensava
così di sé, altrimenti non
avrebbe potuto sentirsi tanto vicino al
genio del grande Michelangelo da parlare
di lui chiamandolo semplicemente "il
Parente". Questi suoi atteggiamenti,
che rivelavano il suo profondo sentirsi
pieno di sé, probabilmente erano
stati causati da una troppo rapida conquista
del successo, senza tutti quegli sforzi
e quei sacrifici che hanno caratterizzato
la vita di molti altri grandi artisti. La
sua famiglia di origine era agiata e apparteneva
all'alta borghesia di Pescara. Suo padre,
orgoglioso della sua spiccata intelligenza
e della sua precocità, gli fece frequentare
il più prestigioso collegio di quei
tempi, il "Cicognini" di Prato,
dove studiavano i figli dei52 nobili. Fu
proprio lì che il grande poeta scrisse
la sua prima raccolta di versi, intitolata
"Primo vere", che lesse alla famiglia
durante le vacanze estive del 1878. Il padre
ne fu così entusiasta da pagargli
le spese di pubblicazione, e in realtà
anche il consenso della critica letteraria,
all'apparire del volume, fu unanime. Concluso
il liceo, due anni dopo, ormai divenuto
famoso, volle andare a Roma per iniziare
la carriera letteraria. Era sempre elegantissimo,
spigliato e pieno di fantasia, e non gli
fu difficile fare colpo nei salotti dell'epoca,
riuscendo ad introdursi negli ambienti più
raffinati, dove fece anche una vera e propria
strage di cuori femminili, nonostante non
fosse esattamente un Apollo. A vent'anni,
innamoratosi della giovanissima Maria Hardouin,
duchessa di Gallese, fuggì con lei
e la sposò. Ma il matrimonio, evidentemente,
non gli si addiceva, e ben presto le sue
avventure galanti ricominciarono a pieno
ritmo. Addirittura la vita di D'Annunzio
potrebbe essere raccontata suddividendola
in periodi diversi secondo le donne che
ebbe al suo fianco. Ma la sua preferita,
quella che esercitò un'influenza
determinante sulla sua opera di scrittore
e di poeta, fu senz'altro la "divina"
Eleonora Duse, la più grande attrice
dell'epoca. Egli le rimase accanto dal 1896
al 1904 (un vero record per lui!) e durante
tutto questo tempo abitò a Firenze
nella lussuosa villa "La Capponcina",
per descrivere la quale l'aggettivo "principesca"
sarebbe solo un eufemismo. La sua situazione
irregolare e i suoi sperperi enormi gli
procurarono critiche spietate. Ciò
però non gli impedì di scrivere
proprio in questo periodo parecchie delle
sue opere più belle, e in particolare
molte di quelle "Laudi" che rappresentano
l'espressione più alta della sua
poesia. Le enormi ricchezze accumulate,
comunque, non gli bastavano a coprire le
ingenti spese per mantenere tutto lo sfarzo
di una tale abitazione. A un certo punto
dovette fuggire per scampare alla furia
dei creditori e andò ad abitare in
Francia, ad Arcachon, dove per quasi cinque
anni visse modestamente. Fu qui che scrisse
alcune opere direttamente in francese, dimostrando
grande versatilità. Il suo francese
mescolava con disinvoltura parole moderne
con vocaboli arcaici, ma egli riusciva a
fondere le parole così sapientemente
e armonicamente, con squisita raffinatezza,
che la sua affermazione anche in Francia
fu clamorosa. La prima opera che scrisse
in francese, il testo teatrale "Le
martyre de Saint Sebastien", fu addirittura
musicata dal più illustre compositore
"d'avanguardia" dell'epoca, il
grandissimo Claude Debussy. Intanto D'Annunzio
continuava a scrivere anche in italiano
e pubblicò proprio in quel periodo
in Italia "Le faville del maglio",
una raccolta di scritti vari in prosa che
riconfermavano la sua abilità e gli
spianarono la via del ritorno in patria.
L'occasione per la rimpatriata si ebbe con
l'invito a pronunciare l'orazione di commemorazione
dell'impresa dei Mille il 5 maggio 1915.
La Prima Guerra Mondiale divampava e in
Italia la maggior parte dell'opinione pubblica
era favorevole all'intervento in guerra
per strappare agli austriaci i territori
ancora irredenti. D'Annunzio pronunziò
dallo scoglio di Quarto un appassionato
discorso interventista, e ottenne il "perdono"
ufficiale per i suoi trascorsi. Subito dopo
il poeta entrò direttamente in azione,
partendo per il fronte e compiendo imprese
leggendarie. Ma fece anche ciò nel
completo disprezzo delle regole: infatti,
pur essendosi arruolato come ufficiale di
cavalleria, non tenendo in alcun conto gli
ordini degli Alti Comandi, rivestì
a suo piacere il ruolo di marinaio, fante
e aviatore. Le sue imprese, tuttavia, furono
tali che gli si perdonò tutto, tanto
più se si considera che il Comando
austriaco aveva messo una fortissima taglia
sulla sua testa. Nel frattempo continuava
a dedicarsi instancabilmente alla sua opera
di scrittore con un successo travolgente,
riuscendo sempre a rimanere sulla cresta
dell'onda. Alla fine della guerra, però,
era ormai stanco e provato: lo invase l'assurdo
terrore di essere dimenticato, e cercò
di costruirsi un'immortalità al di
là della sua opera di poeta e scrittore.
Per i suoi meriti lo Stato gli aveva concesso
una lauta pensione e regalato una vecchia
villa sul lago di Garda. Egli la ampliò
e l'arredò lussuosamente con uno
sfarzo malinconico, trasformandola in un
mausoleo in onore di se stesso, a cui diede
il nome di "Il Vittoriale degli
Italiani". Lì condusse tristemente
gli ultimi anni della sua esistenza, che
ebbe termine l' 1 marzo 1938. Con lui morì
un grande, inimitabile artista, insieme
all'ultima delle sue ingannevoli illusioni:
quella di sopravvivere alla sua stessa poesia
grazie alla sua tanto spettacolosa quanto
assurda dimora.
Rossella Maria Luisa Bartolucci
rbart@ciaoweb.it