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LE INTERVISTE
DI PB
Mirella
Floris intervista Marina Torossi Tevini
Marina
Torossi Tevini è scrittrice
italiana. Nata a Trieste, è laureata
in lettere classiche.
Nel 1993, con il racconto Una donna
senza qualità, vince il primo
premio del concorso letterario Il leone
di Muggia.
Nel 1997 cura la pubblicazione postuma
del romanzo del padre, La valle del
ritorno. Lo stesso anno riceve il
premio speciale della Giuria al festival
Felsina.
Nel 1998 riceve la menzione speciale al
via di Ripetta.
Collabora a riviste nazionali
ed internazionali, come Stilos, Zeta
news ed Arte&Cultura.
Bibliografia
* 1991 - Donne senza
volto (poesie), edizioni Italo Svevo
* 1994 - Il maschio ecologico (antologia),
Campanotto editore
* 1997 - L'unicorno (poesie), Campanotto
editore
* 2002 - Il migliore dei mondi impossibili
(antologia), Campanotto editore (ISBN
8845603938)
* 2004 - Il cielo sulla Provenza, Campanotto
editore (ISBN 8845606376)
Attraverso quali generi letterari preferisci
esprimerti?
Ho iniziato giovanissima a scrivere in prosa,
poi ho lasciato questa attività per molti
anni. Scrivevo poesie, talvolta, poesie che
con gli anni si sono accumulate e, quando ho
finalmente deciso di uscire allo scoperto, -
dopo la morte di mio padre, - ho iniziato proprio
con la pubblicazione di una parte delle poesie.
Poi sono usciti alcuni libri di short story,
genere che amo molto perché nella sua
essenzialità è molto allusivo,
e riesce a esprimere profondamente i nuclei
fondamentali del pensiero e dell'emozione, infine
sono passata a racconti più lunghi, al
romanzo e al racconto di viaggio. Anche l'attività
saggistica, che mi consente di manifestare in
modo più strutturato il mio pensiero,
è un campo che mi intriga molto.
Perché scrivi?
Chi scrive si sente fare spesso questa domanda,
forse perché scrivere non è poi
così naturale come attività. Si
tratta di un'azione che esula, e in qualche
modo contrasta, con le normali attività
che contraddistinguono l'essere umano, almeno
le attività elementari, quelle inerenti
alla sopravvivenza del singolo e al perpetuarsi
della specie. Scrivere in qualche modo sta a
metà tra un processo di esplorazione
della realtà ed espressione di sé.
L'io che scrive è un io che esplora attraverso
questa via il possibile della realtà
e lo manifesta attraverso il suo personale modo
di sentire. Ma forse nel fare questo - che potrebbe
sembrare un atto di immodestia - è presente,
se si vuole arrivare ai livelli più alti,
anche un atto di profonda modestia. L'io in
qualche modo deve scomparire e chi scrive si
fa cassa di risonanza del mondo, diventa in
qualche modo "una conchiglia che risuona".
Da attività soggettiva e supponente quindi
la scrittura - e in generale l'arte - mi sembra
diventi umile e faticoso artigianato in cui
tanti pazienti amanuensi danno il loro contributo
per creare tasselli di un mosaico che rappresenta
"il mondo oltre il mondo stesso",
la realtà oltre la sua immediata - e
soggettiva - percezione. Paradossalmente dal
massimo della soggettività si arriva
a una condizione che va al di là del
soggetto, che si integra con altre voci e costruisce
una lettura complessa e multiforme dell'esistente.
Per arrivare ora alla domanda nei suoi aspetti
più personali, io ho scritto da sempre.
Ho sentito da sempre l'esigenza di riplasmare
le idee attraverso narrazioni, pensieri, talvolta
versi. Per lunghi periodi non l'ho fatto perché
impiegata in altre attività, e ho sentito
come un sordo dolore, una sensazione di non
star percorrendo la mia strada. Forse ognuno
di noi ha una via da percorrere ed è
felice solo se lo fa.
Come consideri la letteratura? Qual è
a tuo avviso la sua funzione? Anche se Manganelli provocatoriamente definiva
la letteratura: "nome di privilegiata infamia,
che designa atti inutili, anche viziosi, di
arbitraria, provocatoria libertà"
la letteratura paradossalmente mi sembra una
forma di ricerca e di espressione della verità
nell'ambito della comunicazione. C'è
un nucleo di profonda verità all'interno
di quella che può essere una realtà
immaginata e non attendibile che l'artista crea,
e questo nucleo vive a prescindere dall'artista
stesso ed è manifestazione di qualcosa
che lo trascende. La menzogna diventa quindi
una superverità di cui in qualche modo
l'autore non è neppure responsabile.
È solo l'umile tramite che ha svelato
più di quanto la realtà potrebbe
esprimere attraverso una narrazione o un'allegoria.
Claudio Magris ha scritto: "Spesso le menzogne,
vale a dire alcune metafore, sono l'unico modo
di dire alcune verità, di dire cosa si
è, qual è la propria avventura".
Narrando di noi non narriamo noi stessi in modo
così completo come invece ci accade di
fare attraverso personaggi che ci sono apparentemente
lontani. Nella libertà dell'invenzione
fantastica si realizza con maggior compiutezza
l'espressione del soggetto e della realtà.
Ami di più la diffusione del tuo
pensiero attraverso la rete o il libro stampato?
Da anni ho messo in rete alcuni miei lavori,
sono attiva in alcune mailing list e sono presente
in qualche blog, mi piace far leggere, talvolta
anche in diretta, i miei scritti. In rete inoltre
si creano dei rapporti umani, quindi il gioco
della comunicazione è complesso e coinvolgente.
È indubbiamente un mondo che ha il suo
fascino, - e anche i suoi limiti, ovviamente.
La conoscenza con i lettori può essere
diretta nelle manifestazioni a cui sono invitata
o che ho organizzato a Trieste in questi anni
di attività. Trieste è un ambiente
abbastanza limitato per certi aspetti, ma intrigante,
perché quasi tutti quelli che, a diversi
livelli, si occupano di letteratura si conoscono.
In questo senso uno si sente meno isolato che
nelle megalopoli, anche se gli incontri di eccellenza
sono, per forza di cose, limitati.
Quanto ai libri che ho pubblicato dalle raccolte
di racconti Il maschio ecologico e Il migliore
dei mondi impossibili al romanzo Il cielo sulla
Provenza al recente Viaggi a due nell'Europa
di questi anni sono reperibili in rete nel circuito
Ibs e in altri (Bol, libreria universitaria
etc) e in alcune librerie, su ordinazione però,
perché un piccolo editore non riesce
a essere presente nei grandi circuiti.
Come giudichi il mondo della grande editoria? Il mondo editoriale è, come ogni
altro settore della nostra società, soggetto
all'economia. Soggetto in modo potente e vincolante.
Nell'ultimo decennio l'editoria, intendo la
grande editoria, sembra molto aperta soprattutto
nei confronti dei giovani. Si dà modo
a molti esordienti di salire sul podio, di avere
il loro momento, di essere pubblicati. In realtà
la casa editrice fa una scelta relativa, che
non è connessa solo al valore dell'opera,
ma all'ipotesi di vendita. È difficile
però ipotizzare le reazioni del pubblico:
il pubblico va a emozioni, a mode; come un gigantesco
animale si muove in modo imprevedibile. Il pubblico
è corruttore, lo sapeva già Svevo
e se ci si basa solo sul giudizio del pubblico
si corre il rischio di prendere lucciole per
lanterne. L'autore viene "testato sul campo"
e poi, se non si ottiene un ritorno significativo,
abbandonato al suo destino. Un libro non nasce
quando viene pubblicato ma quando, con il passaparola
dei lettori, trova un consenso di pubblico.
Per trovarlo deve in qualche modo incontrare
i gangli che in questo momento sono scoperti.
Il lettore medio ha delle idee che sono più
o meno le idee del tempo, quindi un libro -
anche di grande valore - che non le contenga
è destinato per forza di cose a fallire.
Vince insomma chi dice bene ciò che la
gente già pensa. È un invito al
conformismo. Accolto, come i libri che leggiamo
in generale dimostrano.
Il tempo nel passato ha fatto giustizia Il passato attesta di grandissimi libri
che non incontrarono il successo perché
fuori tempo o in anticipo sulle idee correnti.
Erano libri che postulavano soluzioni troppo
ardite o erano al di là della possibilità
di comprensione del lettore del tempo. Anche
oggi è così. Solo che tutto in
questo mondo si è moltiplicato a dismisura.
I libri sono tantissimi. Le nuove uscite destinate
al successo o a essere mandate al macero sono
in numero così elevato che nessuno può
veramente avere una conoscenza esaustiva di
quanto c'è sul mercato. Questo rende
aleatorio anche il consolarsi pensando che il
tempo farà giustizia. Speriamo non vacilli
quel supporto culturale che ha mantenuto in
passato le fila e che, al di là del tempo,
ha salvato quello che doveva essere salvato(certo,
anche in questo il caso ha giocato la sua parte).
Alle volte penso con malinconia a quanto del
pensiero umano vada sprecato. Eppure mi sembra
che, in un certo qual modo, nulla in quel complesso
organismo che è il mondo vada veramente
perduto. Come ogni organismo vegetale o animale
si trasforma, diventa cibo e poi nuovo nutrimento
per la terra, il piccolo contributo che ognuno
dei noi dà con la sua opera rimane, e
anche se il nome di moltissimi di noi è
destinato a scomparire, il lavoro fatto non
andrà perduto completamente, perché
sarà stato un piccolo apporto al pensiero
umano.
Qual è la tua esperienza personale?
Con chi hai pubblicato? Ho pubblicato sinora solamente con un piccolo
editore, Campanotto, quindi sono fuori dei giochi
commerciali e anche ovviamente dalla possibilità
di risonanza di una certa portata. "Vivi
nascostamente", suggerivano gli antichi,
e in effetti credo che starsene in una posizione
appartata, seppure attenta e vigile nei confronti
di ciò che succede nel mondo e in particolare
nel mondo dell'arte, sia una posizione di privilegio.
Consente una grande libertà. Di contro
però si ha un limitato raggio di influenza.
È lo scotto da pagare. Talvolta sono
presa da una sorta di malinconia e penso che
dovrei fare qualcosa di più per i miei
scritti, tentare di dar loro una vita più
duratura. Poi però mi consolo del mio
lavoro appartato e assiduo.
Nella nostra società la cultura si
è trasformata. Tu che hai operato nel
mondo della scuola per anni che opinione hai
in merito? Potremmo definire la cultura "conoscenza
di quanto di significativo le generazioni che
ci hanno preceduto hanno prodotto". È
indubbiamente vero che nelle scuole da decenni
si incontra una grande difficoltà a fare
lezione seriamente. Gli insegnati devono costantemente
patteggiare per sopravvivere all'interno di
un mondo che chiede loro più capacità
di intrattenimento che cultura e professionalità.
Baricco nel suo I barbari tratteggia con molto
garbo (troppo!) questa realtà. C'è
nei giovani una richiesta di conoscenza, ma
non la voglia di sobbarcarsi la fatica che il
conoscere comporta. Nel nostro mondo dove tutto
deve essere facile, alla portata di tutti, è
impopolare affermare che la cultura, se vuol
essere approfondita, comporta una dose notevole
di fatica. Oggi si vuol ottenere tutto facilmente,
magari divertendosi. Gli insegnanti sono costretti
a rimanere in superficie. Insegnano in modo
settoriale senza dare ai ragazzi i fondamenti
e le basi di ciascuna disciplina. Le voragini
culturali che la scuola italiana di oggi regala
agli alunni fanno venire le vertigini. Eppure
non sono del tutto pessimista. Qualcuno si salva.
Forse perché ha avuto la fortuna di avere
qualche insegnate coraggioso, forse perché
un'intelligenza superiore riesce sempre e comunque.
Insomma qualcuno riesce ad uscire dalla nostra
disastrata scuola possedendo le coordinate del
passato e del presente e riuscendo a orizzontarsi
in una realtà complessa. Anche se viviamo
in un mondo di barbari, quelli che salveranno
la nostra tradizione non saranno i barbari (mi
perdoni Baricco), o saranno barbari sufficientemente
acculturati, capaci di rimasticare il passato
e farne uso per leggere il presente. Perché
se non è bussola per orientaci, indicazione
di rotta per non vagare smarriti cos'altro è
la cultura?
Per gentile concessione di
Mirellla Floris
e Marina Torossi Tevini
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