Mo
Yan
Mo Yan
nasce negli anni cinquanta da una famiglia
contadina dello Shandong, con il nome
di Guan Moye, sostituito in seguito con
leloquente pseudonimo traducibile
come Colui che non vuole parlare.
Cresce lavorando i campi, trascorre gli
anni infuocati della rivoluzione culturale
come pastore e come operaio in fabbrica.
Nel 1976, alletà di ventuno
anni, riesce ad entrare nellesercito
popolare di liberazione e a frequentare
i corsi della facoltà di letteratura
delluniversità artistica
militare .
La produzione di Mo Yan si dispiega attraverso
un costante riferimento a ricordi di infanzia,
alle esperienze di lavoro nei campi, e
a una rielaborazione fantasiosa delle
storie udite da bambino, restituendo al
presente limmagine suggestiva di
una Cina rurale appartenente al passato
e pressoché dimenticata. Ladesione
immediata dellautore alla corrente
letteraria xungen xiaoshuo nasce proprio
da questesigenza di raccontare la
storia del popolo cinese restituendo alla
luce unintensa trama di vissuti
ed esperienze, troppo spesso resa opaca
dalle versioni ufficiali delle autorità.
Dichiara Mo Yan in unintervista:
La storia si può dividere
in due: cè la storia raccontata
dalle autorità, e la storia raccontata
dalle persone. La prima parla sempre male
della parte che ha sconfitto; la seconda
è una storia più oggettiva.
La storia che racconto nel mio libro è
quella che ha vissuto la mia gente.
E questo programma che lucidamente
orienta la produzione letteraria di Mo
Yan è attraverso una visione
nitida di intere esistenze, armonizzata
abilmente sullo sfondo di vicende storiche
e politiche, che lautore tenta di
raccontare la storia del proprio paese.
Mo Yan è autore di sette romanzi
e numerosi racconti: il suo romanzo più
celebre, Sorgo rosso (Einaudi,
1994), racconta lintensa resistenza
antigiapponese in un villaggio di contadini,
lorgoglio e la vitalità con
cui gli esponenti di tre diverse generazioni
hanno sopportato la durezza del conflitto,
ed ha ispirato lomonimo film di
Zhang Yimou, vincitore dellOrso
dOro al Festival di Berlino nel
1988.
Recentemente tradotti in italiano, anche
i romanzi Grande seno, fianchi larghi
(Einaudi, 2002), Il supplizio del
legno di sandalo (Einaudi, 2005),
e alcuni brevi racconti inseriti nella
raccolta Luomo che allevava
i gatti ed altri racconti (Einaudi,
1995).
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Il 9 settembre
1976 moriva Mao Zedong. Dopo un periodo di transizione
durato circa due anni andava al potere Deng
Xiaoping e, attraverso una nuova politica economica
e una serie di riforme, si avviava un processo
di crescita e sviluppo ancora oggi in atto,
che ha prodotto enormi cambiamenti anche in
campo culturale.
Alla strategia politica di apertura e confronto
con nuovi interlocutori internazionali corrispose
pertanto unenorme diffusione nel paese
di traduzioni di opere straniere, il cui studio
ha garantito la nascita di una letteratura sperimentale
e di evasione. Fra i fattori determinanti di
questa rinascita culturale bisogna considerare
una parziale (benché oscillante) diminuzione
della censura, una maggiore indipendenza delle
case editrici dagli incentivi statali, la diversificazione
degli interessi e delle esigenze dei lettori,
e non in ultimo labbandono definitivo
del precedente modello di arte rivoluzionaria,
che aveva puntato a garantire la coesione popolare
e la diffusione di ideali e messaggi politici
contrastando le idee feudali e reazionarie di
cui erano intrise le forme darte classiche.
Nel panorama culturale sorto a partire dagli
anni ottanta i tre filoni di spicco sono grosso
modo quello della della ricerca delle
radici (xungen xiaoshuo), della generazione
perduta (shiluodai xiaoshuo), e della
letteratura davanguardia (xianfeng
xiaoshuo).
Mentre gli autori davanguardia tendono
a descrivere, spesso attraverso vicende paradossali
ed oniriche, una realtà la cui comprensione
resta affidata alla libera interpretazione del
lettore, quelli della generazione perduta forniscono
una visione nettamente più nichilista
della storia e della società, a cui si
accompagna il deciso rifiuto di qualsiasi sistema
di valori.
Diversamente, la corrente della ricerca delle
radici unisce numerosi scrittori nel tentativo
di riscoprire i tratti dominanti della propria
cultura attraverso una riflessione sul passato
del paese, rivissuto spesso grazie alle testimonianze
dei suoi autentici protagonisti. E in
questo filone di letteratura xungen xiaoshuo
che si colloca lopera di Mo Yan, fra gli
autori più conosciuti ed amati della
Cina contemporanea. (F.B.)
Il racconto
Il racconto breve Mai baicai, che qui
presentiamo per la prima volta in traduzione
italiana, è stato pubblicato in un volume
edito nel 2003 dalla casa editrice Liaoning
renmin nella raccolta 2002 zhongguo
zuijia duanpian xiaoshuo (I racconti
più belli del 2002) e può
ritenersi rappresentativo, nella sua sorprendente
brevità, dello stile di Mo Yan. Il titolo
originale, alla lettera La vendita dei
cavoli, è stato qui tradotto come
Un ricordo per avviare il lettore
ad unimmediata comprensione della vicenda,
ambientata nel 1967, durante la prima fase della
rivoluzione culturale, e rimasta impressa nella
memoria del narratore.
Protagonista della vicenda è il piccolo
Shedou che, dopo aver coltivato per mesi dei
cavoli, è poi costretto a venderli tutti,
ma non vuole separarsi dagli ultimi tre ed in
particolare dal più piccolo di quelli,
tondo come la testa di un monaco buddista.
Lintera narrazione è intrisa da
unintima e profonda sofferenza, dovuta
alla separazione dal piccolo ortaggio con cui
il bambino avrebbe voluto preparare i ravioli
per la festa di primavera.
Non è la povertà o la rinuncia
ad un pasto sognato per mesi a rendere doloroso
il distacco, ma lattaccamento nei confronti
di una piantina piccola e delicata, simile ad
un bambino cresciuto e sopravvissuto ad
uninfanzia piena di sofferenze,
che il piccolo Shedou umanizzava e difendeva
come un fratellino, quasi identificandosi nelle
sue foglie. Unimmedesimazione che si fa
sempre più evidente man mano che la narrazione
prosegue, fino a quando il cavolo non viene
fatto a pezzi dalle mani nodose come rami
secchi di una vecchia che neanche il gelido
vento riesce a fermare ed è allora
che Shedou pare intuire che era la propria infanzia
ad essere a rischio: la disperazione del bambino
si trasfigura in un grido di rabbia contro la
razionalità adulta, la stessa
rassegnata razionalità che intrappolava
anche sua madre.
Se poi lostinazione di Shedou riuscirà
a salvare il piccolo prezioso cavolo,
sarà al grave prezzo della fine dellinfanzia
sarà la scoperta, doppiamente
traumatica, della fragilità della madre
e del vero dolore, a segnare linizio della
sua crescita. E dopo tanti anni, è proprio
questo il ricordo che fa ancora male al protagonista
della vicenda.
Lo stile ed il lessico sono semplici, non sono
presenti sperimentalismi linguistici né
una particolare ricercatezza formale. E
una nuda e misurata semplicità narrativa,
quella adottata nel racconto: espressione perfetta
di uno stile letterario estremamente lontano
dalla narrativa contemporanea delle grandi città
cinesi, del lusso, dellemancipazione,
della ricchezza globalizzata e occidentale descritte
dai giovani talenti di Shanghai - lautrice
di Shanghai Baby, Zhou Weihui, o Chun Shu, con
il suo diario Ragazza di Pechino.
Qui, al contrario, il narratore è un
uomo cresciuto in una realtà rurale,
capace di descrivere perfettamente tutte le
fasi del lavoro nei campi, e di raccontare a
parole semplici sensazioni ed immagini percepite
da bambino e rimaste esattamente identiche a
sé stesse per molti anni. La stessa trama,
tanto intensa quanto elementare nella sua breve
linearità, non è altro che una
struttura di fondo, in cui a contare non è
la vicenda in sé bensì la cornice
in cui si muovono i personaggi, resa con tratti
essenziali e precisi: il sentiero interminabile
verso il mercato, la casa con il letto di mattoni
ed il piolo sul muro, il telo rotto di pelle
di capra, le mani ruvide di una donna indebolita
dal lavoro che è costretta a vendere
anche lultimo frutto della propria fatica,
a costo di privarsi del pranzo di capodanno.
E la capacità di far vivere
questi dettagli che spiega il successo di un
autore come Mo Yan (oltre che la sua sconcertante
attualità), in grado di aprire uno spaccato
sulle condizioni di vita nelle immense aree
rurali del paese e su una realtà ancora
oggi molto diffusa, benché spesso offuscata
dalle immagini ideologiche di uno sviluppo e
di una modernizzazione capitalistiche affannosamente
celebrate dai media occidentali. (Francesca
Bavecchi)
Mo Yan
Un ricordo.
Era una mattina dellinverno del 1967,
avevo dodici anni e la festa di primavera1 era
alle porte.
Mia madre camminava avanti e indietro per la
stanza, aveva il viso segnato da unespressione
molto triste. Sembrava preoccupata. Ogni tanto
sollevava un angolo della stuoia del kang2 tirando
fuori il grano da sotto il tavolaccio, oppure
apriva il cassetto del nostro vecchio tavolo
ed infilava le mani fra brandelli di stoffa
e fili di lana.
Poi, sospirando con gli occhi al cielo, cominciò
a gettare occhiate furtive ai tre cavoli appesi
al muro, fino a quando non si fermò ad
osservarli attentamente.
Mi chiamò con la sua voce dolce.
- Shedou, vai a cercare un cesto.
- Mamma chiesi sconsolato - Non vorrai
mica
?
- Oggi è il giorno del mercato.
Era molto seria.
- Ma, avevi promesso
Questo è tutto
quello che ci rimane per festeggiare il capodanno
Neanche avevo finito la frase e già ero
sul punto di scoppiare in lacrime.
Mia madre non pianse, ma i suoi occhi si fecero
lucidi e dalla sua voce trapelava una sottile
irritazione.
- Non sei un po troppo grande per piangere
così?
- Abbiamo piantato centoquattro cavoli, ne abbiamo
venduti centouno e ne sono rimasti solo tre,
avevi detto che li avremmo conservati per il
capodanno, avevi promesso che li avremmo tenuti
per cucinare i ravioli!
Mia madre si avvicinò e mi asciugò
le lacrime con il suo abito.
Le nascosi il viso in grembo e continuai a singhiozzare,
convinto di aver subito un torto molto grave.
Mentre mi accarezzava la testa con le sue grandi
mani ruvide, potevo quasi sentire sul suo vestito
il profumo dei cavoli.
Dallestate allautunno, e poi dallautunno
allinverno, per tre intere stagioni, io
e mia madre ci eravamo occupati dei nostri centoquattro
germogli delicati, e avevamo aspettato che crescessero:
avevamo fatto la semina, strappato le erbacce,
catturato gli insetti, sparso il fertilizzante
e annaffiato
poi era arrivato il momento
del raccolto ed avevamo asciugato le piante
al sole passando le mani su ogni piccola foglia
ma tutta un tratto mia madre aveva iniziato
a venderli, uno dopo laltro, e io non
potevo fare altro che piangere e protestare.
Mia madre mi tirò su a forza. Con sguardo
fiero e parole dure, mi disse Non sono
ancora morta, che hai da piangere?
Poi si asciugò gli occhi con il vestito
e disse ad alta voce:
- Dobbiamo andare, non abbiamo scelta.
La vidi che stava per arrabbiarsi, e il mio
dispiacere diminuì. Corsi in cortile
e riportai in casa un cesto pieno di brina,
che gettai ai suoi piedi con stizza.
- Come ti permetti di tirarmelo così?
Sentivo la rabbia crescere, ma mi morsi le labbra,
non volevo rispondere con la voce rotta dal
pianto. Fra le lacrime vidi mia madre prendere
dallasta di legno appesa al muro il cavolo
più grande, poi il secondo, e alla fine
anche lultimo, il più piccolo,
che una volta tirato giù sembrava tondo
come la testa di un monaco buddista. Li mise
tutti nel cesto.
Conoscevo quel cavolo come se fosse una parte
di me. Era nato lontano dagli altri, accanto
al sentiero, calpestato spesso dai vitelli e
dai ragazzini. Per questo era cresciuto poco:
quando gli altri cavoli avevano raggiunto le
dimensioni di un vaso, quello era grande appena
come la cavità di una ciotola, e non
appena avevamo scoperto quanto fosse piccolo
e bisognoso di cure, cominciammo ad annaffiarlo
di più.
Avevamo anche provato a spargergli intorno del
fertilizzante, ma il giorno dopo quello aveva
preso ad appassire. Appena se ne accorse, la
mamma si era affrettata a cambiargli la terra
intorno, ed era riuscita a salvarlo.
Anche se era ancora molto piccolo poteva comunque
andare bene per cucinare i ravioli e così,
al momento del raccolto, mia madre gli aveva
dato qualche colpetto e mi aveva detto tutta
compiaciuta Guardalo, guardalo
!
Il suo viso si era riempito di gioia:
era come se avessimo visto un bambino crescere
e sopravvivere ad uninfanzia piena di
sofferenze.
Mia madre mi chiese di aiutarla a portare
i cavoli fino al mercato, che si trovava in
un villaggio distante circa cinque chilometri
da casa nostra, ma io non avevo voglia e cercai
di oppormi.
- Devo andare a scuola!
Mia madre alzò la testa e gettò
unocchiata al sole.
- Stai tranquillo, non farai tardi.
Avrei voluto insistere ma non osai aprire bocca,
mi caricai sulle spalle i tre cavoli in un cesto,
avvolgendoli con un telo rotto di pelle di capra,
e ci incamminammo per il sentiero che si snodava
lungo largine meridionale del fiume e
che portava fino al mercato.
Il vento era gelido e tagliente, e dal sole
veniva una luce così debole che sembrava
potersi spegnere da un momento allaltro.
Di tanto in tanto venivamo superati da altre
persone dirette al mercato.
Dopo un po che camminavamo, le mie mani
erano talmente ghiacciate che il cesto cadde
a terra senza che me ne accorgessi, rovesciandosi
rumorosamente. Alcune radici si spezzarono e
il cavolo più piccolo rotolò fuori
e scivolò vicino al sentiero, finendo
in una fossa piena dacqua ghiacciata.
Mia madre mi colpì la testa ed imprecò.
- Razza di disgraziato!
Poi, saltellando sui suoi piccoli piedi ed aiutandosi
con le braccia, scese nella buca per recuperare
quel cavolo nel modo più veloce e prudente
possibile. Le radici si erano spezzate, ma il
cavolo non aveva subito grossi danni, e lei
rimise insieme i pezzi.
Sapevo di aver combinato un grosso guaio, e
me ne restavo accanto al cesto a ripetere in
lacrime che non lo avevo fatto apposta.
Mia madre rimise il cavolo nel cesto: allinizio
sembrava molto arrabbiata, ma quando vide che
piangevo e che sulle mie mani livide erano comparsi
dei geloni, si addolcì subito. Smise
di colpirmi e di imprecare, e disse:
- Sei proprio inutile! Ma dove va a finire il
cibo che mangi?
Poi si accovacciò, si passò sulle
spalle un bastone di legno per reggere il cesto
e laiutai a sollevarsi, non doveva essere
semplice sopportare quel peso per lei, piegata
dalle continue fatiche del lavoro e da una vita
troppo dura. Mentre avanzava a piccoli passi,
rimasi sempre dietro di lei, ascoltandola ansimare.
Nei pressi del mercato avrei voluto darle il
cambio ma lei rifiutò dicendo che ormai
non serviva più, tanto eravamo quasi
arrivati.
Finalmente giungemmo al mercato.
Attraversammo il reparto delle scarpe di paglia:
i venditori ci guardavano con indifferenza,
e se ne stavano ai lati del passaggio, vicino
alla merce in esposizione.
Poi entrammo nel settore dei prodotti per la
festa di capodanno, ai lati erano appesi dei
portafortuna colorati per la porta di casa.
In un angolo due signori vendevano petardi davanti
ad una folla entusiasta. Il rumore degli spari
faceva quasi immaginare di essere in battaglia,
ma era il loro odore sparso nellaria ad
annunciare che il capodanno era alle porte.
Superammo il banco dei dolci ed arrivammo finalmente
a quello della verdura, dove erano esposte in
bella vista alcune rape verdi, delle rape rosse,
spinaci e sedano.
Mia madre andava spesso lì a vendere
verdura, e la conoscevano tutti.
Sistemò il suo cesto vicino a quello
delle rape verdi, che apparteneva ad un vecchietto
con cui iniziò a parlare.
Venni a sapere che quel signore era originario
dello stesso villaggio della famiglia di mia
madre, e che erano legati dallo stesso cognome
e da unantica parentela: per questo dovetti
chiamarlo zio.
Lo zio aveva un colorito sano, il capo coperto
da un vecchio cappello di paglia rotto e paraorecchi
di pelle di coniglio da cui sporgevano dei peli
bianchi; se ne stava con le braccia incrociate
e le mani infilate nelle maniche, con unaria
un poaltezzosa.
Mia madre mi autorizzò ad andare a scuola,
e lavrei fatto molto volentieri se non
avessi visto qualcuno avvicinarsi ai nostri
cavoli.
La donna fu accolta da una folata di vento,
che la fece barcollare.
Quando cercò di parlare il vento aumentò
ancora e la scosse come una foglia secca. Come
mia madre, anche quella donna aveva dei piedi
molto piccoli. Si copriva la bocca con le ampie
maniche dellabito, per riparasi dal freddo.
Appena giunta davanti al nostro cesto sembrava
volersi fermare, quando il vento la colpì
ancora una volta.
Spostò le maniche e scoprì la
bocca avvizzita: a quel punto la riconobbi,
era una vecchia vedova che avevo visto spesso
al mercato.
Con un filo di voce domandò quale fosse
il prezzo dei cavoli e quando mia madre glielo
disse lei scosse il capo, come se fosse troppo
alto; però non se andò.
Si chinò sui talloni, sollevò
il coperchio di pelle ed iniziò a tastare
i nostri tre cavoli.
Prese quello più piccolo tirandolo per
la radice mezza rotta, poi ci fece dei buchi
con le sue dita nodose, simili a rami secchi.
Storcendo la bocca, protestò che con
quel cavolo non avrebbe mai potuto cucinare
i ravioli.
Mia madre fece, addolorata Signora, se
crede che questo cavolo non sia buono vada pure
a cercarne uno migliore.
Ero davvero furioso: avevo già dovuto
sopportare che quella donna toccasse i nostri
cavoli, ma non potevo tollerare che li insultasse
così. Ero tanto irritato che mi lasciai
scappare una frase - Se continui a stringerlo
in questo modo, diventerà duro come una
pietra!
La vecchia si girò, mi lanciò
uno sguardo stupito, e chiese a mia madre
E questo chi è, tuo figlio?
Mia madre rispose che ero solo un bambino, e
mi rimproverò Piccolo, stai parlando
a sproposito.
La vecchia si infilò il cesto sotto il
braccio per avere le mani libere e prese a strappare
le foglie esterne del cavolo più piccolo,
che erano un po rovinate.
- Non strapparle! urlai in preda alla
collera Se le strappi come faremo a venderlo?
- Questo bambino parla come se avesse mangiato
il veleno . La vecchia borbottava senza
interrompere la sua operazione.
Mia madre le indirizzò uno sguardo convincente.
- Signora, ha già tolto cinque strati
di foglie ed è quasi arrivata alla fine,
la smetta per favore!
Dopo tutto quello che aveva strappato, era rimasto
solo il cuore tenero del cavolo. Intanto il
vento spargeva il suo profumo nellaria
gelida: che sapore squisito avrebbe avuto quel
piccolo cavolo, una volta cucinato!
La vecchia lo sollevò e lo passò
a mia madre perché lo pesasse. Lei lo
mise sulla bilancia e la donna incollò
il viso allasta, misurando attentamente
il carico con lo sguardo.
Vedevo quel cavolo pelato e ridotto al nocciolo,
e mi intristivo al pensiero del suo aspetto
precedente.
- Non riesco a fare bene il conto.
Mia madre provò a fare il calcolo, ma
non ci riusciva, aveva mal di testa, così
mi invitò a farlo al posto suo.
Cercai un rametto, con cui avevo appena imparato
a fare le moltiplicazioni, e tracciai i miei
conti sul terreno. Appena dissi il risultato,
mia madre controllò.
- Non è sbagliato? Chiese la vecchia
lanciandomi unocchiata diffidente.
- Controlla tu stessa. Risposi.
- Questo ragazzino è un po troppo
permaloso! Bisbigliò la donna fra i denti,
e tirò fuori dallabito un fazzoletto
lurido. Lo aprì e tirò fuori un
biglietto piegato, poi si portò un dito
alla bocca, lo inumidì con la saliva
e iniziò a contare ad alta voce.
Alla fine, dopo aver finito i suoi calcoli,
fece scivolare il foglio nelle mani di mia madre.
Anche lei contò. Sentii lo sguardo pungente
della donna trafiggermi e poi scivolare oltre.
Ci lasciò il foglietto rovinato e se
ne andò.
Quando tornai da scuola mia madre mi stava
aspettando. La vidi dalla porta, immobile ed
inespressiva. Al suo fianco cera ancora
il cesto con i tre cavoli, incluso quello più
piccolo, congelato e spezzettato.
Mi sentii gelare il sangue. Era successo qualcosa
di molto grave.
Mia madre sollevò la testa, fissandomi
con gli occhi rossi di pianto per un momento
che mi sembrò eterno. Ricorderò
per tutta la vita il tono con cui mi parlò.
- Ma che razza di persona sei? Come hai potuto
aumentare tanto il prezzo di quel cavolo, che
valeva appena un mao3?
- Mamma
risposi piangendo
Io
.
- Oggi mi hai fatto perdere la faccia
Le colarono giù due lacrime.
Mia madre era una donna molto forte, e quella
fu la prima volta che la vidi piangere. Questo
ricordo mi fa star male ancora oggi.
Mo Yan
traduzione di Francesca Bavecchi
Nota sulla
traduzione: abbiamo tentato senza esito di metterci
in contatto con Mo Yan per ottenere il permesso
di pubblicazione di questo racconto, che noi
intendiamo come un omaggio al suo autore ed
un tentativo per diffondere tra i lettori di
lingua italiana uno scrittore (ed una cultura)
ancora troppo poco conosciuti.
Se l'autore, l'editore o un loro rappresentante
volessero mettersi in contatto con noi, sono
pregati di scrivere all'indirizzo della redazione:
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Contributi, articoli, saggi,
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