Nato come raccolta di pensieri e di riflessioni, presentato sotto forma di raccolta di racconti, Adiós Fidel si definisce un romanzo. “Se dico che è un romanzo, credetemi“ scrive l’autore nell’introduzione. “Perché tra queste pagine c’è la mia vita. Per la prima volta.” Questa contraddizione tra forma e contenuto caratterizza la vita stessa dello scrittore, ritratta in “rapidi schizzi, come pennellate grezze da artista di strada”, tra “lacrime e sangue”, “per ingannare il tempo”, nell’attesa che cambi qualcosa.
E mentre i suoi amici vanno via, Alejandro rimane a denti stretti in una realtà che non ha più sogni da regalare. Perché i veri eroi, precisa l’autore, sono quelli che restano e non quelli che vanno via, con il biglietto vincente del “Bombo” e il sogno di una vita nuova a Miami o in Europa. O semplicemente perché questa città così decadente, fatiscente, dove i palazzi cadono a pezzi e destano interessante solo nei turisti, è la città dei ricordi, del passato, delle speranze. E a questa città l’autore ci rimane attaccato con tutte le difficoltà che comporta, “per il solo terrore della nostalgia”.
E le difficoltà non sono poche. Non è facile suonare musica commerciale per necessità e desiderare di fare musica rock per passione, afferma lo scrittore. E come la sua vita da musicista risponde al motto „Vogliono salsa, e salsa dobbiamo fare“, così lo scrittore Alejandro Torreguitart Ruiz insaporisce le sue pagine di luoghi comuni, di salsa ballata negli scantinati, di rum acquistato al mercato nero, di mulatte cubane dagli occhi chiari e il fisico sodo che si muovono al ritmo di musica e di jineteras che si vengono ai turisti. È l’Alejandro–guida turistica che porta in giro i turisti per La Habana a bordo della sidecar di suo padre, che parla facendo leva sugli stereotipi cubani. Mentre scorrono queste immagini sul finestrino della sidecar, si intravede l’atteggiamento bivalente dell’autore, che da un lato sorride al lettore-turista con fare accondiscendente, e dall’altro strizza l’occhio verso il lettore attento, mentre racconta con tono altamente ironico, e a volte sarcastico, i retroscena socio-politico della Cuba di Fidel Castro.
L’immagine di Cuba fatta di salsa, prostitute, malecón, mare e sole si corrode allora lentamente sotto il tono dell’autore; dai pensieri nati all’Avana, “senza un cazzo da fare” emerge così è una realtà disincantata, nella quale l’attesa diviene simbolo di una condizione umana che accomuna il destino di più di undici milioni di cubani da oltre quarant’anni. È il tempo della speranza che qualcosa cambi; è il tempo della paura che tutto rimanga come prima. Tra le righe si tesse la storia di uno Stato che cambia e che non sa cosa vuole diventare, intrappolato tra il rimpianto e la nostalgia verso il passato rivoluzionario e lo sguardo preoccupato verso il futuro.