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Morgana e le Nuvole
di Alessandro Assiri
Pubblicato su PB17
Anno
2004-
Caletti Editore
Prezzo €
12-
62pp.
Collana Gli emersi ISBN
n/a
Una recensione di
Maria Carmela Marinelli
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“Morgana è ancora un sogno – esordisce l’autore nella prefazione – e per ora dorme ancora nelle nuvole”. Morgana e le nuvole. Entrambe precarie nella forma, veloci nella mutazione dell’immagine. Entrambe hanno labili i contorni e viaggiano leggere, in perenne cambiamento.
Le poesie di Alessandro Assiri segnano un “percorso insonne” in 58 tappe che inizia con “Aspettando Morfeo” e si conclude con “Mi sveglio ancora”, “un viaggio della parola” – scrive il poeta nell’epilogo della raccolta -, un insieme di contaminazioni, un dialogo serrato tra i molti inquilini ai quali ho subaffittato la mia vita”.
È un percorso in punta di piedi attraverso un paesaggio a tinte scure, fatto di “autunni nebbiosi” e “muti inverni”. Il presente è un tranquillo suicidio barattato con “sogni rancorosi” e “amorose amarezze” e i sogni si fanno salati come le lacrime versate sulle “piaghe della vita”. “Bastasse berle per dimenticarle” – scrive il poeta, mentre rimane fermo a guardare passare davanti a sé la vita, rivestendo di noia “gli anni migliori”. Nei versi si crea una chiara contrapposizione tra il desiderio di cambiare e la triste consapevolezza che il tempo sta per scadere. La senilità, infatti, è vissuta come un evento incombente, il luogo del non ritorno, mentre la vita assomiglia sempre più ad “una foglia zavorrata del giallo”, e la morte una notte d’autunno in cui la foglia diventa “rondine di un unico volo/ e di un morir per terra”. Diviso tra due forze opposte, il poeta rimane immobile in attesa che la volontà si ripresenti e che nuovi progetti tornino a infiammare la mente, concedendogli di assaporare ancora una volta l’illusione di sentirsi vivo. Sullo sfondo di questo paesaggio cupo, unica tinta forte rimane forse il rosso della passione, delle labbra voraci e desiderose di inghiottire e di essere inghiottito. “L’amore è l’unica vibrazione che tocca l’eternità”, l’amore è “un desiderio infinito senza possedere, ma solo appartenendo”. Pochi versi intrisi di sospiri, di odore di corpo, di “desideri rapaci”, di amori fugaci, impetuosi, “fiori” continuamente recisi “per altri sollazzi”. L’unica volontà è quella mossa dal desiderio, ma come il poeta stesso canta, la “volontà che vali/ per i miei sogni immensi” è anch’essa un miraggio perché “fondata sulla sabbia instabile dei sensi”.
Assopito, adagiato, adeguato, annoiato. L’anima del poeta è una zattera in un pantano, incapace di spiegare le sue vele e di correre verso i sogni e si carica, invece, di alibi e di giustificazioni verso il suo non agire. Piuttosto che spiccare il volo e rischiare di non saper volare, “incapace di scelte, rimango seduto”. È indicativa l’immagine del poeta seduto sulla sabbia, fermo, mentre da lontano vede le vele bianche spiegate al vento che scivolano leggere. Nella sua immobilità è racchiuso tutto il suo dolore.
All’immobilità interiore del poeta si contrappone una lingua viva e mutevole. Ogni poesia scandisce in modo diverso il discorso, con i suoni, il tempo e le pause del movimento interiore. Si creano così schemi aperti e mutevoli che disarticolano il messaggio poetico, lo frammentano, lo dividono, lo separano, come le nuvole nel cielo. Lo stile è prevalentemente nominale, l’espressione a volte molto sintetica, a tratti simile a brevi pennellate nervose che conferiscono al movimento poetico un ritmo franto, quasi ansimante. La sintassi si carica di frasi ipotetiche, congiuntivi passati carichi di rimpianti e condizionali colorati da tenui speranze e da sogni salati. Ogni singola poesia, quindi appare non rispondere a nessuno schema metrico, ma si rivela parte di un cammino di ricerca che, di volta in volta, si adegua alle esigenze espressive del poeta. Il poeta mescola versi e prosa lirica, crea assonanze, rime baciate e allitterazioni, quasi a voler cercare il suono che meglio possa dare voce ai suoi tormenti interiori. La parola è uno strumento lirico che si accorda di volta in volta, di poesia in poesia, dando vita al triste canto dei “sogni mancati” e “fondati sulla sabbia instabile”, dei “pallidi miraggi” e delle “creazioni incompiute”.
Il poeta trasferisce nella parola il segno di un disagio che appartiene ad una generazione che troppi treni ha perduto e in alcuni tratti i versi si avvicinano molto ad un mea culpa carico di pathos: i ricordi e i rimorsi non gli permettono di conciliare il sonno, i suoi alibi appaiono sempre più con chiarezza come una fragile cattedrale eretta sulle fondamenta della sua inerzia. Da questa considerazione scaturisce il rifiuto verso quello che è stato: “vorrei assomigliare meno a quello che è stato”.
La speranza di rinascita fa timidamente capolino dietro le quinte di alcuni versi, ma la sua luce è fioca e non risulta abbastanza forte da smuovere l’animo e infiammare lo spirito: “da muti inverni emergeranno altre ali che potremo ospitare tra un sole radioso”. Sono timidi colori di speranza che tuttavia non riescono a diluire il grigiore di un presente vissuto con le spalle rivolte al futuro e la mente nostalgica e piena di risentimento verso il passato, verso quello che sarebbe potuto essere. “Se fossi, se fossi, tutto quello che non sono stato/ se potessi, se potessi sarei diverso da ciò che sono stato”.
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