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Tre semplici sconosciuti
di Andrea Franco
Pubblicato su SITO
Anno
2005-
Michele di Salvo
Prezzo €
4-
36pp.
ISBN
8889000902
Una recensione di
Salvo Ferlazzo
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Votanti:
1052
Media
81.44%
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“ Esserci, il tempo, la bellezza, la morte, l’umanità, il conoscere”, momenti fondamentali dell’esistenza.
Un viaggio, un percorso, una “recherche” proustiana nella sua architettura narrativa, ma resi fortemente personalizzati dall’autore.
Sei racconti brevi, intensi, a tratti sconvolgenti per le vicende descritte.
Non ritengo si possa partire dal primo dei racconti, “Colori”, e compiere tutto il percorso che Franco ci indica, per giungere fino all’ultimo suo racconto, “Tre semplici sconosciuti”.
Troppo semplice, troppo riduttivo. Dal primo, fino all’ultimo un solo tema: la ricerca.
E questa può essere dei tre colori che compaiono dalle prime pagine del libro; attraversa con curiosità infantile le mattane di un vecchio; si perde tra le fredde lapidi di un cimitero.
La si può raffigurare col dolore per un male incurabile, per poi lasciarla frantumare in mille ricordi. Ma non è il dolore per un amore finito, per una storia conclusa. Quelle sono ferite che sanguinano per tanto tempo, ma alla fine una cicatrice, con il suo lungo sorriso, ricorda che la vita continua.
Quella vita che si consuma, si spezza fra il lerciume di una baracca e l’ignobile presenza di due miseri individui, che raccolgono quel che resta di una esistenza violata, e ne fanno mostra come fosse un trofeo di guerra.
L’imbuto di tutte queste varie esistenze, si restringe e viene fuori così l’ultimo racconto che si snoda tra i movimenti che il vento fa fare alle tovaglie di carta bianca e blu, stese sui tavolini, e i tre personaggi, solo in apparenza singole figure silenziose del racconto, ma sicuramente archetipi di tutta un’umanità legata, connessa in un reticolo di rapporti interpersonali, dai quali non può staccarsi.
E la ricerca, dov’è? Sono tutti eroi, questi personaggi? Forse. La vita non ha bisogno di eroi, ma di persone che ne sappiano capire fino in fondo il suo significato.
E’ bene ricordare ciò che Camus scrisse a proposito del libro di Sartre, la Nausea:” senza bellezza, amore o pericolo, vivere sarebbe effettivamente troppo facile”.
Era il tempo del secondo dopoguerra, quando l’esistenzialismo appariva come il riflesso più fedele o l’espressione più autentica della situazione d’incertezza della società europea, dominata ancora dalle distruzioni materiali e spirituali della guerra, e incertamente avviata verso una ricostruzione difficile.
Verso quella ricostruzione, si avviano i personaggi di questi racconti. Ognuno di loro è intriso di una consapevole, sobria compiacenza,e si mostra ben determinato a rivelare qualcosa di sé, del suo passato, del suo presente, e forse anche del suo futuro, con lo scopo di orientare il lettore.
“ Nulla dies sine linea”, nessun giorno senza scrivere nemmeno una riga, dice Sartre di se stesso.
Nella seduzione del segno, a volte nascosto, altre volte no, risiede l’incanto di un’esistenza che si impenna in un tocco di colore, si avvita su se stessa nel ricordo doloroso, si denuclea fino a liberare pezzi incandescenti di una materia vitale, che investe ogni rapporto umano, rivelandone la sua essenza.
La stessa violenza (v.” la forma del pensiero”), anche se descritta con efficacia, non si presenta come una grumo inossidabile di sofferenza, ma si muove verso chi legge, invitandolo a trovare la bellezza – alias sollievo. E mentre con l’occhio cerchiamo la sicurezza in un gesto liberatorio, in una cessata minaccia, il pensiero ha la forma conosciuta di una strada, la luce di un caldo pomeriggio di dicembre.
Tutti i personaggi di Franco vivono, soggettivizzandola, la loro “rivolta”, significando con questo la presenza di un piano solitario dell’azione del soggetto per la sua conservazione, riconoscendo una sorta di deificazione della lingua, con la quale si esprimono.
Tutto il resto del corpo è di una fissità innaturale, per cui ne vanno denunciati i processi mistificatori su cui avviene l’abiezione del destino umano.
Dalla pittrice e il ragazzo a Riccardo il pazzo, a Gabriella e Chiara, a Chiara e all’avvenente ragazzo del cinema, fino al ragazzo della cravatta, il risultato è quello di scorgere in ognuno di essi un “ritorno”, non nel senso di un assorbimento totale dell’essere nel tutto, che smarrirebbe così la sua identità originaria; ma nel senso di un ri-trovamento, di una condizione di semplicità, uno stato di equilibrio e costanza che l’essere stesso reca in se, come segni della sua originaria “naturalità”.
Forse questa loro originaria naturalità, esprime l’apertura verso la realizzazione di ciò che è in loro di inattuato? Certo è che la capacità di Andrea Franco di collocare i personaggi in vicende differenti di una storia comune, indirizza il lettore a ritrovare nell’idea letteraria dell’autore, la presenza suggestiva di una fecondità straordinaria: il carattere irrequieto di una realtà che pone e ricompone la sua crisi, determinando “paradossi”, “scandali”, e probabilmente la sconfitta degli altri. Mentre i protagonisti si lasciano trasportare verso un approdo ontologico della coscienza.
Quei personaggi possono subire effettivamente la degradazione per colpa dell’organizzazione sociale fino al punto di farli cessare di esistere.
Ma il rifiuto che questi oppongono, quasi una via rivoluzionaria che porta alla liberazione, lascia scorgere che tale soluzione rivoluzionaria presuppone una misura umana che la fonda.
Una recensione di Salvo Ferlazzo
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