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I sessanta nomi dell'amore
di Tahar Lamri
Pubblicato su SITO
Anno
2005-
Fara Editore
Prezzo €
15-
180pp.
Collana Imprinting ISBN
8887808872
Una recensione di
Salvo Ferlazzo
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Votanti:
664
Media
79.61%
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Quando ci viene chiesto:” Da un po’ di tempo a questa parte, ti vedo strano. Non sarai per caso innamorato?”. Abbozziamo una risposta, masticando un:” perché, si vede?”.
Si, si vede. Come si vede nascere, crescere, svilupparsi il sentimento d’amore, tra i due protagonisti del libro di Lamri.
L’amore fondato sul colore degli occhi, saziato dalla voce di chi si ama, riconosciuto nel contatto della pelle, diventa arte.
Una “joie de vivre” che supera la finitezza delle barriere erette dagli sms, per andare a cogliere quegli aspetti della vita che ne permettono la preservazione dalla stanchezza, dall’abitudine, in uno slancio verso un nuovo rischio, nuovi palpiti, nuovi occhi.
Scriveva Neruda in Estravagario :” io sono il miele dell’amore/nella dolcezza vespertina”.
Amore pieno, senza confini, in un clima a volte di leggenda, a volte scoperto in un paesaggio trafitto di stelle, inquietato dal vento. Lamri ci permette di fare questo viaggio, partendo da uno dei tanti sinonimi arabi, della parola “amore”.
Avvertiamo l’infinita dolcezza che nasce da “ alaqa”, legame amoroso, affetto. O da “balabil”, tormento; “chagaf”, desiderio, “ikti’ab”, melanconia, fino a “widd”, purezza e delicatezza del sentimento amoroso e di amicizia.
I due protagonisti, Elena e Tayeb, intersecano con sincera voluttà, tutti i percorsi, tutte le strade dell’amore.
Diventano carne l’uno dell’altra, e viceversa.
Quella carne che fa quasi urlare, nel primo racconto, al viaggiatore che Jean-Marie incontra in aeroporto:” Frottole. Ideali. Noi dovevamo stare con ‘Europa…! Poi quale libertà? Un milione e mezzo di algerini morti per niente, e i partigiani trattati così male!”.
L’a-eroismo di Akli è probabilmente dettato più dal desiderio di apparire, che dalla necessità di essere.
Questo suo atteggiamento, però, gli fa considerare la situazione in cui si trova Jean-Marie, tanto da invitarlo a casa del fratello, a trascorrere la notte.
E’ il gesto che riunisce e stempera l’amarezza di quell’affermazione, un riconoscimento simbolico dell’odissea eterna dell’umanità alle prese con il suo lavoro di smobilitazione dell’irrazionale nell’acquisto di una felicità perduta, che è il segno di una solidale testimonianza di tutti.
I sessanta nomi dell’amore non è solo un romanzo: è una proposta etica di fattiva collaborazione umana, nella destituzione dal dominio generativo ed oppressivo del negativo.
Il confronto vita-morte si incastona in una solida organizzazione simbolica, dove la disposizione vitale, messa quasi in sordina, si mostra subito lacerante al primo impatto della coscienza con la realtà compiuta del “male”.
La solitudine dei personaggi dei racconti, secerne da se stessa una sofferenza che prolunga sugli altri l’ombra scura dell’esilio. Così aperta allo scacco, la coscienza smaschera la sua arroganza invalicabile di una finitezza che è l’orizzonte inamovibile del suo essere-con-gli-altri.
In questo riconoscersi, si delinea lo schema della lotta, sotto qualsiasi forma essa si manifesti, intesa come comunicazione vivente, per diventare simbolo-portatore di una progettualità che è l’interno dell’essere-umano di ogni personaggio del libro.
Non c’è una pretesa verticale o una finalizzazione prospettica: il “vivre au jour le jour” rifonda l’interezza di un’opera che questi personaggi ri-propongono ad ogni azione, ogni parola.
Il racconto di manifesta, ad ogni pagina, unitario nei toni, amalgamando biografie tracciate lungo i binari dell’etere, e narrazione di episodi densi di sorprendenti fatti, della propria terra di origine.
Lamri non espunge volontariamente i suoi messaggi dal contesto-altro narrativo. Anzi. Compie un’opera di sapiente cucitura, imbastendo un ordito dialogante, che trova facilmente luogo nella mente di chi legge.
Si subisce il fascino di un insieme di fatti, personali e non, tendenti al recupero di un linguaggio della memoria che l’autore tenta, riuscendovi, di non disperdere lingo i viaggi che lo hanno portato lontano dal suo paese.
Episodi, parole, tutti legati da una sola esigenza: creare effetti di distanza e profondità. Festina lente!
L’intero scenario dei racconti, e del libro nella sua totalità, si materializza sotto gli occhi del lettore mostrando una serie di personaggi, i loro pensieri, le loro abitudini, i discorsi, trafitti da quella natura terragna che non vacilla, nemmeno di fronte a quelle intimità incomprensibili per noi, ma comprensibili per quelli che fanno diretta esperienza di quel modo di vivere, di quelle contraddizioni, persino dei ritardi di quel mondo. Cha’af, Futum, Ghamarat, Jawa.
Le molte cose che noi, lettori europei, non comprendiamo di quelle popolazioni, di quel paese, no le comprendiamo perché probabilmente fra noi e l’intima anima di quella gent, si frappone un velo che non si è saputo sollevare.
Si dileguano, così, come polverizzate le carte dei viaggiatori, magari di quelli illustri, assillati da un’idea, da un atteggiamento di precomprensione, più che altro legati ad aspettative culturali stereotipate, o ad una classicità ormai trascorsa.
L’intreccio continuo tra i due livelli, narrative e para-mediatico, rende più complessa l’immagine dei personaggi, ed è un’incessante mise en abime, un affascinante batti e ribatti tra recupero delle tradizioni e aperto abbraccio alla modernità.
Un romanzo che è vita, una vita che è un romanzo.
La voce dell’affabulatore, la sua fantasia, rinsalda, inventa a volte, fonde, arricchisce i ritratti, le vicende, restituendo particolari, dettagli odorosi d’incenso, di strade bagnate, di viali assolati, una “tatayumm” che accompagna il lettore tenendolo per mano.
Soltanto l’anima può leggere certe pagine.
Una recensione di Salvo Ferlazzo
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