Quando alla Tv sento parlare qualche sommelier
famoso, impegnato aulicamente a declamare (con
voce piena d'anima, e degustando sorsi): "Questo
Brunello trasuda aromi variegati, che vanno
dalla rucola al ribes nero, dalla grafite al
cuoio, dal tabacco dolce al legno grigliato,
dal petrolio alla gomma arabica, per arrivare
infine agli pneumatici Michelin", mi ritrovo
subito a scherzare: "Beh, quello più
che un vino, pare 'na discarica: c'è
de tutto!".
Ed è la stessa reazione che ho, dinanzi
alle poesie troppo "barocche", troppo
ricche di immagini e pensieri, poco amalgamati.
Ma di sicuro, la sovrabbondanza caotica e disomogenea
non è per nulla il difetto principale
di Fausto Cerulli, che basa invece la propria
lirica "Lazzaro lazzarone" su di una
sola e ben precisa idea-guida: l'unico dio della
vita è la morte.
Quasi imitando - almeno nella forma - i toni
dell'ingegnoso Dino Buzzati (il quale descriveva
con fantasia "accorata" gli angeli
e i santi per esaltare in essi - e in prosa
- la parte meno intaccata e più sana
del genere umano) Cerulli costruisce, al contrario,
una fiaba in versi e nemica del cielo, che -
pur dotata di rime talora impacciate e ingenue
- procede sommessa, mormorando bestemmie sottotraccia,
pronte ad illustrarci Gesù Cristo come
un teppistello soprannaturale e fastidioso,
sempre intento (per desiderio, probabilmente,
di accumulare gloria personale) a scassinare
la pace altrui.
"Donare la vita" - sembra voler dichiarare
l'autore - "significa restituire la sofferenza,
a chi finalmente se n'era liberato per intercessione
della morte".
Certo, non condivido molto simili convinzioni;
tanto che - pur apprezzando l'esemplare abilità
compositiva che attraversa il testo di "Lazzaro
lazzarone", ispirandolo per intero ad un'atmosfera
suggestiva d'incanto meditativo e blasfemo -
non riesco davvero a impedirmi questa domanda:
"Fausto Cerulli - col suo rifiuto pacchiano,
anche se mediato e attenuato dall'arte - dell'operato
del Messia, è ormai la spia di una società
che può fare a meno di Dio? Magari perché
è cresciuta sino a superarLo, diventando
migliore e più forte di Lui?
... O solo perché L'ha dimenticato?".
(c) Pietro Pancamo
Lazzaro lazzarone
Erano quattro giorni ormai e
quattro notti,
lunghe per me e brevi a chi mi era restato
sulla terra parente amico amore amato
amante e quasi mi ero davvero abituato
ad essere morto lì nel mio sepolcro sigillato
all'ombra di quattro cedri e di una palma.
Poi mi giunse all'orecchio un
parlottio,
quasi un tubare di tortore o lo scorrere
di un fiume lento, ed erano le voci
delle sorelle mie Marta e Maria.
Maria, delle sorelle mie la
più sagace
diceva che dissigillar sepolcri
porta male, che non serviva a niente
proprio a niente, ed era giusto il lutto.
Tanto, la sentivo dire con chiarezza,
il corpo di Lazzaro nostro è ormai distrutto
dal bacio di quei vermi che sappiamo.
Poi quella voce di quel vecchio
amico,
che si chiamava, sì, lo riconobbi
proprio da quella voce, Gesù di Nazzarette,
prese a dire chi crede non è morto
e se credete voi ve lo riporto
alla vita dell'orto e del bestiame.
Io non potevo farmi udire, non
volevo
dare spavento alle sorelle mie
che giustamente mi avevano a morto,
ma avrei voluto dire di lasciarmi
con le mie fasce lì e con la mia pace.
Ma quell'amico, inesorabile
nella sua
smania di voler essere il dio di un dio
padrone della morte, fece riaprire
le porte del sepolcro, e la sua voce
con tono non so se di amore
o di minaccia
mi disse Lazzaro cammina: e io presi il passo
di quella vita che non avevo amato,
e lasciai quella pace sconosciuta.
Grande fu la meraviglia della
gente,
confuse un po' di gioia le sorelle
e solo Cristo vinceva quella guerra
con la sua santa stregoneria.
Poi non ricordo più come
ho vissuto
la mia vita risorta: l'altro giorno
rileggendo per caso un versetto di Luca,
ho saputo che fui una sera a cena,
ma in disparte, con quel mio amico
ormai famoso, con quel Gesù
che adesso si chiamava Gesù Cristo
e che non mi rivolse la parola,
forse
aveva schifo di me che ero risorto
mentre a lui si preparava morte.
Fausto Cerulli
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