Il libro di Paolo Mazzocchini che ho sottomano, “Studenti nel paese dei balocchi. Lettera di un insegnante ad un genitore” Aracne editore, che in effetti è un pamphlet, durissimo e senza mezzetinte, contro la scuola del POF (Piano dell’Offerta Formativa), e dei dirigenti-manager (e non più presidi), risale ad un paio di anni fa e non comprende la scuola dell’ineffabile Maria Star, con i suoi andirivieni logici e le sue continue smentite (indice secondo me di una confusione mentale sulle finalità della scuola di proporzioni preoccupanti, che non basta un paio di occhiali griffati a mascherare). Immagino facilmente quel che Mazzocchini, che si pone di fronte alla scuola con un atteggiamento alla Gino Bartali (“L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare”), potrebbe dire della deriva mariastarista: lo abbraccio in anticipo, immaginando la sua sofferenza di questi ultimi tempi, che è anche la mia e quella di altre anime sensibili e colte.
Tuttavia, la mia stima, motivata con l’impegno serio e profondo che ha cercato di portare nella scuola, pur nel poco tempo concessogli, per il ministro Fioroni, che era in carica quando uscì il libro di Mazzocchini, mi lascia leggermente incerto se in questo il pamphlet non tiri troppo ad altezza d’uomo (non sono di sinistra, o meglio non più: per essere più precisi, non sono più niente politicamente, ma credo si debba dare onore al merito, quando capita di incontrarlo. Ho letto alcuni documenti di Fioroni sulla scuola primaria e la nobiltà d’intenti mi sembra ci sia tutta, a prescindere dal risultato finale, che non dipendeva totalmente da lui).
La tematica di una presunta decadenza della scuola, in modo più romanzato e meno libellistico, è stata sviluppata per esempio da Paola Mastrocola, e, diciamocelo francamente, la scuola che vuole far soldi (sempre a scapito delle famiglie, e specialmente delle più disagiate) non piace neanche a me. Resterei più scettico se si proponesse come modello di funzionamento la scuola di una trentina di anni fa, quella dell’esame “provvisorio” con due materie orali, scelte in pratica dallo studente, tirato fuori dal cilindro dal ministro Ferrari Aggradi nel ‘69, di fronte all’ondata della contestazione studentesca. Se si torna più indietro, non so… il fatto è che si torna ad una società diversa, e quindi è difficile fare confronti. Solo che al momento di oggi ci vorrebbe una scuola di oggi, mentre la scuola antica, a base di Pechenino e tavole dei logaritmi, funzionava in quella società.
Il punto debole del libro di Mazzocchini, pur con tutta la simpatia e stima possibile, dovuta sia al bello stile brioso che adotta nel libro che alla sua indubbia cultura di alto livello di cui è “portatore sano” è il fatto che proporre un ritorno tout court a Croce e Gentile non funzionerebbe. Come dicevo, il mondo è cambiato, e noi genitori siamo pure cambiati (non necessariamente in peggio, almeno per quanto riguarda quelli che Mazzocchini stessi considera “virtuosi” e cui indirizza il suo libello: siamo comprensivi, ma non lassisti, e quel che pretendiamo dai figli lo chiediamo prima di tutto a noi stessi). Scusate per una volta l’immodestia, ma so quale lavoro comporta essere genitori in una società che grida molto forte, non sempre dicendo quelle “cose giuste” che lo “splendido quarantenne” di Nanni Moretti si attribuiva in “Caro diario”.
Inoltre, e Mazzocchini dovrebbe saperlo, altra è la scuola dei programmi da quella della prassi: quel che ricordo io del mio liceo classico, a parte la noia delle lezioni di filosofia (che, l’ho capito poi dopo, non era esattamente colpa dei programmi), era la nostra scarsissima preparazione matematica (eh, si sa, al classico…) che ci ho messo anni per colmare (e ancor oggi, quasi vent’anni dopo una laurea scientifica, confesso che termini come “incentro” e “settore circolare” mi creano una certa ansia). Poi, la pretesa, che è assolutamente centrale, se non cruciale, nella filosofia crociana, di studiare la matematica come filosofia (quindi senza applicazioni pratiche e tecniche, semplicemente come insieme di assiomi e dimostrazioni) è di un’inattualità imbarazzante, a meno che non si formino fisico-matematici teorici. Ne dicam della chimica e della biologia… Io avevo abbastanza un penchant per la matematica ed una passione per la chimica, che dura ancora, come per l’italiano e la storia (che mi salvava agli occhi della prof., riluttante ad infliggermi un votaccio in filosofia, dato che avevo otto fisso in storia). Ecco, io amavo studiare, tanto è vero che non ho più smesso, eppure la scuola e nella fattispecie il liceo ginnasio mi producevano una considerevole noia e molte lezioni erano (già allora) una notevole perdita di tempo, perché sconclusionate, senza obiettivi precisi (il voto non può essere lo scopo finale dello studio, al massimo può rappresentare un incentivo) ed assolutamente prive di relazione con la realtà, col corollario che tutto quello che si studiava da soli erano ovviamente fesserie. Per fare un esempio, a sedici anni avevo letto i “Pensieri” di Blaise Pascal, e ne ero entusiasta: oggi magari meno, ma qualcosa mi rimane; la distinta prof., che aveva una certa idea politica, Pascal l’aveva saltato a tutta velocità, come una stazione di quart’ordine. Eppure, c’era in programma, eccome.
Fine dei fatterelli personali: il discorso di Mazzocchini mi ricorda però quello di certi miei amici, più giovani di me, e bruciati, come me, dalla passione ferroviaria, che sostengono che un tempo (diciamo negli anni ‘70) su certe linee i treni andassero molto, ma molto più veloci, che per esempio si facesse Napoli-Reggio Calabria in meno di cinque ore, trentacinque anni fa, non molto diversamente da oggi, ma su una linea ancora non tecnologizzata ed automatizzata (banalizzata, per usare il termine tecnico). E perché lo pensano, dato che allora erano bambini o magari neonati? Ma è chiaro, perché leggono gli orari dell’epoca. Orari dell’epoca che, molto più di oggi, erano cataloghi di buone intenzioni, come ricordo bene. Andavo spesso, allora come oggi, da Roma a Napoli e viceversa, e ricordo rari arrivi in orario, i ritardi erano di solito di venti minuti o mezz’ora, a volte di più. Ci sono testimonianze anche letterarie e cinematografiche su questo (e la scelta della tratta non è casuale): in “Café express”, che è un (bel) film di Nanni Loy del 1979 con un Nino Manfredi praticamente perfetto, e si svolge proprio su un diretto (ve li ricordate i diretti? Altra specie estinta) in servizio tra Reggio Calabria e Napoli, c’è un dialogo più o meno di questo tenore tra un macchinista ed un capostazione alla stazione di Vallo di Lucania: “Eh, solo venticinque minuti di ritardo”, “Vai, così recuperi il ritardo che accumulerai dopo”. Come sarebbe a dire solo venticinque minuti di ritardo? I miei colleghi pendolari di oggi sarebbero un po’ nervosetti a questo pensiero. Però ricordo bene che all’epoca, per esempio a Roma Termini, non si segnalavano ritardi inferiori ai venti minuti, mentre oggi sono riportati anche quelli di cinque. Penso sia bene ricordare queste cose, altrimenti si cade nella laudatio temporis acti ad oltranza.
Comunque, tornando alla scuola, secondo me la questione è la seguente: non si può pretendere di farsi un’idea della scuola di un tempo leggendo i programmi, ed inoltre, i programmi stessi erano e sono gravemente carenti. Qualche cenno l’ho dato prima, ma vogliamo parlare della ristrettezza dei programmi delle materie scientifiche al classico e delle materie professionalizzanti all’istituto tecnico, e così via? Quando i programmi, come dice una mia amica insegnante con efficace sintesi, sono in realtà dei fili che non si devono recidere mai, semmai allungare, confidando nella clemenza del tempo offertoci. D’altro canto, cosa che so per esperienza diretta, ancor oggi ci si può laureare in ingegneria dei materiali, senza sospettare che i materiali biodegradabili esistano (per non parlare della sostenibilità). Questa marcia indietro a prima del ‘69 (e perché no a quella scuola degli anni ‘30 così efficacemente descritta da Marcella Olschki nel suo “Terza liceo 1939”?) è inattuale e mi mette una sottile angoscia.
Di cosa ha bisogno secondo me la scuola oggi? Maggiori investimenti (ci sono scuole che non hanno nemmeno disponibile un proiettore per dare una presentazione, per non parlare del resto, dalla cancelleria a, ehm, la carta igienica nei gabinetti). Maggior contatto col territorio (che so che molti maestri, specie nella scuola primaria, già attuano, malgrado un certo disinteresse da parte delle istituzioni). Contatto col territorio non significa soltanto corsi di dialetto o conoscenza delle usanze locali, è anche questo, ma certo pure qualcosa di più profondo: è irreale formare i ragazzi senza tener presente il mondo in cui vivono (un po’ come laurearsi in ingegneria meccanica a Torino, facendo finta che la FIAT non esista, anzi, magari, evitando del tutto qualunque trattazione per esempio dei motori a combustione interna o della meccanica delle vibrazioni: è un paradosso, ma credo spieghi il concetto). E, più importante di tutti, come anche Mazzocchini sottolinea opportunamente, meritocrazia, che non significa solo concorsi più duri e difficili, ma anche non farsi scappare quelli tra i docenti che hanno una professionalità acquisita, come dimostrato dal curriculum, dall’impegno e dalle capacità di insegnamento (e provato spesso anche dalla preparazione dei loro allievi) e dall’amore per il loro lavoro. Tutto questo nell’ambito di una scuola di oggi, con programmi aggiornati e con una vastità di opzioni che consentano agli allievi di ottenere il meglio da loro stessi, come meritano.
Vorrei però aggiungere che i giovani hanno enormi capacità di concentrazione, che vanno indirizzate, non continuamente frustrate: tuttavia sono anche distratti, persi in mille faccende, non necessariamente collegate con l’assunzione di stupefacenti e alcool. L’adolescenza è l’epoca delle prime “cotte” un po’ più serie, è l’epoca in cui gli impegni, per esempio sportivi e musicali, assumono una rilevanza che per molte persone non avranno più. Io penso che le numerose feste e “ponti” della scuola italiana nuocciano parecchio all’impegno, ed ovviamente, come l’autore osserva, la programmazione didattica introdotta dalla “scuola del POF” (titolo peraltro di altro pamphlet di Mazzocchini) fa perdere altro tempo utilizzabile nelle lezioni. E poi perché la scuola non può arrivare a fine giugno, come accade quasi dappertutto in Europa? Quest’anno già a maggio fa caldo, quindi la temperatura è una scusa abbastanza povera, inoltre perché sempre le elezioni devono troncare gli ultimi giorni dell’anno scolastico?
Tutto vero, tutto apprezzabile quel che l’autore sostiene: però la scuola ha anche il dovere, non soltanto la necessità di cercare di offrire una conoscenza spendibile nel mondo di oggi, e qui Mazzocchini mi sembra sottovaluti un pochino la drammatica inadeguatezza dei programmi alla società in cui viviamo. E’ vero che non si può studiare tutto su Internet, occorrono libri ed altri strumenti, però non si può nemmeno negare che la multimedialità sia importante. E’ vero, un professore di latino e greco può non sapere (e spesso in effetti non sa) costruire una lezione o presentazione su Powerpoint (per parlare di qualcosa ormai di dominio comune): questo è un dato di fatto. Certo, può non servire nel caso specifico: se uno deve fare la scansione metrica di una tragedia greca in effetti non serve, come anche in altri casi. Tuttavia, non può essere un discorso generale: è vero, le biblioteche scolastiche languono, ma languivano già prima dell’invenzione di Internet, però non è che non dotando le scuole di collegamento Internet, improvvisamente le biblioteche rifiorirebbero: l’esperienza dimostra che non funziona così, taglio di fondi vuol dire meno soldi per tutto.
Gli esempi sono importanti, e qui Mazzocchini si fa un po’ trascinare, con esiti discutibili. Non so, francamente, se possiamo dire senz’ombra di dubbio che conoscere tutto sugli UFO sia meno utile nella vita che studiare Tucidide (a parte che si può arrivare anche a Tucidide passando per gli UFO, con una certa buona volontà, o per meglio dire si può iniziare a leggere una cosa e terminare a leggere qualunque altra cosa, basta che si legga, alla fine). Oh la lettura, a proposito: nella nostra scuola si legge poco, e spesso solo per compilare schede, stendere riassunti, ma il gusto della lettura non direi si formi nelle aule. Anche perché, l’ho già detto da qualche altra parte, credo, questa fissazione della “lettura ordinata” (prima questo, poi quell’altro, ecc., secondo un preciso criterio) è tesa ad uccidere qualunque piacere, invece bisognerebbe suscitare l’amore per il libro fin dalla tenera infanzia, come oggetto misterioso prima e poi come contenitore di cultura.
Nella vita le professionalità, piuttosto spesso, nascono dalle passioni (ed è bellissimo che sia così). Io ho iniziato ad interessarmi ai materiali, millanta anni fa, perché ero appassionato di ferrovie, e sono per così dire partito dall’acciaio smerigliato dei binari e dalle saldature a fungo, “oggetti d’amore” che forse più d’uno dei miei professori del liceo avrebbe guardato con sufficienza (questo non mi impediva di apprezzare Catullo, per esempio, e di essere entusiasta della storia). Ma a me, la passione ferroviaria ha cambiato la vita: come si fa a dire che gli UFO o la storia del rock progressivo non potrebbero farlo? Sono esempi esagerati, ovviamente, però fanno capire, credo, che finché non usciremo da questa dicotomia tra “ciò che al ragazzo o alla ragazza piace” (che sono per concetto fesserie) e “ciò che è scritto nei programmi” (che è tutto ciò che mi serve di sapere nella vita) continueremo ad annoiare i ragazzi e nello stesso tempo a non formarli adeguatamente. Io credo che una scuola interessante possa esistere, ci credo perché ho fiducia nei giovani e nelle loro qualità, che sta a noi non disperdere. Naturalmente, sono un ingenuo (nel senso di “candido, “non ancora svezzato”), perché tutti i ragazzi sono sfaticati, anzi, alla Marenco, scapocchioni e scavezzacollo, ma sono in buona compagnia: tanti anni fa Igino Giordani, che è uno dei personaggi del nostro Novecento che stimo di più, scriveva “Memorie di un cristiano ingenuo” e, en passant, gli rivolgo un grato pensiero, con l’idea che effettivamente abbiamo bisogno di questo tipo di ingenuità alla Giordani, che in fondo è bontà. Se non si ha fiducia nei ragazzi non si va da nessuna parte: è vero che i ragazzi vanno spronati, bisogna motivarli, ma con l’idea che si possa tirar fuori qualcosa da loro. Ed è anche vero che molti tra loro non lavorano, ma non è detto non sia una situazione reversibile. In breve, POF o non POF (o dovrei dire Maria Star o non Maria Star), se ce la metteremo tutta, ce la faremo.