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L’elusione della verità Il regista Benvenuti indaga, la verità scompare e riappare come in un gioco di prestigio.
Un avvocato nutre dubbi comprensibili sui risultati dell’inchiesta ufficiale sulla strage di Portella della Ginestra e decide di indagare in proprio, fino a giungere a conclusioni recisamente opposte a quelle emerse dal processo de 1951.
Di Salvatore Giuliano s’intravede soltanto l‘ombra, in questo film, evitando magistralmente inutili confronti con il film di Francesco Rosi sul brigante siciliano.
Il film procede per sovrapposizioni, con un altalenare interessante tra immagini di repertorio tratte dai cinegiornali dell’epoca e la finzione cinematografica, e tra la verità, impossibile da reperire, e le reticenze, le bugie, le mezze ammissioni che non portano a soluzione alcuna.
E l’avvocato è in realtà l’alter-ego del regista, che cerca di scavare nelle pieghe di una storia che di chiaro non ha quasi nulla, come le ricostruzioni disegnate ricordano uno storyboard ed il plastico della zona fa pensare, indubbiamente, alla costruzione di un set.
L’attendibilità della verità proposta da Benvenuti non ci riguarda: ci riguarda il suo cinema, e il linguaggio da lui utilizzato per la realizzazione di questo film in particolare, nel quale la sovrapposizione tra cinema e realtà è continua, e sembra quasi suggerire l’impossibilità di cogliere il senso di questo come di tanti altri avvenimenti della nostra storia recente.
Un film sfuggente ed allo stesso tempo suggestivo, che apre il proprio sguardo sul mistero e lo richiude sul mistero, come in un racconto fantastico: perché la verità non si può conoscere, e gli elementi naturali (il vento che spazza via le carte del professore comunista) intervengono, come per magia, ad ingarbugliare ulteriormente la realtà. Perché la politica, sembra suggerire il regista, è magia, ma non una magia qualsiasi, bensì la magia nera.
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