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Si svegliò presso l’argine di un ruscello. Aveva perso molto sangue. Faceva ancora buio, ma sentiva i rumori della giungla che precedevano il sorgere del sole. Con fatica raccolse l’acqua e la portò alla bocca; guardò la profonda ferita che aveva alla coscia e la parte mancante del suo fianco. Non poteva fare niente, solo tentare di alzarsi e togliersi di mezzo. Avanzò dentro la giungla e seguì a poca distanza la corrente dell’acqua. Procedeva a rilento. Passo dopo passo il dolore lo avvicinava allo svenimento; decise allora di occuparsi delle ferite. Che fare, come fare? Scovò delle grandi foglie piatte; con ripetuti morsi alla base dello stelo riuscì a staccarne qualcuna. Fu un lavoro estenuante, si tagliò la lingua, e il sangue gli rese difficile la respirazione, ma presto sentì la bocca secca. Ritornò presso l’acqua, bagnò le foglie e con esse si coprì le ferite. La pelle in certi punti era nera e violacea e lembi interi erano risvolti all’indietro scoprendo tessuti giallo verdognoli. Raccolse una pietra dal letto del fiume, la batté ripetutamente contro una roccia; ne ricavò una lama affilata e tagliò dove poté la pelle che gli penzolava dal corpo. Riprese il cammino. Riuscì a procedere così per qualche ora, fermandosi per recuperare le forze nutrendosi della sua stessa carne. Scovò una buca nel suolo e si sistemò per la notte. Avrebbe mai rivisto la luce del giorno? Non gli importava; era sfinito, tanto meglio. Ma si svegliò. Uscì dal suo rifugio; faceva caldo e umido. I raggi perpendicolari del sole penetravano a fatica attraverso il folto fogliame degli alberi. Si accorse che aveva qualcosa in bocca. Portò le dita delle mani per sentire; era un grosso grumo di carne e sangue. Durante la notte la sua lingua si era infettata e l’ascesso nella bocca gli rendeva impossibile l’utilizzo della mascella. Si trascinò verso il ruscello. Lì vicino vide due leopardi che stavano abbeverandosi; avanzò senza curarsene. I leopardi tesero i loro musi in avanti poi si rimisero a bere. Trovò nell’acqua un lungo rametto robusto, lo spezzò e lo appuntì, lo portò alla bocca; perforò l’ascesso e incise con ripetuti e secchi colpi la lingua, staccandola dalla bocca. L’uomo rimase in vita quel giorno. Il mattino seguente dal cielo cadde una pioggia gelida; il terreno ridotto a poltiglia gli rendeva impossibile ogni manovra. Era finita. Sentiva l’ultimo respiro uscirgli dal corpo e a fatica teneva aperti gli occhi. Poi ecco ad un tratto, prima li udì, poi li vide: erano tutti lì; gli uomini, le squadre dei soccorritori, gli elicotteri, le jeep, i camion, l’aereo di linea sventrato e smembrato un po’ dovunque davanti a lui. Tentò di gridare, ma non ci riuscì, cercò di avanzare ma barcollò, si accasciò a terra e morì.
©
Alberto Veronese
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