Ho
ripreso a scrivere versi in romanesco dopo oltre
un decennio, richiamato dalle avventurose e tragiche
vicende del maggiore filosofo del nostro Rinascimento,
che ebbe la sventura di divulgare le sue concezioni
"rivoluzionarie" nell'epoca della Controriforma,
quando la Chiesa mise in atto tutti i mezzi possibili
(persuasivi e repressivi) per impedire il dilagare
della Riforma protestante. Bruno trascorse gli
anni più difficili della sua esistenza
nella capitale: nel 1576, quando fuggito da Napoli
accusato di eresia, abbandonò l'abito domenicano
e dovette partire al più presto perché
sospettato dell'omicidio di un confratello; poi
dal 1593 al 1600 nelle prigioni del Sant'Uffizio,
dalle quali uscì il 17 febbraio 1600 per
essere bruciato vivo sul rogo. Uno sprone, di
non poca importanza, è arrivato anche grazie
alle tecnologie telematiche.
Avevo smesso di scrivere poesie in dialetto perché
ebbi la sensazione di usare una "lingua morta"
che riesce ad avere un effetto, una dignità
solo se strutturata entro forme metriche, anch'esse
decedute o, comunque, quasi del tutto disertate
dalla poesia contemporanea. Naturalmente il vernacolo
parlato oggi dalla gran parte degli abitanti di
Roma non è più quello di G. G. Belli,
e si discosta assai anche dal linguaggio usato
da C. Pascarella, da Trilussa e persino da quello
presente nei versi del nostro contemporaneo Mario
Dell'Arco (1905-1996), che forse riecheggia ancora
tra i vicoli del centro storico e di Trastevere
nelle parole di qualche "antico" abitante.
Prevale ai nostri giorni nelle periferie, un dialetto
"borgataro" infarcito di anglicismi
sovente maccheronici, contaminato da un lessico
"meridionaleggiante". E' anche diffusa
la parlata "borghese", familiare, molto
italianizzata, che ha conservato del romanesco
per lo più le desinenze e la tendenza a
troncare la sillaba finale di alcune parole.
A rifletterci meglio, si ha la sensazione che
oggi esistano più "romaneschi",
che hanno le loro radici in un contesto globale
anziché cittadino. Nel senso che il dialetto
romano è rimasto come uno sfondo alquanto
superficiale a vari linguaggi gergali che utilizzano
termini dello "slang" giovanile studentesco
dei "no global", piuttosto che quello
degli ultrà dello stadio e così
via.
Chissà che invece, grazie ad un mezzo di
comunicazione così moderno, quale la rete
telematica, non si riesca a rinverdire l'antica
tradizione dei versi rimati in un romanesco che
mantenga una certa fedeltà alle intonazioni
usate dai poeti sopra citati e dunque una schietta
identità romana, magari aperta a potenziali
fruitori di ogni dialetto o lingua e gruppo etnico.
Tornando nello specifico del sonetto su Giordano
Bruno, subito dopo aver iniziato a scrivere la
prima quartina mi è sorto un dubbio. E'
possibile parlare di un grande genio come Giordano
Bruno attraverso il sonetto? Si consideri che
il filosofo nolano, in tempi dove ancora imperava
una concezione geocentrica e chiusa del cosmo
- la dottrina aristotelico-tolemaica - sosteneva
l'esistenza di un universo infinito con molteplici,
meglio, infiniti centri [e quindi senza centro].
Dunque il suo policentrismo cosmologico si era
spinto ben oltre l'eliocentrismo copernicano.
Pertanto mi è sembrato inadeguato ricordare
un tale pensatore tramite la forma rigida, e per
certi versi angusta, di un sonetto. Poi mi son
detto che forse si poteva fare un tentativo, dunque
ho accettato la piccola sfida, ed ecco il risultato.
Per il sonetto sulla statua ("1889")
devo ringraziare l'amico Bruno Sales che in una
creativa serata trascorsa in birreria ha collaborato
alla sua stesura.
Enrico Meloni
trepadri@yahoo.it
https://it.geocities.com/trepadri
Campo de' Fiori, 1600
S'è fatta l'ora e l'onda
de la notte
saluta i viali, er core de Giordano
Riflette l'universo: mille rotte
De stelle senza centro. Colle mano
Legate e la mordacchia 'n bocca
sorte
Lungo le vie sanpietrinate, piano,
La dignità nell'abito de morte,
L'eco de la marmaja da lontano.
"Pago la libbertà,
monno sacrato,
De mannà in croce voi e l'ipocrisia,
Ignudo come er monno m'ha creato.
Pe' la condanna ar rogo c'ho
un soriso
E la paura è vostra
Cusì
sia,
Ché già m'apre le porte er Paradiso."
Enrico Meloni
Campo de' Fiori, 1889
- La statua der ribbelle nun la vojo!
-
Ruggì Papa Leone a un porporato:
-
Prima me butto giù dar Campidojo
O manno a quer paese er celibbato! -
- Oh Santità, v'abbasta
de fa' un fojo
Indove minacciate de filato:
"Scoprila e traslocamo er santo sojo!
Ah Crispi vedi tu
(Morammazzato!)"
Ma grazzie ar popolaccio e a
li studenti
Dar bronzo luccicò un mantello nero
Ar sole e illuminò puro le menti.
Er nove giugno dell'ottantanove
Sorte trionfante er libbero penziero:
Vive Giordano! E 'r Papa?
Nun ze move.
Enrico Meloni
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