Marco Gabrielli ha intitolato la sua raccolta poetica con una sophia che si guarda bene dall’essere etichettata come un concetto prestabilito. Infatti essa non richiama alcuna sapienza dinamica né tantomeno si tratta di una ricerca costruttiva a spirale, che aumenti i margini ma non abbandoni il centro.
Sophia, infatti, non è solo il nome di una donna, e neppure quello di una attitudine alla ricerca, alla soddisfazione della curiositas che ci spinge a oltrepassare i limiti di ogni nostra azione e conoscenza.
Non ha, dunque, solo la staticità di un identificativo né il dinamismo di una spinta centrifuga che oltre a definirci sia anche foriera di un altro e di un altrove.
Nel leggere le poesie di Gabrielli, pertanto, è possibile evidenziare innanzitutto questo: il lirismo di una sfrontata poesia classicista non rimanda assolutamente alla pacificazione degli istinti, a nessuna risoluzione di conflitti interiori, alla traslucida resa degli eventi sottratti all’ inquinamento del contesto fattuale.
Forse il titolo indica semplicemente che non si tratta mai di saggezza o di conoscenza, l’amore, bensì di uno sconquasso che mette in discussione ogni radice e che chiede assestamento e riadattamento. Un amore che se non è saggio, può almeno essere filo-sofico, ossia un desiderante, una messa a distanza tra noi e il sidereo mondo dei sogni.
Siamo dinanzi al singhiozzante respiro di un’anima che ama inquieta, sia quando essa è ricambiata che quando è rifiutata. E l’intermittenza del fiato è resa, sul piano stilistico, da un verso troncato troppo presto che si difende dietro una rima, un accento di movimento che vuole garantire, per paradosso, un ordinato ritmo da dare alle cose.
Nulla è scontato, invece, in questa lirica dove la veste classica è pienamente contemporanea grazie a diffusi picchi di autenticità che tradiscono volontariamente una indole poetica che non vuole inchiodamenti al verso o al concetto: “benevoli intrusi” sono i residui di una visione dell’amore che è misura del tempo, dell’uomo, del suo essere sempre pietra di scarto, dinanzi alle vicissitudini del cuore umano. Ma sono “intrusi” anche quei dubbi che l’amore sia rappresentabile mediante armoniche visioni: il perturbante non ha la veste di un divino fato che ci impedisce la felicità, piuttosto ha l’aspetto di una figura “umana troppo umana” con la quale, i conti, è possibile farli solo a partita già chiusa.
Proprio l’umano, in questa raccolta poetica, diviene protagonista assoluto delle vicende sentimentali del protagonista: l’umano che supera sempre se stesso, “superare se stessi, in uno slancio d’amore”, sembra essere la regola d’oro di un cuore dolente che ha conosciuto entusiasmo, abbandono, inganno, ripresa e addio. Le sfumature dell’umano sentire completano un affresco che sa di perdita.
Gabrielli poeta non si distingue da Gabrielli uomo e questo ce lo rende empatizzante, molto meno lontano da come lo vorrebbero i suoi versi talora saffici, morbidi, talora tendenti alla celebrazione della guerra sentimentale tipica di Archiloco. Se la veste è classicheggiante, estemporanea e contemporanea sa essere una poesia che si nutre di frammento e spezzettamento di verso, a dire della disarticolazione del discorso amoroso, quando esso si fa, e sempre lo è, incompiuto, vessato, disarmonico.
Unico riscatto possibile è nella sophia stessa, nell’appellare l’umano cuore come decollo e atterraggio di uno sguardo amoroso che si pone sempre a distanza dal suo oggetto, lo invoca desiderante, poi, sconfitto, lo contempla senza colmare il vuoto, e la separazione si fa eterna mancanza.