Esistono molte vite, ma poche sanno essere “Prima vita”, aggiungerei anche, a prima vista: perché il titolo della raccolta poetica dell’autrice Stefania Crozzoletti è una prima volta, la prima volta dell’occhio che vede le cose di sempre con una forza creativa originaria, e per questo, sensuale e violenta.
Non c’è accomodamento, infatti, nei fatti primigeni, tutto dirompe e rivela quella realtà intrauterina, come nell’uovo di Dalí che simbolicamente rimanda alla nascita, capace di germogliare fiori dall’albume.
Così in Prima vita, accade di leggere una poesia- embrione di una gravidanza sentimentale: in posizione fetale, la penna dell’autrice sperimenta le sue visioni interiori in una lussureggiante fantasmagoria di enti micidiali per la loro inopportuna riesumazione: tutto appare volontariamente scomposto, assai scaduto, dissonante e dissacrante nei confronti di una certa regola della sequenza etica ed estetica. Per tale motivo, come spesso non sa esserlo la poesia, la pagina è credibile e famigliare. Noi siamo questo scomposto, non mentiamoci.
D’improvviso poi, quando la calma della lirica sembra impiattarsi in un profondo lago statico, emerge dal fondo un’essenza perturbante che ripristina la scossa, il tributo dovuto all’imprevisto, alla resa finale di un conto che non lascia mai in vantaggio, o almeno in pari, l’umano esistenziale: ci perdiamo, proprio in casa nostra.
Nella poesia di Crozzoletti non vi è esperienza che possa lenire il disagio dell’alienazione, fintanto che costitutivamente alla nostra natura di mediano trascendentale, siamo portati all’aspirazione e al contempo all’inabissamento. Una soluzione, che mai sia definitiva, sembra provenire allora dall’essere una prima vita dinanzi alla tentazione di essere “beatamente infelici”, pervasi da quell’indolente felicità con cui imitiamo l’insignificanza. Una prima cosa, insomma, un primo amore, un primo parto, e una prima morte.
Della poetessa ho stimato la sua rudezza, l’inesistenza di lirismi molli che lasciano il posto all’economia del pensiero: il concetto è sfrondato in brevi sequenze dal disarmo intellettuale; “Gratto i muri tanto per fare” è il suo manifesto, quello di un pensiero che impotente in elaborazione e catalogazione, si limita ad un’azione abrasiva, decostruttiva, direi, per eliminare il superfluo, non aggiungere intonaco e calce ad un muro già atrocemente stratificato. Allora la poesia non fagocita ma è pura fuoriuscita di un verso che “inizia se lo decreta il respiro” e libera la visione di un soggetto che si trova sempre altrove, in dislocazione spaziale:
“Spalanco le braccia gioiose a quello che è, lo accetto ovviamente non sono all’altezza”.
Sono versi che denunciano l’insufficienza di una dimensione, quella della profondità e l’accettazione della visione orizzontale, a dire dell’incapacità di ascensione esistenziale e relazionale, l’unico sentimento possibile resta quello di una “gioia” che è tanto più della sciocca beatitudine di un disumano misticismo: qui la gioia è apertura di braccia, raccoglimento, interiorizzazione che non consente la dispersione in altezza. Il luogo natio e postumo dell’autrice, non v’ è dubbio, è la terra orizzontale, la messa in pari della visione abbracciata.
Ma ogni senso di appartenenza, tuttavia, rivela la sua apparente radicalità e la sua tensione extrauterina, per tornare alla metafora dell’uovo di Dalí, quando riconosce il di là da venire della casa che “è un isolato più avanti o in via già percorsa” : siamo snidati, da ogni forma di ritorno e di proprietà.
Persino da se stesso, l’animo si trova in posizione fuori luogo: “donna fuori catalogo”, “Io eccentrico”, “non sono un poeta”, sono solo alcune delle identità per esclusione, rintracciate dalla poetessa, per dire di quella “pace viziata” che è tregua armata di un io in dissoluzione.
Si può essere, ma solo per negazione, oppure con quello “sguardo bovino”, di rilkiana memoria, che allude magistralmente alla profondità ineffabile e sempre orizzontale di una visione animale, carnale, istintuale e libera da ogni forma di catena mentale consolatoria.
Non ci sono rimedi alla scoperta di un io che viaggia in solitaria. La poetessa lo dice con quell’ironia lirica che evita il moralismo e persino la malinconia che invece viene affidata a quei “bambini tristi” che sono, possibilmente, tutte le sue voci interiori tenute fuori a giocare, perché si distraggano dal dolore.
Forse, infine, resta un tentativo placido di riconoscimento, - effettuato per tributo alla coscienza, non per la redenzione della solitudine-, nel grido “qualcuno come me è là fuori?”, che non mai è richiesta di aiuto ad un altro miserabile, ma il semplice raccordo tra un dentro ed un fuori, il rattoppo di filo tra due dimensioni, la misericordiosa unione tra due gemelli, perché l’altro fuori, è poco altro se non un me, eroso, di dentro.
Non siamo esperti, neppure da vecchi, quando siamo giorni di Prima vita.