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LE INTERVISTE
DI PB
Salvo
Zappulla intervista
Paolo Di Stefano
Paolo Di Stefano
è nato nel 1956 in Sicilia, ad
Avola in provincia di Siracusa. È
cresciuto a Lugano, nel Canton Ticino.Laureato
alluniversità di Pavia, di
professione è giornalista. Ha lavorato
per il Corriere del Ticino e per La Repubblica.
Attualmente è inviato del Corriere
della sera. Paolo Di Stefano, scrittore,
poeta e giornalista siciliano di nascita
ma ticinese dadozione, ha vinto
i premi letterari italiani Superflaiano
e Vittorini con il libro "Tutti contenti".
D. Di Stefano, questa è una storia
dura, dall'impatto violento, perché ha
voluta raccontarla ai suoi lettori? R. Potrei rispondere che non sono io ad
essere stato attratto da quel fatto ma è
stato quel fatto a inseguirmi. La realtà
è che uno scrittore, in genere, vive
di ossessioni: una delle mie, che mi insegue
(appunto) da quando ho cominciato a scrivere,
è l'infanzia minacciata dagli adulti,
dal mondo, dal destino, dalla malattia eccetera.
L'infanzia minacciata, l'infanzia cui per qualche
ragione è impedito di crescere. E' un'immagine
che mi risulta quasi insopportabile: non riesco
a tollerare che un bambino soffra, mi pare profondamente
ingiusto e inaccettabile, e forse è per
questo che ci scrivo sopra i miei romanzi, dal
primo ("Baci da non ripetere") a "Tutti
contenti". Quando l'infanzia si trova,
per qualche ragione, a sfiorare la tragedia
o la morte, la mia sensibilità si accende
quasi furiosamente e mi costringe a scrivere
per liberarmi (almeno provvisoriamente) di quel
trauma. Ecco perché mi sono messo a raccontare
la storia di Rita. Ma alla fine forse per una
risposta più convincente potrei ricorrere
a Gadda: "Il mio libro è il prodotto
di una normale attività fisiologica:
l'ho scritto per la stessa ragione per cui il
mio cuore batte, i miei polmoni respirano ".
D. Certi traumi infantili si ripercuotono
negativamente per l'intera esistenza, e spesso
elementi esterni intervengono quando un minore
non è protetto dai genitori. Quanto è
importante il calore di una famiglia sana per
la formazione di un individuo? R. Mi rendo conto che continuo a girare
intorno a questi temi trovando solo risposte
parziali. Ho come l'impressione che le famiglie
"sane" tradizionalmente intese non
esistano più: c'è sempre qualche
ragione endogena o esogena che interviene a
turbare un equilibrio in genere già fragile.
Tuttavia, è chiaro che la famiglia rimane
il luogo centrale per la formazione (e per la
deformazione, purtroppo) individuale. Per questo,
la famiglia è sempre più un nucleo
tematico interessante per la letteratura: è
una sorta di inesauribile motore di immagini
e visioni del nostro tempo. E' come se in essa
fosse contenuta una forza mitica di tensioni
primarie. Me lo ha fatto notare Gabriele Pedullà
in una sua recensione apparsa sul "Manifesto":
in fondo, la pedofilia che io racconto è
il sintomo estremo dell'impazzimento in atto
del ciclo delle generazioni. Il pedofilo non
è oggi colui che sovverte l'ordine biologico
ma colui che rende manifesto un principio più
generale di una società di lolite dodicenni
e settantenni. Una società fatta di adulti
infantili e di bambini costretti a maturare
troppo presto.
D. Rita, la protagonista del suo romanzo,
instaura un legame quasi di complicità
con il suo carceriere, chiamato da lei affettuosamente
"Il signor Sergio". Si sviluppano
tra carnefice e vittima quei meccanismi contorti
che rendono quest'ultima estremamente debole,
incapace di reagire. Nel suo romanzo scava molto
sulla fragilità della psiche umana. Cosa
ha voluto fare emergere? R. Non c'è intenzionalità
nel mio racconto. Dunque, non posso dire di
aver voluto far emergere qualcosa. Semplicemente,
man mano che procedevo nella scrittura e via
via che i personaggi prendevano voce forma e
vita mi accorgevo che affioravano, a mia insaputa,
meccanismi psicologici ambigui, doppi. Rita
cominciava a dire di essere lei la più
forte, quasi volesse proteggere il suo carceriere.
Quando accadono delitti del genere, la televisione
e le cronache dei giornali non ci dicono mai
abbastanza: raccontano questi fatti restando
in superficie, descrivendone le dinamiche e
magari tirando fuori dal cappello ogni tanto
qualche curiosità più o meno pruriginosa.
Soprattutto non mettono mai in gioco i sentimenti,
le psicologie delle persone, le emozioni profonde
e autentiche. Per capire davvero ci vuole qualcosa
in più. Ecco, io sono partito da lì,
da dove poteva partire la letteratura, dalle
parole e dalle emozioni, dalle parole che esprimono
emozioni. E da lì a poco a poco si sono
formati i personaggi. Direi che ho scritto questo
libro per dare a Rita - ma anche a suo padre
Toni Scaglione - la possibilità di raccontare
la sua tragedia perché tornasse a vivere
nel mondo. Per questo ho fatto un enorme sforzo
di empatia. Ho cercato di immedesimarmi in lei
e di lasciarla parlare dentro di me. Via via
che il lavoro procedeva, questo processo di
identificazione mi riusciva sempre più
naturale. Mi sentivo come una sorta di ventriloquo
che trascriveva sulla pagina la fragilità,
le paure, le fantasie raccontate dalla ragazzina
attraverso di me.
D. Lei è originario di Avola (SR).
Ad Avola c'è l'associazione di don Di
Noto che si batte incessantemente contro la
pedofilia, un' associazione di volontari. Pensa
che le Istituzioni facciano abbastanza per combattere
il triste fenomeno degli abusi sui minori? R. I bambini vittime di abusi crescono in
maniera esponenziale e preoccupante. Ammiro
moltissimo le persone che si battono contro
questa sciagura sociale. Ma non so se le Istituzioni
possano davvero fare qualcosa attraverso dei
decreti legge o altro. Ritengo piuttosto che
si tratti di questioni più profonde non
sanabili con atti legislativi o di polizia.
Si tratta di questioni che affondano le radici
nei valori culturali e morali della nostra società.
Viviamo un'epoca di capovolgimenti spaventosi
che rischiano di "giustificare" ogni
tipo di deviazione o di perversione. Per esempio,
trovo inammissibile l'uso che viene fatto in
pubblicità e in televisione del corpo
femminile e dell'infanzia. Bisognerebbe cominciare
da una rivoluzione dei costumi e della cultura.
D. Come concilia la sua attività
di giornalista con quella di scrittore?
R. Da un po' di tempo le due attività
convivono senza troppo confliggere. Sul piano
pratico, è più semplice che in
passato, perché essendo ormai da sette
anni un inviato del Corriere non ho obblighi
stretti di presenza in redazione e i tempi di
lavoro sono molto più flessibili. Dunque
posso organizzare meglio i tempi della scrittura
"creativa". Ma anche sul piano teorico
le cose si sono semplificate: mentre prima pensavo
che non dovessero esserci sovrapposizioni di
sorta, oggi sono convinto che l'occhio e l'orecchio
del giornalista possono essere utilissimi allo
scrittore. E riutilizzo nei romanzi molti materiali
raccolti sul campo. Certo, poi bisogna sempre
tener ben distinte le cose nell'atto della scrittura:
e cioè non cedere mai alla tentazione
di fare il giornalista scrivendo romanzi e di
fare lo scrittore facendo articoli di giornale.
Per gentile concessione di
Paolo Di Stefano
e Salvo Zappulla
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