Non sempre il recensore, letto il romanzo fino in fondo, sa farsene un'idea più o meno esatta. A volte serve una seconda lettura, per acquistarne consapevolezza. Che il romanzo non perda significato, e che tanto meno annoi alla rilettura, è sicuramente un segno di qualità di scrittura, o se non altro di capacità di intrattenimento.
A questa prova, "Più male che altro", il romanzo di esordio del napoletano Massimiliano Virgilio, mi sembra reggere.
In più, la rilettura evidenzia meglio come l'autore scommetta sull'ambientare un romanzo a Napoli, come se fosse una qualunque città moderna (ma letteraria, non televisiva), e portarlo senza remore fino in fondo, con una commistione di amore e di repulsione per la città, e giocando a rimpiattino con gli opprimenti, e datati, stereotipi partenopei, difendendosene forse a volte, ma con ordine, mai con affanno.
Uno scusabile limite del romanzo mi pare il fatto che a volte indugi un po' su qualche situazione molto americana, ed abbastanza fuori luogo (sembra più effetto di editing che altro): mi viene in mente una scena in cui Carmen, l'amante di origine siciliana del protagonista Giovanni, la cui descrizione fisico-biologica è peraltro perfetta, consente di immaginarla, quasi di desiderarla, entra in un locale (tanti, forse troppi i locali descritti con tinta troppo buia, ma è questione di gusti: anche Napoli si sta europeizzando) e chiede un rum. Ecco, io non credo che una come Carmen ordini spesso dei rum, ma la cosa, per contrasto, andrebbe rilevata e non data per scontata, in modo da costituire una specie di anticlimax: invece secondo me, scivola via, e annacqua un po' il trattamento del personaggio.
Ecco, i personaggi appunto sono moltissimi e fa piacere che l'autore, grazie al cielo, non si limiti a tratteggiarli, ma cerchi di dar loro un'intima coerenza (il caso di Carmen e del rum si nota appunto perché è un'eccezione). Tuttavia, cercando di schematizzare, i quattro caratteri principali del romanzo rappresentano quattro modi di intendere Napoli.
Di questi mi piace in particolare Simona, la metà solo in apparenza perdente di una coppia che se ne va per conto suo, perché è sottilmente ingenua, determinata a non lasciarsi travolgere dagli eventi: ha un fascino complesso, ed è la più lontana da qualunque stereotipo nella quale si possa rinchiuderla; Simona cerca di rifiutare Napoli, il che vuol dire in fondo riconoscerla, anche se con un segno negativo. Rifiuta poi lo stereotipo che niente funzioni a Napoli, proprio perché cerca di far funzionare qualcosa (e magari, nel suo impegno sociale, ci riesce pure). E' chiaro che per far questo bisogna essere un po' oltranzisti, e Simona lo è, ma non senza realismo e tenerezza.
Deve gestire Giovanni, funzionario di una società che ha sede al Centro Direzionale, la Damide, che riesce a spremere contributi statali (il che giustifica una sotto-trama, vagamente scandalistica e poliziesca) che è un marito confuso e a volte iper-polemico (per tacere della sua tendenza alla dissenteria), oltre ad una madre disperata senza rassegnazione, ed un padre malato terminale, ma a modo suo lucido. Ecco, Giovanni avverte tutto il peso di vivere a Napoli e non in una città normale (ma esistono città normali, o forse semplicemente Napoli è la metafora del fatto che la città non possa esserlo davvero, normale e tanto meno a misura d'uomo?) ed è un essere privato innanzitutto di un proprio ruolo: inutile cercare conforto in un padre amorale e concitato, in una moglie irrangiungibile e diversa da lui, forse nell'immagine della madre (molto riuscito il suo ricordo sullo sfondo del Bosco di Capodimonte).
Bartolomeo, il padre di Giovanni, è un anziano un po' satiresco (rattuso è il termine dialettale appropriato), è a mio parere meno convincente nella prima parte del romanzo. Non tanto perché abbia il chiodo fisso (capita), ma perché probabilmente l'autore lo carica della responsabilità di dare la svolta a tutta la storia, e di evidenziare la crisi preesistente del matrimonio di figlio e nuora: in questo l'arzillo vecchietto mostra i suoi limiti iniziali di personaggio, un po' macchietta, e poco capace di dire e/o fare qualcosa che uno non si aspetti da uno come lui, teso all'eterna ma vacua giustificazione. Tuttavia, verso la fine, la sua incapacità di far fronte a qualunque responsabilità nei confronti di chiunque, ed il suo egocentrismo patologico si vena di malinconia, e alcune pagine molto felici gli sono riservate.
Per Bartolomeo, credo che Napoli sia uno scenario imprescindibile, non si pone il problema se esista qualcosa al di fuori di se stesso e della sua mania (e della sua città), cerca di usare la modernità a proprio vantaggio, per quel che gli interessa (naturalmente a sfondo sessuale). Mentre per Bart, il nipote, il ragazzino tecnologico, ma non privo di carattere, molto realistico, anche se troppo "simpsoniano" magari, Napoli è solo uno sfondo sul computer, Bart in certo senso è già globalizzato, vorrebbe che i suoi tornassero insieme, ma non lo sfiora il pensiero, e forse non capisce neanche, in fondo, la loro mentalità. Cerca tuttavia un'impossibile, e magari non instabile pacificazione. L'idea del filmino sulla famiglia fa un po' Javier Marias, ma non decolla come potrebbe (un po' scolastica la presentazione di "The Sarracinos"), anche perché dovrebbe essere una specie di gran finale, ma mi sembra troppo preparato per funzionare davvero.
Lo stile, che è in fondo la cosa migliore, è svelto e spesso umoristico (o sono le situazioni che lo sono?), sicché, come dicevo, il libro scorre gradevolmente, risulta forse un po' sfilacciato a volte, nel tentativo di dare una versione più drammatica della situazione lavorativa di Giovanni, che appare preso in un intrigo imploso. E non è l'unica cosa irrisolta in fondo: si presume infatti che la crisi coniugale continuerà a riapparire col tempo, come si immagina facilmente che i ragazzini, Bart e il piccolo Diego, finiscano per soffrirne più di quanto non traspaia apertamente. Ma è quell'irresolutezza "ingenua" che fa parte della letteratura che vuole rivelare la realtà, e non soltanto costruire i presupposti per un seguito della storia.
Mi fa piacere che l'occhio dell'autore sia partecipe, anche comprensivo a volte: di cinismo se n'è visto già troppo negli ultimi decenni, anche se un napoletano cinico non riesco ad immaginarlo (né credo di averne mai conosciuti); così Virgilio, pur tra qualche battuta un po' azzardata, è realmente interessato ai suoi personaggi, con tutti i loro difetti (e ne hanno tanti). Non possiamo che augurargli un seguito letterario di questa o di un'altra storia: credo, con tutta la sincerità del mondo, che se lo meriti.