Nel racconto di Marco R. Capelli, il lettore sin dalle prime righe corre il rischio di rimanere affascinato dalle atmosfere, ora cupe ora gioiose, che l’autore riesce a creare, dando loro compiutezza, continuità, con la certezza che egli lo seguirà nei suoi salti, nei suoi passaggi improvvisi, ma riconducibili ad una genesi narrativa ben identificata. Lo spazio, il tempo, i personaggi non vengono sradicati dal contesto della narrazione: al contrario, ne simbolizzano il contenuto. I tortuosi paesaggi “molti metri sotto i suoi piedi”, si intrecciano terribili nella profondità della roccia, corrugando persino i pensieri più teneri. La Natura, il Castello, il Clan, l’Oceano, il Gigante, il Principe; e ancora i Montanari, la Morte, il Drakkar esprimono la determinazione di una coscienza che possiede una sua struttura ontologico-metafisica che si conserva costante anche negli accessi più forti, o più quieti, del livello narrativo. Marco R. Capelli umanizza l’interazione di individui, o gruppi, che operano in determinate condizioni, delineando, a volte sotto traccia, a volte scopertamente, la degradazione e la sublimazione. Egli libera i personaggi attraverso una soluzione rivoluzionaria che presuppone una misura umana che la fonda. I due protagonisti si muovono all’interno di una serie di personaggi che fanno da sfondo alla loro presenza; ma non per questo ne viene sminuito il loro ruolo. Tutt’altro: l’abilità dell’autore sta proprio nel caratterizzarne il ruolo come elemento di suggestione, di rafforzamento. Tutti i personaggi sono segnati dallo sforzo incessante di attuare certi fini nel mondo esterno con una severità che li coimplica fino al rischio della morte, o fino alla realizzazione di essa. Essi esistono, illuminano i gesti, i tormenti, la gioia dei due attori principali. Capelli cattura, per l’ennesima volta, il lettore e se lo trascina dietro in quell’oceano di sensazioni, emozioni, attese calcolate, sentimenti contrastanti che è il suo racconto. Una narrazione turgida, che non cede al compiacimento lessicale, ma che invece pennella rapidamente persone, volti, sfondi, oggetti. E’ come se da un momento all’altro un immenso abisso, un baratro oscuro e senza forma, il Ginnungagap, dovesse nascere dalla lotta tra Niflheimr, regione oscura e gelida bagnata dalle piogge e incrostata dalla brina, e Múspellheimr, regione calda, illuminata da bagliori e scintille. In questa cosmogonia universale troviamo abilmente collocati e descritti, il Gigante e il Principe. Il primo è saggio, possente, leale, una sorta di macroantropo mitologico.; ma sa anche essere malvagio e violento, e ciò ne amplifica a dismisura la presenza oscura, nell’istante stesso in cui il suo monumento d’amore sottolinea con un gesto la rapida ed inesorabile conclusione delle sue speranze. Al suo opposto, quasi in un antagonismo significante, il Principe viene estratto dal ghiaccio del Gigante; inizialmente ignaro delle sue virtù e del suo destino, egli addolcito dalla presenza della sua sposa, si appresta ad essere incoronato Signore del suo Popolo, e a diventare allo stesso momento, sposo della sua Occhidolci. Ma “una coppa d’argento accartocciata” e “ lanciata fra le braci del camino” è l’ultima frase non detta, originativa di una tragedia imminente. In questa dicotomia esistenziale, la scelta è obbligata, e si oppone a qualsiasi mediazione o tentativo giustificatorio. Nelle pagine di Marco R. Capelli si riesce a cogliere uno splendido esempio di letteratura norrena, fluida, mai statica, intrisa di forti nostalgie, totale nelle passioni.
Il racconto "Il Gigante" fa parte della raccolta "Dodici Racconti Orfani" acquistabile su Amazon.com