C’è una notte.
Ed in una notte, di solito, piove. Deve piovere perche tutto si bagni di una inconsistente presa di realtà.
E’ una di quelle arie blu ed umide, scena ideale per far arrivare i mostri con gli artigli, ad aprire il romanzo breve di Enrico Solmi, che già nel titolo porta la promessa di un graffio.
Il graffio è inferto all’anima di ognuno dei personaggi di questo racconto, ciascuno portatore di una ferita, che al lettore è dato solo di intuire, forse di immaginare sulla propria pelle come rapide scottature, attraverso la tecnica rapida del flashback.
L’impronta, una specie di artiglio con tre unghie che spuntano fuori ad uncinare, forse, una qualche verità, è una traccia che richiede di essere seguita, non tanto per essere compresa, quanto per essere visualizzata, nella sua stessa impotenza a significare qualcosa.
Questa impronta è come un’ossessione, un’incisione aerea che non si spiega, comparsa all’improvviso dentro la macchina di un uomo qualunque, che invita a salire a bordo del suo mistero, un ragazzo che non ha nessun motivo valido per accettare quel passaggio. Tutto comincia così, per divenire un coacervo di violenza e perversione.
Non ci sono ragioni, a tanto male, se non quelle di un artiglio, che se compare, compare sul parabrezza, compare sul vetro di un boccale di birra, compare sulla tazza di un cappuccino, compare sull’anima, che se compare e traumatizza, vuol dire che è dettaglio assoluto, uno di quelli che sostituiscono le descrizioni e non richiedono soluzioni. E’ un dettaglio ed è tutto.
Cosa hanno in comune Mario Margheriti, talent scout per concorsi di bellezza, dall’indubbia moralità e gradevolezza estetica, che d’improvviso apre le portiere della sua macchina a Stefano, un ragazzo dai capelli impossibili, come ce ne sono tanti, appena lasciato dalla sua fidanzata, con il cuore morto e certe idee confuse sul suo futuro?
Che viaggio potranno mai fare, nell’ossessione di quell’impronta sul vetro che sembra avvinghiare alla gola lo strano guidatore? Dove potranno mai recarsi, per vedere quali posti, per visitare quali autogrill, quali regni di nani e fate, dall’inconsistente tragica esistenza umana? E soprattutto, vedranno mai l’alba, insieme?
Gli ricorda, Mario, che un “tranquillo weekend di paura” è solo una citazione.
Che non per questo, questa notte deve trasformarsi in un incubo.
Eppure la scrittura di Solmi non lascia troppe alternative, il delitto c’è, era scritto nell’aria, ma diventa un luogo a cui arrivare, quasi una meta predestinata per quei due apparenti protagonisti. Il commissario raccoglie le testimonianze, i poliziotti veementi intervengono con ferocia a forzare una confessione, il delitto di un povero cameriere di un autogrill è la scena comica e tragica della facilità con cui si uccide un uomo. Le scene sono disgustose. E fin troppo evidenti. Il mistero, non esiste.
Perché l’assassino è Mario e non è questa la cosa importante, non questa l’ultima parola dell’artiglio.
La sua condanna era già incisa in quel moncherino che diventa la sua mano insanguinata e tutta la sua faccia che si fa artiglio essa stessa, ad afferrare un gesto di follia. Il circolo si sta chiudendo dentro il quadrato della consapevolezza.
L’impronta lo aveva seguito fin lì a ricordargli la pazzia non è quasi mai un gesto da compiere ma una traccia a cui obbedire. Mario morirà ucciso dai poliziotti a cui ha cercato di ribellarsi. All’artiglio, non aveva potuto che cedere.
Ma l’impronta non era svanita. Se la ritroverà Stefano, poco dopo, a tragedia conclusa, dentro un fazzoletto sporco di sangue.
Era solo passata ad un altro, come si passa il testimone ad un uomo di fiducia.
Così la follia omicida che alberga dentro molti di noi, spesso invisibile, si palesa con una traccia di morte.
L’artiglio era già dentro la vita di un altro.
C’è una notte.
Ed in una notte, di solito, piove. Deve piovere perche tutto si bagni di una inconsistente presa di realtà.
E’ una di quelle arie blu ed umide, scena ideale per far arrivare i mostri con gli artigli, ad aprire il romanzo breve di Enrico Solmi, che già nel titolo porta la promessa di un graffio.
Il graffio è inferto all’anima di ognuno dei personaggi di questo racconto, ciascuno portatore di una ferita, che al lettore è dato solo di intuire, forse di immaginare sulla propria pelle come rapide scottature, attraverso la tecnica rapida del flashback.
L’impronta, una specie di artiglio con tre unghie che spuntano fuori ad uncinare, forse, una qualche verità, è una traccia che richiede di essere seguita, non tanto per essere compresa, quanto per essere visualizzata, nella sua stessa impotenza a significare qualcosa.
Questa impronta è come un’ossessione, un’incisione aerea che non si spiega, comparsa all’improvviso dentro la macchina di un uomo qualunque, che invita a salire a bordo del suo mistero, un ragazzo che non ha nessun motivo valido per accettare quel passaggio. Tutto comincia così, per divenire un coacervo di violenza e perversione.
Non ci sono ragioni, a tanto male, se non quelle di un artiglio, che se compare, compare sul parabrezza, compare sul vetro di un boccale di birra, compare sulla tazza di un cappuccino, compare sull’anima, che se compare e traumatizza, vuol dire che è dettaglio assoluto, uno di quelli che sostituiscono le descrizioni e non richiedono soluzioni. E’ un dettaglio ed è tutto.
Cosa hanno in comune Mario Margheriti, talent scout per concorsi di bellezza, dall’indubbia moralità e gradevolezza estetica, che d’improvviso apre le portiere della sua macchina a Stefano, un ragazzo dai capelli impossibili, come ce ne sono tanti, appena lasciato dalla sua fidanzata, con il cuore morto e certe idee confuse sul suo futuro?
Che viaggio potranno mai fare, nell’ossessione di quell’impronta sul vetro che sembra avvinghiare alla gola lo strano guidatore? Dove potranno mai recarsi, per vedere quali posti, per visitare quali autogrill, quali regni di nani e fate, dall’inconsistente tragica esistenza umana? E soprattutto, vedranno mai l’alba, insieme?
Gli ricorda, Mario, che un “tranquillo weekend di paura” è solo una citazione.
Che non per questo, questa notte deve trasformarsi in un incubo.
Eppure la scrittura di Solmi non lascia troppe alternative, il delitto c’è, era scritto nell’aria, ma diventa un luogo a cui arrivare, quasi una meta predestinata per quei due apparenti protagonisti. Il commissario raccoglie le testimonianze, i poliziotti veementi intervengono con ferocia a forzare una confessione, il delitto di un povero cameriere di un autogrill è la scena comica e tragica della facilità con cui si uccide un uomo. Le scene sono disgustose. E fin troppo evidenti. Il mistero, non esiste.
Perché l’assassino è Mario e non è questa la cosa importante, non questa l’ultima parola dell’artiglio.
La sua condanna era già incisa in quel moncherino che diventa la sua mano insanguinata e tutta la sua faccia che si fa artiglio essa stessa, ad afferrare un gesto di follia. Il circolo si sta chiudendo dentro il quadrato della consapevolezza.
L’impronta lo aveva seguito fin lì a ricordargli la pazzia non è quasi mai un gesto da compiere ma una traccia a cui obbedire. Mario morirà ucciso dai poliziotti a cui ha cercato di ribellarsi. All’artiglio, non aveva potuto che cedere.
Ma l’impronta non era svanita. Se la ritroverà Stefano, poco dopo, a tragedia conclusa, dentro un fazzoletto sporco di sangue.
Era solo passata ad un altro, come si passa il testimone ad un uomo di fiducia.
C’è una notte.
Ed in una notte, di solito, piove. Deve piovere perche tutto si bagni di una inconsistente presa di realtà.
E’ una di quelle arie blu ed umide, scena ideale per far arrivare i mostri con gli artigli, ad aprire il romanzo breve di Enrico Solmi, che già nel titolo porta la promessa di un graffio.
Il graffio è inferto all’anima di ognuno dei personaggi di questo racconto, ciascuno portatore di una ferita, che al lettore è dato solo di intuire, forse di immaginare sulla propria pelle come rapide scottature, attraverso la tecnica rapida del flashback.
L’impronta, una specie di artiglio con tre unghie che spuntano fuori ad uncinare, forse, una qualche verità, è una traccia che richiede di essere seguita, non tanto per essere compresa, quanto per essere visualizzata, nella sua stessa impotenza a significare qualcosa.
Questa impronta è come un’ossessione, un’incisione aerea che non si spiega, comparsa all’improvviso dentro la macchina di un uomo qualunque, che invita a salire a bordo del suo mistero, un ragazzo che non ha nessun motivo valido per accettare quel passaggio. Tutto comincia così, per divenire un coacervo di violenza e perversione.
Non ci sono ragioni, a tanto male, se non quelle di un artiglio, che se compare, compare sul parabrezza, compare sul vetro di un boccale di birra, compare sulla tazza di un cappuccino, compare sull’anima, che se compare e traumatizza, vuol dire che è dettaglio assoluto, uno di quelli che sostituiscono le descrizioni e non richiedono soluzioni. E’ un dettaglio ed è tutto.
Cosa hanno in comune Mario Margheriti, talent scout per concorsi di bellezza, dall’indubbia moralità e gradevolezza estetica, che d’improvviso apre le portiere della sua macchina a Stefano, un ragazzo dai capelli impossibili, come ce ne sono tanti, appena lasciato dalla sua fidanzata, con il cuore morto e certe idee confuse sul suo futuro?
Che viaggio potranno mai fare, nell’ossessione di quell’impronta sul vetro che sembra avvinghiare alla gola lo strano guidatore? Dove potranno mai recarsi, per vedere quali posti, per visitare quali autogrill, quali regni di nani e fate, dall’inconsistente tragica esistenza umana? E soprattutto, vedranno mai l’alba, insieme?
Gli ricorda, Mario, che un “tranquillo weekend di paura” è solo una citazione.
Che non per questo, questa notte deve trasformarsi in un incubo.
Eppure la scrittura di Solmi non lascia troppe alternative, il delitto c’è, era scritto nell’aria, ma diventa un luogo a cui arrivare, quasi una meta predestinata per quei due apparenti protagonisti. Il commissario raccoglie le testimonianze, i poliziotti veementi intervengono con ferocia a forzare una confessione, il delitto di un povero cameriere di un autogrill è la scena comica e tragica della facilità con cui si uccide un uomo. Le scene sono disgustose. E fin troppo evidenti. Il mistero, non esiste.
Perché l’assassino è Mario e non è questa la cosa importante, non questa l’ultima parola dell’artiglio.
La sua condanna era già incisa in quel moncherino che diventa la sua mano insanguinata e tutta la sua faccia che si fa artiglio essa stessa, ad afferrare un gesto di follia. Il circolo si sta chiudendo dentro il quadrato della consapevolezza.
L’impronta lo aveva seguito fin lì a ricordargli la pazzia non è quasi mai un gesto da compiere ma una traccia a cui obbedire. Mario morirà ucciso dai poliziotti a cui ha cercato di ribellarsi. All’artiglio, non aveva potuto che cedere.
Ma l’impronta non era svanita. Se la ritroverà Stefano, poco dopo, a tragedia conclusa, dentro un fazzoletto sporco di sangue.
Era solo passata ad un altro, come si passa il testimone ad un uomo di fiducia.
Così la follia omicida che alberga dentro molti di noi, spesso invisibile, si palesa con una traccia di morte.
L’artiglio era già dentro la vita di un altro.
Così la follia omicida che alberga dentro molti di noi, spesso invisibile, si palesa con una traccia di morte.
L’artiglio era già dentro la vita di un altro.