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VIAGGI PER TRICICLI di Eugenio Solla
SOSPENSIONE TATTILE Prima parte
Prologo 1
In altri tempi eravamo avvolti da folle, spruzzavamo bene ovunque e non cadeva neanche una lacrima. Poi arrivò il tempo bagnato dell’esilio e ti confonde, ti chiede quanto è volontario o quanto la sospensione che vivi sia l’effetto di non saper collocare il tuo destino tra gli uomini, tra le cose. La sospensione è un necessario non decidere.
dormiveglia
Là, dove inizia l’inerzia del sentimento C’è un punto nero che si allunga Toccando decine e decine di sagome inutili Non ne riconosci l’intenzione sono un alfabeto buio fatto di forme si accalcano tra ciuffi secchi le folle fluorescenti imprecano di gioia i figli del turpiloquio sono lana di vetro le scintille si spengono di gioia le sagome squadrano l’umore il buio le confonde è dormiveglia l’unico che risponde
dis-sutura ( voce del verbo scucire)
userò tempo scucirò la sutura dell’abitudine e in questa ferita mi farò spazio
userò pillole intorbidirò i sensori sarò pietra, legno e carbone amaro come la mia intenzione.
Contrada s. orsola n. 1
C’è l’attesa che riempie tutto La sua ombra che attende di essere cancellata La vernice scrostata del tempo che resta Il tempo alito tiepido sul collo Le sue cartacce sparse dimenticate I segni dei poeti arroganti e superbi Le epistole gettate Le frasi che trapanano il nulla ma vogliono arrivare l’anima che dilaga a non esistono penne per descriverne l’eccesso
Sospensione tattile
La sospensione che produce il suo ricordo È tattile È come oscillare avvolti d’aria Levigarsi la pelle d’unguento trasparente. La sospensione è la condizione qui e ora Varchi e spazi per menzogne paga con soldo di sazietà è l’indigestione di me che nega la gente
emulazione
L’ultima goccia e andiamo là dove si tuffano le maschere del giorno là dove si tiene il conto del tempo dove se guardi a fondo intravedi il sogno non ti vedo l’ultima goccia ha appannato il bicchiere
fecondazione
Avevi il mio germe in grembo Avevi il mio dolore in pegno Avevi valvole, benzina e pistoni Avevi lumache lente come il vivere Avevi la stasi, avevi il moto Avevi poco e ti bastava Avevi legna e non bruciava Avevi l’inconsistente E ora si sente
GEOGRAFIE UMANE Parte seconda
Prologo 2
“la loro lingua manca di tre lettere giacché non pronunciano né la F, né la L, né la R; cosa degna di nota, perché allo stesso modo non hanno né Fede, né legge, né Re; e perciò vivono disordinatamente, senza nessuna regola, né peso né misura”
Pedro Magalihaens Gandavo (Lisbona 1576) Descrizione degli indigeni Tapuia
Abbastanza tardi
L’uomo calamita caccia farfalle Con la rete di un polmone E il femore di un ubriacone trillano i grilli son buoni da far scoppiare spalmare d’invidia e poi mangiare il saggio ha un figlio e disegna elisse in bicicletta il padre giallo di birra suda tritolo e beve con essenza di mentolo la buonanima del re farfalla urta la sponda suonano i violini e il saggio lo racconta l’assenza di peli è in viaggio per mari a mezza voce naufraga e riemerge e sussurra scappate sento puzza di legge.
Fiaba: sarà un graffio una favola con la morale l’incesto dei corpi parlerà del folletto della siepe rivelerà tutta la sete: vento che non sa piovere api che saltano come grilli vacche che impollinano fiori. Il mare bollirà e il vulcano sarà lago Il polso non batterà non avrà un marciapiede un fuoco, un pappone
estorsione
puttana del corpo che si spalma umida negazione tra i peli puttana dolce hai l’occhio crepato di rivoli rossi non sei passione, il mio contatto è solo un’estorsione solo un desiderio carnivoro.
Quindi?
Non sono di pizzi e merletti Sono cartone bagnato: mutevole, pieghevole, adagiato sono l’insistere di un matto, un ferro attorcigliato al collo: impiccato. Cristallo lacrime, salato ammetto: sono solo sudato.
stramonio
Acqua filtra che fa muffa allegria quest’alba digiuno d’ombra, aloni scuri fame di voli nebulizzano microbi di paranoia rischiaro mi abbandono aggrappandomi all’onda allucinazione di carta stagnola che scricchiola al buio
me”troppo”litana
Occhi neri nocciole mature tolte da tempo tasciate imbrunire tradiscono vergogna in fibre prossime al callo
dita minute scorrono la corda abili nello stupore della nota, rovere o ciliegio gracchiano giganti sul collo acerbo
occhi neri dicono di fissarti ma spulciano la litania: Mozart, Bach, Rimsky
dolce penetrante in scarna ascesa il brano minimalista in onore dei ratti
Sassi neri
Dolce rotolare di superfici levigate procedono sfiorandosi in ambiente sottovuoto facile udire clamore d’anime in viaggi suoni di fiati corti affanni di vita il mento increspa disegna solchi profondi celebrando il piacere di un orgasmo che parte violento dalle mie vertebre per affacciarsi sorridente dai tuoi occhi pigro svogliato circolare d’anime recluse regala dolore passeggero schiuma malinconica e onde salate impronte di creta che invocano risposte chiare
VICINANZE Parte terza
Prologo 3
Farsi più sottili e percepire tutto anche ciò Che non si farebbe ascoltare Mai
Occhi: i miei chiusi addormentati in una baia di cotone Circe persa nel muro è lenzuola bagnate sole abbondante
odore: presente costante si spreca Circe senza naso caccia le mosche le ingoia soffocate di iodio in un affanno
pelle: corteccia d’ulivo spina di cardo Circe velluto da segnare carne da graffiare di sangue da spillare
Vicinanze
Non cercarmi scavando la sabbia piuttosto nel vento che la trascina in un granello qualunque minerale incolore
Vicinanze # #
Siamo preda di facili cadute vittime d’afe soffocanti cibo come carni
siamo loschi pensieri travestiti umori sudaticci appiccicati come resina a questo esistere da bomboniere
siamo preda di facili paure porzioni di corpo lucciole deboli calzini bucati, stoffa rammendata
Nella stanza
Divisi l’acqua scorre addosso entra tra le crepe di questo nido scontato divisi ti bagna lo zigomo se lo lecchi è salato
divisi ti entra nei muri balla in un pensiero è acaro di tappeto spazzato via
divisi è il cielo, l’immenso orizzonte chilometri di niente in cui il corpo supplica la mente
divisi è una stanza blindata calci pugni e non puoi scappare divisi è il laccio che non lascia gridare
divisi rimbocca le coperte, stende la tela prepara l’assenza È un pensiero che cerca.
A14
Muso puntato a nord io paralizzato ignoro nudità assillante frastuono semantico passeggia ad ottanta all’ora decisamente lento per ciò che scorre irrequieto in me. Prurito sfreccia nella terza corsia di viscere irritate ulcere nascoste che tornano a bruciare. Ho freddo io paralizzato ignoro nudità gelo… ma quest’ulcera mi scalda.
Stasera è festa fuori dai miei programmi abituati ad un tempo impreciso Controtempi emette il tram che passa sferragliando di ruggine sul porfido violato È la festa di chi non partecipa ed emette rumori inconsueti, arrugginiti, incastrati in gola come gargarismi di esclusione. La notte rovista come ama fare perché sadica tentatrice, rovista tra i bar che eccitano i poeti Tra i cessi ferrosi agli angoli delle rotatorie e nei visi delle troie quelle vere È la festa senza invito di chi spalma segni al lume dei ceri che consumano lenti l’ultimo canto da cerimonia.
29 5 04 Calcinacci tu ed io la polvere ci sommerge non ci salvano le foglie le pagine ci rifiutano
ci dissetiamo con l’olezzo del buio spalmandoci d’unguento che distingue rendendo tutto un istante che langue
Scusa se mi strofino ruvido e il movimento non è sinuoso Ho chiodi conficcati nella pelle e in ogni angolo della mia vanità Scusa se altero ogni soffio ma è sempre l’ultimo Scusa se al tatto sono ispido indeciso mi frantumo mentre tocco Mi sciolgo cronico di una febbre perenne e spalmo santini sui volti delle amanti Ho chiodi sottopelle fatti di belle parole ma non arrivano Perché s’illudono di essere poesia.
La strada che taglio non ha niente di conosciuto non esiste non l’ho mai percorsa Sei alla mia destra accanto ad un cumolo di carta stampata, trattengo l’aria Supero le parole e poi le parole sulle parole mi percuotono Sono assalti sinistri non serve cacciarli loro tornano, tornano mio dio tornano Ho provato ad odiare il seme più interno ancora più profondo di ciò che sento ora Mentre le dita danzano battendo l’idea Mi sono perso nel ventre della mia madre segreta nelle sue raccomandazioni nei suoi sintomi. Quanta neve scende sull’arido della mia testa legata è solo un cerchio è solo l’emicrania dopo l’amore.
abìti
Abbiamo vestito abiti chiari con il portamento elastico e nelle giornate d’afa brillavamo instancabili Scrutavamo nidi di uccelli neonati verniciati sui teneri becchi da melme ruminate Abbiamo vestito cravatte geometriche agganciate alla cintola che sfioravano il pube Contavamo i germogli che leggeri svanivano alle intemperie cadendo circolari non so dove Abbiamo vestito corpetti duri siamo stati gesso quando rigidi ci volevamo Spiegavamo senza dubbi ogni soffio di curiosità eravamo decisi allora Abbiamo vestito abiti scuri per quel lutto costante che diviene ombra ma non intralcia il cammino Intrecciavamo collane di fiori che rapidi ripiegavano in loro Abbiamo vestito abiti da sera per le occasioni migliori mascherati di fard Lasciavamo brillantini il cerone cascava lasciando spazio alla verità abbiamo vestito stracci strappati per darci un tono meno colpevole profumavamo di buono ma era tutto un teatro
Leggeri, leggeri
Leggeri come un piombo Infondo cadere imitando chiodi verticali
infondo tutto è deserto la dove è il popolo degl’infilzati
dal fondo scrutare la folla ammirarne lo sferico salire dal fondo tutto in un secondo
amore
mi consumi i polsi le cartilagini bruciano è l’esercizio della solitudine che tende all’arte mi avvicina accorcia l’aria e le nebbie da bucare il mio eccesso è tutto piantato lì nel mio tessuto centrale ma non mi è ancora chiara la distinzione tra battito e impulso tra senso e sentimento tra una vera assenza e una finta presenza.
l’uomo dorme (e se ha mangiato o bevuto in abbondanza russa)
nei solchi tintinnano i sonagli delle tue caviglie nell’erba travestita di rugiada si bagnano le suola ondeggia il tuo tessuto attorcigliato come il nodo ai capelli
al mattino si sveglia centrale il mio corpo accanto all’umido respiro di te sconosciuta lucciola delle tenebre color d’anice il fiato tuo consolazione dell’eremita col petto che non tace
Mesi
C’è un tempo che consuma tutto E logora il sensibile C’è un tempo che corre e scruta di nuca Un tempo che aspetta appoggiato ad uno spigolo in cemento un tempo di note dolci un tempo in cui gli istanti intrecciano peccati un tempo che tradisce ma è un allegro passatempo
postfazione
Intontire l’ultimo neurone vivace che si aggrappa ancora all’idea di possibile, all’idea che il liquido rigenerante della specie possa impossessarsi delle nostre inutili membra, credere che lo stomaco possa continuare in eterno a produrre bolle di gioia che sovrapponendosi arrivano alla gola, essere convinti e convinti come ciechi che il sentimento più bello non vada sottobraccio allo spigolo più unto e puzzolente del nostro essere egoisti. Mi sono guardato in una notte attorcigliato tra lenzuola appoggiato con il mio cranio al punto più umido e odorante del tuo pudore,, ti ho vista dormire sonni profondi che galleggiano in litri di malto fermentato, ti ho toccata e tu come un marmo una roccia donavi gli inserti più spigolosi dei tuoi seni, ho morso staccato carne dal tuo ventre infecondo, ho leccato baciato e leccato fino a sentirmi dentro il sacco in poliestere del mio feto disegnavo capriole in assenza assoluta di gravità avvolto dai secreti del tuo piacere e ti ho ripulita come il cane, delicato leccando ad occhi chiusi millimetro per millimetro, goccia dopo goccia . Tu di pietra liscia tagliente come le pareti di lavagna, programmata per stupire una borsa pronta, e i tuoi riti che fanno da orologio e scandiscono un tempo che possiede altri minuti un conteggio illeggibile. Io vagavo lento nel corridoio di quel castello post moderno ti ho afferrata sequestrata davanti ad un pianoforte e i fogli intrisi di calcolo cadevano su un tappeto illibato tu deforme usavi mani e piedi sopra i tasti e cadevi ritmica sulle mie cosce, un canto di note alte a cui non arrivavamo mai poi in un secondo sussurrarti appoggiandomi alle tue spalle, sfiorando le tue orecchie: non mi credere L’amore è il sentimento più egoista.
“Finito di scrivere d’inverno per concessione dei fantasmi”
©
Eugenio Solla
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