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Dio tu e le rose
di Brunetto Salvarani e Odoardo Semellini
Pubblicato su SITO
Anno
2013-
Il margine
Prezzo €
18-
368pp.
ISBN
978-88-6089-094-8
Una recensione di
Carlo Santulli
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Votanti:
1986
Media
79.18%
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Da buon cattolico praticante e, più ed oltre che credente, fervidamente sperante, il mio sentimento verso le canzoni “di Chiesa”, che poi sono principalmente quelle uscite da quella passata ma mai dimenticata primavera che è stato il Concilio Vaticano II ed almeno il primo decennio che lo ha seguito, è ambivalente: ne vedo e ne ricordo di belle e con testi non banali, oltre che sinceri (ho la modesta presunzione di pensare che la sincerità traluca nella musica e nel testo che la fodera). Mi vengono in mente i diversi Symbolum di Giombini e certe canzoni, ormai classiche, del repertorio dei Gen Rosso e Gen Verde, ma ho un lieve e grato ricordo anche di quella “Esci dalla tua terra” parodiata tra altre canzoni più profane da Elio e le Storie Tese in “Born to be Abramo”. Una ritrovata onestà, non priva di un fondamentale rossore, mi impone di confessare che c’è anche altro, pur se concedetemi di fingere di dimenticare, anche dove li conosco, compositori e parolieri. Altro, dove la melodia va per conto suo ed il testo appare fondamentalmente dedicato a colmare quel lungo spazio (idealmente di silenzio e di meditazione orante) che intercorre tra la prima ostia presentata ed offerta al rientro del calice nel tabernacolo, con una sequela di strofe, su uno spunto musicale che le ripetizioni spengono d’interesse od annacquano vistosamente. E poi, altro che meditazione: queste parole piuttosto grondano sensi di colpa e guardano al tramonto più che promettere un’alba. Eppure dovrebbero parlare di Dio e magari, chissà, svelare nel nostro cuore il suo mistero. Sorprende, ma fino ad un certo punto, nel leggere lo splendido ed appassionato saggio di Brunetto Salvarani ed Odoardo Semellini, “Dio, tu e le rose” (Il Margine, 18 euro), che un secolo e passa delle nostre canzoni grondano letteralmente dell’immagine divina ed a parte i celeberrimi esempi di “Dio è morto” e di quelle varie composizioni che il recentemente scomparso Don Gallo avrebbe collettivamente chiamato “Vangelo secondo De André”, tanti dettagli e curiosità non si immaginano proprio, a partire dalla storia vera di quel “Biancofiore, simbolo d’amore”, che è stato l’inno prima del Partito Popolare sturziano e poi della Democrazia Cristiana. E se c’è stato chi, abbastanza prosaicamente, si limita a chiedere a Dio che la sua amata possa tornare (una richiesta alla diretta interessata sarebbe sembrata assai più appropriata, devo dire) e qualcun altro scrive, anche a proposito di Dio, versi del tutto dimenticabili, c’è però chi risplende di una vera ispirazione, che contesti o che apprezzi quel che l’immagine divina rappresenta. Il testo dice anche qualcosa di più, nel senso che il passaggio dalla messa beat all’invocazione spirituale e personale ad un essere assoluto c’è anche tutto il muoversi da una fede ed una vita collettiva all’individualismo, che tanto piace ai neo-liberisti.
Devo dire che su questo genere di scanzonate ed a volte umorali e sanguigne, ma anche puntigliose e documentatissime, monografie di carattere musicale, Salvarani e Semellini, che scrivono a due mani nella convinzione, per conto mio reale, che non si veda l’apporto dell’uno e dell’altro (una delle più gradevoli creazioni dell’Ottocento musicale, il “Crispino e la Comare” dei fratelli Ricci è nata proprio così), sono praticamente imbattibili. Sono specialisti dove occorre e appassionati dove serve. Hanno evidentemente simpatia per il Maestrone Guccini, anche perché la spigolosa autoironia dell’autore di “Dio è morto” è la stessa che ritrovate in questo testo e quindi c’è contiguità, oltre che stima. Come c’è nel caso dei Giganti, argomento di una delle precedenti monografie dei due autori, che qui tornano, tra l’altro, con “Giorni di festa”, dove Papes finisce per interpretare un “Don” che si complimenta col fratello tornato all’ovile. Come in tanti altri casi e nel caso di Roberto “Freak” Antoni, che viene intervistato alla fine del libro con esiti di sincerità e anche qui di gentile ironia, che non guasta. “Freak” Antoni che, incidentalmente, aspetta ancora delle spiegazioni da Dio.
Ma ai lettori forzatamente disattenti di oggi, sommersi come siamo di informazioni, non tutte di prima qualità, gli autori portano un contributo di profondità (non soltanto per le oltre 300 schede di canzoni), parlando per esempio dei Baustelle, di Capossela o della spiritualità di Battiato, che, a parte il sincretismo, rivela un’anima non comune. Vediamo l’evoluzione del percorso del signor G., come ci imbattiamo in uno spaurito (difficile a credere) Claudio Baglioni incidere con voce incerta e poco motivata quel “Dolce sentire” che tutte le chiese sembrano aver adottato. In realtà, come gli autori chiariscono incidentalmente a più riprese, la loro ricerca vorrebbe ritrovare le tracce di un sentimento d’infinito o di un interesse per il nostro destino nei testi delle canzoni: così si giustificano percorsi che vanno da Jovanotti a Claudio Lolli, per dire di due personaggi anche caratterialmente molto lontani, passando per l’integralismo da pulpito di Adriano Celentano. Non ci viene risparmiato niente…e se da un lato un po’ di tenerezza viene a ripensare a Modugno ed all’”angelo vestito da passante” che inneggia alla vita in “Meraviglioso”, altri punti sono contigui con la comicità e la parodia (sempre sapendo che non lo si è fatto apposta, come avrebbe detto Manzoni…), quando ci viene fatta ricordare Rosanna Fratello che seriamente ribadisce di essere una donna e non una santa, allo scopo, in definitiva piccino, di respingere un fidanzato troppo assillante.
Il libro si ferma, com’è giusto, all’alba di questo pontificato di papa Francesco, che magari porterà altre novità in questo settore o magari farà parlare di sé anche chi scrive musica e parole. Niente papa nero, per ora, nonostante i neri siano ormai in maggioranza nelle varie Chiese cristiane (ed anche se patetici tentativi vennero fatti con Benedetto XVI di dimostrare che in fondo Nostradamus aveva ragione, con complicati ragionamenti intorno al colore dei benedettini), pur se l’accattivante ritornello dei Pitura Freska rimane in mente come un suggestivo tentativo di “scherzare coi santi”. Anche quelli della musica leggera, in certo senso, che gli autori riescono a far parlare con la loro voce, anche senza musica.
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2007 pg. 204 - A5 (13,5X21) BROSSURATO
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Pochi autori, come Carlo Santulli, sanno giocare con le parole, intarsiandole in piccole storie che si snodano tranquille (mai lente) attraverso una realtà quasi ordinaria e che, pure, riescono ad affascinare il lettore costringendolo a leggere fino all'ultima riga. Personaggi stupiti, a volte impacciati, si aggirano tra le pagine di questo libro, alle prese – come tutti noi – con le incongruenze e le follie del vivere quotidiano, non si abbandonano però all'autocommiserazione, non si ribellano, non cedono a tentazioni bohemien e, se cercano una via di fuga, questa è piuttosto interiore che esteriore. Un cammino, a piccoli passi, che li porterà, forse, verso un punto di equilibrio più stabile. Irraggiungibile (ma reale) come un limite matematico. Siano essi alle prese con una Quinta Arborea, un mazzo di chiavi che si trasforma nel simbolo di un'esistenza, un Clostridio tra i Pirenei, o passeggino, semplicemente, per le strade di una sonnolenta Roma anni trenta.(Marco R.Capelli)
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Prefazione / Indice / Scheda
Ghigo e gli altri di Carlo Santulli
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