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Cuba 1898, il tramonto di un impero
di Marco R. Capelli


Ultimo decennio del XIX secolo, dell’immenso impero Spagnolo, sul quale, per usare le parole di Carlo V, non calava mai il sole, non restano che poche colonie: Cuba, Portorico, Guam, le Filippine ed una piccola parte del Marocco.
D’altra parte, a differenza degli inglesi, i monarchi spagnoli non hanno mai saputo trarre grandi vantaggi da quell’impero. Forse è mancata loro la necessaria capacità organizzativa, certamente, sia stato per arroganza o ottuso conservatorismo, non sono stati in grado di comprendere e sfruttare i mutamenti sociali e tecnologici degli ultimi due secoli. Nel resto del mondo sono arrivati l’illuminismo e la rivoluzione industriale. Nel 1776 è stata scritta la dichiarazione d’indipendenza americana. In Francia sono andati ben oltre e dopo l’abolizione dei privilegi feudali (4 Agosto 1789), ci sono stati la presa della Bastiglia, la Rivoluzione, gli eccessi e gli orrori del Direttorio e del Terrore. E’ stato persino ghigliottinato un re, e, dopo di lui, sono stati giustiziati i suoi giudici: Danton, Marat, l’incorruttibile Robespierre. Napoleone ha sconvolto l’Europa, l’ha illusa e l’ha tradita, sconfitto a Waterloo, è stato rinchiuso nella gabbia dorata dell’isola d’Elba. Risorto per cento giorni e nuovamente sconfitto, ha certamente avuto modo di riflettere sullo strano destino delle cose umane contemplando silenziosamente le onde dell’Atlantico infrangersi sulle scogliere di un’inutile Sant’Elena. Il congresso di Vienna (1816) ha dimostrato l’impossibilità di riportare indietro l’orologio della storia, migliaia di giovani idealisti si sono sacrificati per il sogno romantico delle identità nazionali. Byron è morto in Grecia, diventerà immortale, ma le sue opere saranno meno lette di quelle del suo segretario Polidori, anche se nessuno ancora lo sa, e Pellico ha scritto il diario amaro delle sue Prigioni nel silenzio del carcere duro dello Spitzerg.
Eppure, di tutto questo, nulla o quasi è arrivato nelle ultime colonie spagnole, la macchina burocratica antiquata, rigidamente assolutista ha filtrato ogni aspirazione libertaria o umanitaria mummificando la struttura sociale nella forma di un arcaico, immutabile, conservatorismo.
Neppure la perdita, gravissima, delle colonie sud americane, insorte e ribellatesi tra il 1810 ed il 1825 sotto la guida del libertador Simon Bolivar, sembra aver insegnato nulla all’immobile, superbo, impero spagnolo.
Nel frattempo, sulla scena internazionale, si è affacciata una nuova potenza. Abbandonata da tempo la politica di Monroe (L’america agli americani), forti del dinamismo della loro economia capitalistica e della superiorità tecnologica delle loro industrie, gli Stati Uniti si sono già espansi ai danni del Messico ed hanno ora rivolto il loro interesse a Cuba ed a Portorico nel tentativo di estendere la loro area di influenza a tutto il Sud America ed poi al Pacifico.

Ultimi decenni del XIX secolo, dunque. Cuba, l’isola che Colombo aveva definito la più bella tra tutte le terre, si dibatte inutilmente sotto il giogo spagnolo. La nobiltà iberica detiene la proprietà della maggior parte delle risorse, in particolare degli impianti saccariferi, mentre gli abitanti dell’isola sono oppressi dalla burocrazia, dai privilegi nobiliari, dall’eccesso di tasse e tributi. Il caudillo Narciso Lopez, nel tentativo di imitare i grandi libertadores dell’america latina come Bolivar e San Martin ha tentato per ben tre volte l’insurrezione armata, la prima nel 1848. Ma viene arrestato e giustiziato come un volgare bandito il 1° Settembre del 1851.
Nel 1868, forse come conseguenza dell’esito della Guerra di Secessione Americana (1861-1865), forse per far fronte a tensioni sempre più forti, i possidenti spagnoli decidono di abolire la schiavitù, decisione comunque non supportata ufficialmente dal governo d’oltreoceano. Ma è troppo tardi, perchè dopo pochi mesi scoppia la grande guerra, ovvero la prima vera rivoluzione cubana. Ne è promotore ed ispiratore Carlos Manuel de Cespedes. De Cespedes è laureato a Barcellona, discende da un’antica famiglia nobile e, soprattutto, ha viaggiato per molti anni in Europa, eppure è proprio lui l’uomo che nel cortile dello zuccherificio di Demajagua, davanti ad un piccolo gruppo di patrioti, pronuncia per primo le parole “Libertà o morte. Viva Cuba libera!”. E’ il 10 Ottobre 1868, quella notte gli insorti conquistano il villaggio di Yara e, pochi giorni dopo, la città di Bayano. La grande guerra durerà dieci anni e costerà più di 200’000 morti.

I ribelli, tra cui figurano nomi come Maximo Gomez, Francisco Vincente Aquilera e Igacio Agramonte, stringono contatti diplomatici con gli Stati Uniti e sventolano la nuova bandiera (due striscie bianche e tre azzurrre che terminano in un triangolo rosso al cui centro si trova una stella bianca) sulle città conquistate. Però il governo spagnolo non ha intenzione di rinunciare al controllo sull’isola e la lotta si fa sempre più cruenta. Il 25 Agosto 1871 “Placido”, ovvero Juan Clemente Zenea, poeta libertario, viene fucilato dalle autorità spagnole, ignorando un salvacondotto ufficiale che esse stesse avevano rilasciato. In Ottobre è la volta di otto studenti di medicina, accusati (forse ingiustamente) di aver violato la tomba di un giornalista fedele alla corona. L’economia dell’isola, basata sulla monocultura dello zucchero - dal 1820 l’isola è il maggior produttore di zucchero di canna del mondo, grazie anche al lavoro di migliaia di schiavi neri e gli Stati Uniti sono il cliente principale del prodotto finito - è a pezzi e già serpeggia lo spettro della fame, mentre i rivoltosi tentano, sempre inutilmente, la presa del porto dell’Avana. Nel 1878 (12 Febbraio) le due parti esauste siglano un precario cessate il fuoco, che comprende vaghe promesse di maggiore autonomia e l’abolizione, ufficiale, questa volta, della schiavitù. La riconciliazione effettiva è tuttavia impossibile, gli spagnoli hanno perso 140’000 uomini, sconosciuto ma certamente enorme il numero delle perdite civili, ed incolmabile è l’abisso scavato tra le due parti in lotta da quel fiume di sangue. Inizia così quella che gli storici chiamano piccola guerra, una guerriglia scarsamente organizzata che si trascina per due anni (1878-1880) fino a quando il governatore spagnolo Camilo Polavieja ripristina, con la forza delle armi, l’ordine coloniale.

Gli Stati Uniti studiano segretamente l’annessione dell’isola, gli Spagnoli cercano di placare la comunità creola, i profughi cubani emigrati in america pianificano il rovesciamento del regime spagnolo a qualunque costo, tuttavia ci vogliono altri quindici anni prima che la rivolta popolare riesca a riorganizzarsi. Alla guida degli insorti, questa volta, si pone il tribuno Josè Marti, poeta e saggista, che fonda il Partito Rivoluzionario Cubano in esilio e firma assieme a Maximo Gomez, eroe dell’insurrezione del 1868, il Manifesto de Montecristi, chiamata alle armi per tutta la popolazione cubana. E’ la rivoluzione popolare, che si estende in breve a tutte le case, a tutti i villaggi, forte anche dei finanziamenti che arrivano dai cubani emigrati negli stati uniti. Martì diventerà un eroe nazionale e morirà in battaglia nel 1895, poche settimane dopo essere sbarcato sull’isola.
Tuttavia in Spagna non ci si rende conto della portata di questo movimento che viene considerato come la “solita” rivolta coloniale. I possidenti spagnoli non sono disposti a concedere un’autonomia che avrebbe come risultato la perdita del monopolio nella produzione e nell’esportazione dello zucchero di canna ed un nuovo esercito, quasi arruolato a viva forza, viene spedito dal parlamento sull’isola per riportare l’ordine.
E’ a questo punto che gli stati uniti fanno la prima mossa ufficiale, schierandosi formalmente dalla parte degli insorti, in nome (sic) dei diritti umanitari. Però, nel 1896, il governatore Martinez Campos viene sostituito dall’implacabile generale Valeriano Weyler che, contando su una forza di oltre 200’000 uomini inizia una dura repressione. La ribellione ha i suoi covi in ogni villaggio, in ogni agglomerato urbano, in ogni casa, allora Weyler decide di costruire enormi campi di concentramento dove rinchiudere tutti i sospetti di attività antispagnole. In breve tempo i campi arrivano ad ospitare (si fa per dire) più di 300’000 civili. Da un lato i ribelli avanzano bruciando le piantagioni, dall’altra parte, Weyler deporta i contadini, in pochi mesi l’economia dell’isola è in ginocchio e la popolazione conosce la fame e la miseria.
Il patriota Antonio Maceo scrive in quello stesso anno “...non mi aspetto alcun aiuto dagli americani (...) meglio cadere o precipitare da soli che contrarre un debito con un vicino tanto potente”. Maceo morirà il 7 Dicembre 1896, in combattimento, e con lui morirà, forse suicida, anche il suo assistente di campo, il figlio di Maximo Gomez.
Finalmente, nel 1897, le sorti del conflitto si invertono, i ribelli controllano ormai la zona centro est dell’isola e si moltiplicano le diserzioni tra le fila degli spagnoli il cui esercito, all’inizio del 1898 è quasi dimezzato. Anche dall’altra parte dell’Oceano il governo spagnolo inizia a rendersi conto che la situazione non può essere risolta con la forza. Quando il primo ministro Antonio Canovas, nettamente contrario a concedere qualsiasi forma di indipendenza all’isola, viene assassinato da un anarchico filocubano, il nuovo governo decide di tentare un approccio più morbido.
La possibile riappacificazione fra Cuba e la Spagna preoccupa gli Stati Uniti che decidono di forzare gli eventi. Il 25 Gennaio del 1898 nel porto dell’Avana entra l’incrociatore americano Maine. Ufficialmente, si tratta di una visita di cortesia, in realtà la sua missione è quella di controllare la situazione più da vicino. Da un lato si tratta di ricordare agli spagnoli che Cuba si trova ai limiti della zona d’influenza nord americana, dall’altra di riprendere i contatti con il movimento rivoluzionario che, in caso di vittoria, potrebbe rivelarsi più difficile da controllare di quanto previsto. Nel frattempo, gli ufficiali del Maine passano pigramente le loro giornate nei circoli militari spagnoli, bevendo ed attendendo che succeda qualcosa.

E qualcosa succede. Sono le 21:43 del 15 Febbraio 1898, l’esplosione è assordante e viene sentita in tutta l’Avana. La gente si precipita in strada, i marinai escono da osterie e bordelli. Non c’è neppure il tempo di organizzare i soccorsi, le fiamme si levano alte sul ponte squarciato del Maine illuminando di riflessi rossastri le acque calme del porto.
In pochi minuti l’incrociatore affonda, parte dei marinai superstiti vengono soccorsi dalla nave da guerra spagnola Alfonso XII, altri riescono a raggiungere a nuoto le banchine del porto. In totale mancheranno all’appello 2 ufficiali e 264 marinai. Un bilancio grave (anche ammesso che qualcuno non sia morto e ne abbia approfittato per disertare), anzi gravissimo.
Un affronto che il governo statunitense non può ignorare ma... chi incolpare?
I giornali americani dell’epoca non hanno dubbi, specialmente quelli che appartengono al miliardario Hearst, i cui interessi nei confronti di Cuba sono noti a tutti e non esattamente di tipo umanitario: si è trattato di una mina piazzata nella stiva dagli spagnoli. Un sanguinoso avvertimento agli americani affinchè si tengano lontani da Cuba.
In realtà, le cause dell’esplosione restano estremamente incerte. Quale interesse avrebbero avuto gli spagnoli a provocare in quel modo il colosso statunitense? Certamente i patrioti cubani ne avrebbero avuto un vantaggio maggiore se, con quell’atto terroristico, fossero riusciti a trascinare gli americani nel conflitto. Nel 1911 il relitto è stato tirato a galla e gli esperti hanno confermato l’ipotesi di una mina, però un secondo esame, condotto nel 1974 dall’ammiraglio Hyman G.Rickover, sembra essere giunto ad un diverso risultato. Nel rapporto finale si legge semplicemente: “Le prove disponibili sono coerenti con l’ipotesi di una esplosione interna, generata probabilmente da un incendio generatosi in un magazzino di carbone”. Quale che sia la verità, l’opinione pubblica indignata reclama vendetta ed il colonnello Theodore Roosvelt organizza un gruppo di volontari pronti ad attaccare gli spagnoli con o senza l’appoggio del governo. Il presidente Mc Kinley, ufficialmente, si mantiene neutrale salvo poi cedere alla pressione del parlamento ed appoggiare il partito interventista di Hearst dopo che il governo spagnolo rifiuta una offerta di trecento milioni di dollari per l’acquisto dell’isola. Il 25 Aprile 1898 gli stati uniti dichiarano guerra alla Spagna, la flotta americana, però, è già schierata attorno all’isola dal 21 Aprile.
I patrioti cubani non sono del tutto convinti della situazione ma, tra i due mali, scelgono il minore e Calixto Garcia, capo delle forze che controllano la zone est dell’isola, si accorda con il generale Shafter per portare un attacco congiunto. Gli americani sbarcano il 24 Giugno 1898 sulla spiaggia di Daiquiri, è un piccolo contingente: 15’000 soldati, 800 ufficiali, 16 cannoni leggeri, ma le loro armi sono più moderne ed affidabili di quelle dei loro avversari. In breve tempo il controllo spagnolo sull’isola è limitato alla sola capitale.
Tre Luglio 1898, grande fervore nella città assediata di Santiago, l’Ammiraglio Cervera ha ricevuto l’ordine di imbarcare i suoi marinari e dare battaglia in mare aperto. E’ un suicidio, come vedremo, ma Cervera non ha altra scelta che obbedire. L’ammiraglio Sampson, le cui navi bloccano l’uscita del porto, si accorge immediatamente delle manovre spagnole e da ordine ai suoi di prepararsi alla battaglia. Tanto la nave ammiraglia spagnola, la Maria Teresa, quanto le altre navi, gli incrociatori Oquendo, Vizcaya e Colon o i cacciatorpedinieri Pluton e Terror sono vecchie navi da guerra, lente e poveramente protette. Hanno corazzamenti inferiori e bocche da fuoco a gittata ridotta rispetto a quelle statunitensi. Troppo ridotta.
E’ una sorta di orribile tiro al bersaglio, le moderne corazzate Indiana, Oregon, Iowa e Texas guidate dall’imponente ammiraglia Brooklyn aprono il fuoco sugli avversari quando questi sono ancora troppo lontani per rispondere. Le navi spagnole vengono letteralmente fate a pezzi dalle esplosioni che si succedono una dopo l’altra. Dense colonne di fumo interrompono le comunicazioni e la confusione generale rende impossibile la fuga. Non ci vuole molto perchè i comandanti spagnoli si rendano conto di non avere nessuna alternativa, molte navi allora invertono la rotta e puntano verso i bassi fondali dell’isola: tentano di insabbiare gli scafi per salvare i marinai dall’affondamento.
In meno di un’ora la baia è diventata un immenso cimitero cosparso di carcasse di navi spagnole.
Gli iberici contano 350 morti, 500 feriti e 2000 prigionieri. Gli americani un morto e due feriti.
Santiago si arrenderà una settimana dopo, l’11 Luglio 1898, costretta dal bombardamento navale americano.
Gli americani sbarcano in città il 17 Luglio accolti come liberatori ma il primo atto ufficiale è quello di negare ai capi della rivolta il diritto di entrare a Santiago alla testa delle loro truppe.
Ostinatamente, il governo degli stati uniti rifiuta di riconoscere il partito rivoluzionario cubano e, tantomeno, la Repubblica da essi rappresentata. E’ una misura temporanea, dicono, in realtà il riconoscimento ufficiale non arriverà mai. Formalmente gli statunitensi non possono annettere Cuba come hanno fatto con Portorico, Guam e le Filippine perchè nella dichiarazione di guerra è presente l’impegno a rispettare il diritto di autodeterminazione del popolo cubano. Di fatto, inizia una occupazione militare.
L’Emendamento Platt del 1903 attribuisce al governo USA il diritto di intervenire militarmente negli affari interni dell’isola. E’ l’unica alternativa all’occupazione militare ed i cubani sono costretti ad accettare l’elezione di un governo fantoccio. Nello stesso anno viene costruita sull’isola la base militare americana di Guantanamo, oggi tornata, tristemente, agli onori delle cronache.
Della battaglia nella baia di Santiago restano poche tracce, una stele di marmo in Columbus Square, nell’estremità sud occidentale del Central Park di New York ricorda i morti del Maine (una curiosità, la statua della Columbia trionfante che sormonta la stele è opera dello scultore Attilio Piccirilli (1866-1945), Carrarese di nascita, newyorkese d’adozione ed amico personale di un altro italo americano d’eccezione, Fiorello La Guardia), un’altra stele, non molto dissimile, si trova sul lungomare dell’Avana. I marinai spagnoli, che io sappia, non sono celebrati da nessuna parte. D’altra parte nessuno ricorda mai gli sconfitti.
Tre mesi di guerra ed una battaglia navale durata poco meno di un’ora, sono bastati a cancellare dalla mappa mondiale il secolare impero coloniale spagnolo e, con esso, l’era del colonialismo. Il nuovo potere capitalistico impone strumenti di controllo più sottili ed efficaci, è l’alba dell’imperialismo.

Il resto è storia recente. Già negli anni ‘20 società statunitensi possedevano i due terzi delle terre cubane, il governo dell’isola sfavoriva palesemente lo sviluppo di aziende locali sostenendo, invece, il turismo legato alla prostituzione ed al gioco d’azzardo. Le rivolte popolari successive alla crisi del ‘29 furono soffocate nel sangue dal presidente Gerardo Machado y Morales. Machado viene a sua volta deposto dal colpo di stato del sergente Fulgencio Batista nel 1933. Uomo di paglia nelle mani degli americani, Batista manterrà lo status quo sull’isola con alterne fortune per i trent’anni successivi, salvo fuggire nella Repubblica Dominicana (portando con sé quaranta milioni di dollari di denaro pubblico) nel 1958, spaventato dalla campagna di guerriglia condotta dal giovane avvocato Fidel Castro e dal medico argentino Ernesto “Che” Guevara. Fidel Castro verrà nominato ufficialmente primo ministro il 1°Gennaio 1959, quasi contempraneamente gli Stati Uniti terrorizzati (o indignati?) da quel vicino di casa dichiaratamente comunista (anche se fino al 1961 non ci sarà una formale adesione al socialismo) dichiareranno un durissimo embargo ed interromperanno le relazioni diplomatiche con l’isola. Siamo a meno di due anni dallo sbarco alla Baia dei Porci.

A cura di Marco R. Capelli
marco_roberto_capelli@progettobabele.it

Fonti: I segreti di New York. Storie, luoghi e personaggi di una metropoli, di Corrado Augias (Mondadori 2001), The Rough Guide to Cuba - 3rd Edition di Fiona McAuslan e Matthew Norman, L'uomo di Cuba di Fernando Fernandez Edizioni Cepim (1980).

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