Un libro scritto come per compulsione, per spinta interna, per un urgente bisogno di dire ogni cosa, di dire tutto, su tutte.
Ecco l’incipit:
Nel rosso finisce; nel verde comincia. C’era regno da abeti scudato e da bosco, diceria portentosa a teatro di maleficio additandolo - tempo, tempo fa. La radura lenta tra euforbia e abrotano contenne castello e macerie, e una scarpetta che dorme il suo sonno di cosa. È della Cuore di Brace, nata in maggio, giorno di rosso, e questo, lettore, successe.
La polposa levatrice del borgo colonnati traversa e in bosco conduce la principessina: tenendola contro il petto, a mano ripara la tenera testa. Il re ha radunato i cani; suonano i corni da caccia. Esibito il fagotto fa, il padre, Che bella!, come ogni altro orgoglioso. La ’mammana’ è affabulatrice: cantilenando lo instupidisce nodoso e curvo com’è, pittorescamente ’sulla testa dei figli’ giurando che mai una ne nacque così. Il re cacciatore in solluchero va; i cavalli ciechi condotti nell’intrico del bosco, nitriscono dagli spiriti punti. Su un larice il ceppo - distrazione fatale - quella donna, neonata dimentica. La leccherà, frusta, il sangue e la carne.
Mi capita di leggere ultimamente sempre più libri che vogliono essere espressione di modernità e tentano di riuscirci tramite un linguaggio che pretende di farsi classico tralasciando le norme dello scrivere comune, banale (insomma: tramite la scelta di parole e sintassi complicate, con l’inserimento addirittura di arcaicismi) oppure affrontando temi apparentemente scabrosi; e dico apparentemente giacché oggi niente più potrebbe sul serio scandalizzarci.
Il romanzo di Simona Friuli (attenti: sono io a chiamarlo romanzo) fa parte della prima categoria. Va letto cercando di non lasciarsi irritare e di non lasciarsi frenare dal linguaggio, concentrandosi, viceversa, massimamente sulla storia. Sulle storie, al plurale, che comunque possiamo considerare tutte assorellate e costituenti un’unità.
Per la maniera di porsi verbalmente, possiamo affermare che si tratta di un nuovo Quer pasticciaccio brutto... che però, al contrario del capolavoro gaddiano, non si appoggia su dialettismi, bensì solo sull’italiano. E ’che’ italiano!
Indomite, come suggerisce il titolo, è un libro che vede come protagoniste diverse figure femminili. Giovani ancora, e ribelli. Di coscienza forte, almeno molte; vere e proprie sorores selvagge. Sebbene, a conti fatti, ci siano, in questa galleria di ritratti, un bel po’ di principesse... principessine alcune. Poiché crescono in una cornice comoda, almeno materialmente. Hanno a disposizione il bosco, una reggia... e chi è strega (agli occhi di se stessa) sembra voler solo giocare a ricoprire quel ruolo. Anche perché le streghe, almeno da noi, non finiscono più al rogo.
Abbiamo a che fare con una scrittrice assai brava e talentuosa - lo si capisce immediatamente -, un’autrice padronissima del vocabolario materno, ma il lettore che cerca svago immediato reputerà di certo che Simona Friuli giochi troppo con le invenzioni linguistiche, tanto che ciascun periodo occorre leggerlo più volte per capire fino in fondo cosa voglia dire. Se le invenzioni fossero sparpagliate qua e là nel testo, sarebbero ben digeribili; ma lei riempie ogni frase con questi accostamenti audaci di aggettivi e sostantivi e con queste costruzioni sbilenche, rivoltando a bella posta la formulazione... È come se avesse usato la lingua a noi nota per formare, inventare, un nuovo codice idiomatico. La prosa non è malaccio in realtà (bisogna capire la musica, addentrarvicisi, senza soffermarsi eccessivamente sulle singole sincopi) ed è più prova che indizio, appunto, di abilità narratologica. Tuttavia può risultare pesantuccio, il tutto. Le sensazioni qua e là arrivano, sì, gli stimoli a voltare pagina, a procedere oltre, ci sono. Le visioni che vengono richiamate da tali funambolesche invenzioni sono un po’ paragonabili a quelle che si hanno leggendo i romanzi di Günter Grass (spesso imbottiti di barocchismi; anzi, uno di quei romanzi è assai simile a tale modo di raccontare: si tratta de Il rombo, del 1977) o magari dalla lettura di certi libri di Gabriel Garcia Márquez. Ripeto, però: il lettore meno ferrato, o che vuole andare veloce, penserà che Simona Friuli esageri.
Prendiamolo comunque per quello che è: non una furba operazione editoriale concepita “in team”, ma un interessante prodotto letterario, sortito da una fucina privata. Cosa rara, ormai.
Dunque: ai bordi di ciascuna rappresentazione pittorica al femminile, si affacciano ogni tanto degli uomini, amanti o aspiranti amanti. Ma paiono - e sono - stereotipi, con tanto di aspetto e comportamento grotteschi, da fiaba (sono non principi ma orchi, per lo più).
Ecco: se leggiamo il libro, se leggiamo questa serie di racconti più o meno concatenati, come se si trattasse di fiaba, di un susseguirsi di fiabe, lo possiamo apprezzare fino in fondo. Cuore di Brace, La Spinosa, La Mezzana e tutte le altre ci risulteranno stranamente familiari. È la fiaba della vita stessa e, alla fin fine, ogni cosa si riduce al gioco dell’amore, a prendere e dare, possedere o essere posseduti; con re che hanno figli da ammogliare e una caterva di monne e donzelle (ciascuna con le proprie peculiarità, fortunatamente) pronte ad accogliere i pretendenti o a ricacciarli indietro. Sembra un tema risaputo, ma è di ciò che parla la nostra esistenza; e di ciò raccontano le fiabe anche attuali.
La particolarità vera è lo stile scelto da Simona Friuli per fornire di coscienza e volontà le sue lungi-da-essere-donne-angelicate protagoniste:
Gli è grata: pellicce ordinerà di licaone - nelle savane gialle e rosse, per vanità sua scannato - concupendo allo specchio, tanto bene si immagina, il suo nuovo e invitante pallore e nell’evocazione di sovranità futura, quando ancora ed ancora la verga manipolerà dello sposo-serpente - a farla eternamente giovane persuadendolo - di desiderio arrossa. I suoi occhi calcolano a fondo: È uno deforme - chi lo vorrebbe? Lei sola serva della sua sinuosità danarosa.
«Dovrei domarti, ma noi donne ’nuove’ non temiamo le bestie. Le viziamo, se son bestie vogliose...» (Pag. 96)
L’intento è chiaro: si eleva il linguaggio alla dimensione di mito per rendere mitologiche le interpreti principali. Tutte loro: dalle anime di servette alle combattenti.
Una forma sofisticata d’amore.