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DANTE
ALIGHIERI
(1265-1321)
di R.M.L.Bartolucci
Si
narra che Dante, mentre passeggiava per
una via di Verona, passasse davanti alla
bottega di un fabbro e sentisse cantare
a mo' di cantilena una specie di recitativo.
Tendendo l'orecchio, rimase allibito, poiché
riconobbe alcuni versi del suo "Inferno",
che il fabbro canticchiando storpiava in
malo modo. Allora Dante entrò nella
bottega e, senza proferir parola, cominciò
a gettare fuori sulla strada martelli, tenaglie,
pinze e lavori già cominciati. Il
fabbro, che era rimasto annichilito per
la sorpresa, pieno d'ira gli chiese perché
stesse guastando il suo lavoro. Dante lo
guardò fieramente e rispose: "E
tu perché guasti il mio?".
Un altro giorno, sempre camminando per una
strada di Verona, s' imbattè in alcune
donne ferme in un angolo a chiacchierare.
Una di queste lo riconobbe e bisbigliò
alle altre: "Quello è colui
che di tanto in tanto scende all'Inferno
e ne riporta qui le notizie dei morti".
E una sua amica ribatté: "Ah,
è per quello certamente che ha la
barba nera: deve essere stato il fumo infernale
a tingergliela così".
Questi due aneddoti, anche se probabilmente
non hanno alcun riscontro con la realtà
storica, non sono inventati, ma sono testimonianze
risalenti ai primi biografi del poeta, che,
come il Boccaccio e il Bruni, scrissero
di lui pochi decenni dopo la sua morte.Già
in questi aneddoti ritroviamo quella che
sarà la tendenza costante di tutti
i biografi di Dante fino ad oggi: mostrarcelo
come un personaggio da leggenda, un mito,
un genio imbalsamato nella propria grandezza
insuperabile. Così ciascuno di noi
ha iniziato a immaginarselo come un monumento
ben installato sul suo piedistallo, un monumento
caratterizzato dai tratti consacrati dalla
tradizione.
Per fortuna sua e nostra, però, Dante
non fu mai un monumento, bensì un
uomo dalla statura decisamente non elevata
(esaminando il suo scheletro si è
stabilito che fosse alto m. 1,64), molto
magro, angoloso e puntuto, con un naso lungo
e secco, la fronte non alta ma spaziosa,
un viso triangolare con zigomi sporgenti
e occhi grandi e molto probabilmente scuri.
Sebbene sia rappresentato tradizionalmente
glabro, certamente negli anni della maturità
portava una barba nera, come testimoniano
i cronisti. Insomma, un uomo come noi, con
le sue virtù (decisamente grandi),
ma anche con i suoi difetti. Sicuramente
possedeva un'anima retta e sincera, ma anche
un temperamento bilioso, assolutista, tendente
alla partigianeria e alla polemica. Questa
sua umanità, che gli ha permesso
di fare le sue esperienze nella vita e di
rendersi autore delle pagine più
belle della letteratura italiana, ci fa
scoprire passo dopo passo che il "divino
poeta" non era un miracolo piovuto
dal cielo, ma un uomo come gli altri.
La sua vita prese inizio nel cuore della
vecchia Firenze, nell'antica e ormai scomparsa
casa degli Alighieri, nel maggio 1265. Venne
battezzato col nome di Durante (di cui Dante
è abbreviazione). La sua famiglia,
appartenente alla piccola nobiltà,
possedeva ricchezze modeste e riponeva il
suo maggior vanto in un trisavolo, quel
famoso Cacciaguida che aveva partecipato
alle Crociate e che Dante immaginò
di incontrare nel "Paradiso".
Per un giovane non ricchissimo in quel periodo
c'era un solo mezzo per entrare nella Firenze
che conta: mettersi in luce per il proprio
ingegno. Dante intraprese questa strada
e imparò da solo l'arte del "dir
parole per rima", cioè di scrivere
poesie, e fu così bravo da venire
accolto come amico intimo dal maggior poeta
della Firenze del tempo: Guido Cavalcanti.
Costui era bello, ricco, sensibile, nobile
e spregiudicato.
Intanto Dante aveva fatto a nove anni un
altro incontro decisivo nella sua vita:
quello con Beatrice, nel 1274. Quando ne
parla nella "Vita Nova" il poeta
ci descrive quel giorno come illuminato
da una luce di cielo: "Apparve vestita
di nobilissimo colore, umile e onesto, sanguigno,
cinta e ornata a la guisa che a la sua giovanissima
etade si convenia". Questa fanciulla
delicata sarà sempre presente nella
vita di Dante, con una presenza discreta,
come un richiamo continuo. "D'allora
innanzi" - dice Dante - "amore
signoreggiò la mia anima". Ma
che tipo di amore era? Per una donna o per
un ideale? Certamente dapprima fu un amore
alla maniera degli Stilnovisti, un amore
intellettuale, e Beatrice fu per lui quasi
un mito dell'amore in se stesso. Dante la
cantava appunto come tale, anche dopo essersi
sposato, anche quando correva per le taverne
in compagnia del cugino Forese Donati, gran
ghiottone e dissipatore della peggiore specie
che si potesse incontrare nella Firenze
dell'epoca. Anzi, man mano che Dante faceva
esperienza della sua fragilità morale
e di quella degli altri, man mano che si
abbassava sempre di più nella "selva
oscura" delle passioni, la purezza
di Beatrice risplendeva ai suoi occhi. Pian
piano ella divenne non più un pretesto
per far poesia, ma un simbolo, quasi una
nostalgia d'amore, il desiderio di un amore
puro e totale che elevasse fino al cielo
l'anima e il corpo di un uomo che fino a
quel momento era stato schiavo della sua
natura. Così Beatrice diventò
per lui "donna venuta di cielo in terra
a miracol mostrare": il miracolo della
redenzione di Dante, che potrà uscire
dalla selva oscura per giungere all' agognata
meta del Paradiso.
Dante, però, sposò Gemma Donati,
appartenente ad una delle famiglie più
turbolente di Firenze. Fu certamente un
matrimonio di convenienza, com'era in uso
allora; infatti il contratto di matrimonio
era stato steso nel 1277, quando Dante aveva
dodici anni e Gemma poco meno. Egli non
l'amava certo con il trasporto con cui avrebbe
amato Beatrice, ma ciò non gli impedì
di essere un buon marito e un buon padre
per i suoi tre figli, Jacopo, Pietro e Atonia,
che poi si fece suora a Ravenna con il nome
di Beatrice. Quando Dante fu esiliato, Gemma
preferì restare in Firenze con i
figli.
Infatti nel 1285 il poeta era entrato a
far parte della vita politica: ricoprì
cariche importanti, rivestì anche
la magistratura più alta nel comune
fiorentino, quella di priore, fece varie
ambascerie; ma non riuscì mai a impostare
la vita della città secondo le sue
idee. La città era in preda a lotte
all'ultimo sangue tra le due potenti famiglie
dei Cerchi, appartenenti ai Guelfi Bianchi,
e dei Donati, che erano a capo dei Guelfi
Neri, ed ormai la distinzione di partito
era solo pratica, mentre si scadeva in questioni
sempre più personali: era una lotta
di interessi, una guerra senza esclusione
di colpi tra persone violente, faziose,
corruttrici. Il vero padrone dell'opulenta
Firenze era il denaro. Dante rimase immischiato
fino al collo in queste lotte di parte.
In realtà le sue idee erano nobilissime:
desiderava il ripristino della concordia
in città, una garanzia di libertà
contro le mire del Papato, il trionfo della
legge. Ma il suo temperamento impetuoso
e fazioso lo portò ad accomunarsi
ai Bianchi oltre il lecito. Comunque nessuno
poteva aver dubbi sulla sua serietà:
aveva combattuto nelle prime file nella
battaglia di Campaldino contro i Ghibellini
d'Arezzo, aveva finanche mandato in esilio
il suo più caro amico, Guido Cavalcanti,
quando si era stabilito di ripulire la città
dai capi dei due partiti opposti. Ma forse
proprio per integrità morale non
riuscì ad entrare fino in fondo nel
gioco sottile delle fazioni e degli intrighi.
Si era inimicato il Papa e i potenti. I
Donati provocarono un rovesciamento di parte,
e fu loro molto facile gettarlo ai margini
della vita pubblica. Forse si trovava a
Roma o forse a Siena il giorno 27 gennaio
1302, quando il governo di Firenze gli comminò
un esilio di due anni con l'accusa di baratteria,
cioè abuso di potere. Dante non si
recò a Firenze per discolparsi, e
la sua assenza fu giudicata un'ammissione
di colpevolezza. Così la condanna
all'esilio venne tramutata addirittura in
una condanna a morte sul rogo, la vecchia
casa degli Alighieri venne demolita completamente.
Da questo momento Dante rimase per sempre
in esilio.
Certamente sentì il suo destino come
terribile, vagando "per le parti quasi
tutte a le quali questa lingua (leggasi
il "volgare" italiano) si stende,
peregrino, quasi mendicando", "un
legno sanza vela e sanza governo, portato
a diversi porti e foci e liti dal vento
secco che vapora la dolorosa povertade",
come fosse stato un relitto in balia delle
onde sbattuto di qua e di là, dall'una
all'altra corte d'Italia. Inizialmente rimase
con gli altri fiorentini esiliati con lui;
poi però capì che anche quelli
non erano migliori di chi era rimasto in
città, dovette riconoscere che anche
la sua fazione era una "compagnia malvagia
e scempia". E così fece "parte
per se stesso", rimanendo orgoglioso
e avvilito al tempo stesso. Finora aveva
fallito tutto: in politica aveva fatto fiasco;
i fiorentini erano ben lontani dall'ascoltare
le sue "prediche"; era poeta e
per guadagnarsi da vivere era costretto
a far da scrivano, segretario, compagno
di feste e talora ambasciatore di scarsa
importanza presso gli Scaligeri di Verona
o i Malaspina in Lunigiana, presso vari
signori che, bene o male, lo trattavano
tutti con una certa sufficienza.
Ma il fallimento più vistoso di Dante,
quello che senz'altro lo amareggiò
di più, fu di natura più segreta:
voleva essere ricordato come il più
grande sapiente del tempo e perciò
cominciò a scrivere il "Convivio"
dove voleva racchiudere tutta la scienza
dei suoi tempi, ma non riuscì a portare
l'opera neanche alla metà di ciò
che aveva preventivato.
Un barlume di speranza si accese in lui
quando l'imperatore Arrigo VII di Lussemburgo
scese in Italia. Finalmente qualcuno avrebbe
messo freno alle mire del Papato e avrebbe
dato ragione alla sua teoria politica dei
"due soli", il Papa e l'Imperatore,
ognuno indipendente e sovrano nel proprio
ambito di competenza. Arrigo VII, però,
incontrò ostilità e cercò
di tornare in patria, dove comunque non
riuscì ad arrivare perché
morì. Quando Dante finì di
scrivere il suo "De Monarchia",
in cui esprimeva le sue speranze riguardo
a questo nuovo ordine politico che Arrigo
VII avrebbe dovuto instaurare, il suo trattato
non era ormai niente più che un monumento
a un'utopia.
Cominciò dunque a lavorare accanitamente
alla Commedia, dove trasferiva tutto se
stesso, tutta l'estenuante fatica del suo
vivere, attraverso un viaggio allegorico
dall'Inferno al Purgatorio fino al Paradiso,
dove signoreggia l'immagine di Beatrice,
quell'amore che per lui è diventato
trascendente tanto da elevarsi ad avere
valore divino e ad essere superiore a qualsiasi
altro amore della Terra.
Durante gli ultimi anni della sua vita il
sommo poeta trovò rifugio a Ravenna,
città calma e raccolta, colma di
ricordi e di voci che venivano dal passato.
Qui il suo spirito di uomo apparentemente
tagliato fuori dal suo tempo, il suo spirito
di uomo "fallito", trovò
il silenzio che gli era necessario per portare
a compimento la sua grande opera. Qui godeva
dell'amicizia del signore della città,
Guido Novello da Polenta, e di altre persone
discrete; qui fu confortato dai tre figli
che nel frattempo lo avevano raggiunto da
Firenze. Forse il paesaggio del suo Paradiso
terrestre fu ispirato dal paesaggio che
lo circondava: il "tremolar della marina"
dolce e vibrante, la pineta "spessa
e viva"; poco lontano il Po s'inoltrava
fino al mare attraverso le paludi "per
trovar pace co' seguaci sui". All'intorno
c'era pace, nel suo animo finalmente c'era
chiarezza, nella sua mente una grande frenesia
di finire al più presto il "Paradiso"
Probabilmente furono proprio le paludi del
Po ad ucciderlo. Era tornato tremante per
la febbre da un'ambasceria a Venezia per
Guido Da Polenta. Si mise a letto e peggiorò
sempre, nonostante le amorevoli cure dei
figli e degli amici. Tra il 13 e il 14 settembre
1321, molto probabilmente appena poche settimane
dopo aver concluso il suo "Paradiso",
spirò.
Guido Da Polenta lo fece incoronare con
l'alloro dei poeti, ma ben pochi a quei
tempi seppero che era scomparso l'uomo che
aveva saputo racchiudere nella sua opera
tutto il secolo che lo aveva generato insieme
a un grandioso e spietato ritratto di se
stesso.
Rossella Maria Luisa Bartolucci
rbart@ciaoweb.it
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