Via Crucis è un percorso frastagliato, accidentato, al limite del paranoico e dell’abisso. Una serie di sberle e tagli ad un’anima svergognata, continuamente maltrattata da uno schiaffo che però vorrebbe essere una carezza o un soffio. Un percorso doloroso, carnale e sfibrante, con continui rimandi ad un periodo rosa cipria della sua vita - quello con la nonna, per cui ripulisce il linguaggio e fa finta di non sapere cosa sia parlare sporco, figuriamoci comportarsi da puttana.
Via Crucis è una salita in cui una donna ha indosso solo un abito lacero e si sbarba le gambe all’aperto, in attesa di qualcuno che la monti e si dimentichi di lei pure se le sta ancora dentro. Questo ritratto impietoso di una bambina che ha smesso in fretta di fare la bambina, che canta di sé come in una nenia senza tempo e si culla nella sua immagine sporca, si legge come un diario a rovescio, dove di segreto non c’è niente e il dolore è un rigurgito dritto in pieno volto, e l’anima fanciulla viene smascherata presto per i troppi stupri diretti e indotti di cui resta vittima - ostaggio volontario, a volte, olocausto innocente, altre volte ancora.
La mano della Mazzuccato trema, perché è forte quello che vuole imprimere nello slancio della scrittura, e quello che ne viene fuori è una esplosione di carne martoriata e viva, talmente viva da fare male e pulsare in nome del ricordo, di uno stato d’animo felice che forse non tornerà mai, che forse è morto come morta fu la nonna, come morta fu l’innocenza, come morta fu la speranza.