Un
articolo di Michele Tetro
Ma
dove è andata a finire?
Insomma, una volta la sua apparizione
sul grande schermo costituiva davvero
un evento. La desideravamo, eravamo
in fibrillazione ancor prima di recarci
nelle sale di proiezione, indugiavamo
affascinati davanti ai cartelloni, l'anelavano
bramosi e quando uscivamo dal cinema
eravamo soddisfatti, avevamo ancora
le incredibili immagini davanti agli
occhi, magari le rivedevamo prima di
addormentarci e poi se ne discuteva
il giorno dopo con gli amici e il sogno
continuava. Dobbiamo considerarli veramente
tempi finiti? Cosa ha preso il suo posto?
O, peggio, perché è sparita?
Nessun dubbio
non c'è davvero
più.
Si sta parlando, l'avrete capito, della
scomparsa della fantascienza cinematografica.
Quella buona, ovviamente.
Non facciamone una questione d'età
anagrafica. Oggi siamo tutti un po'
più anziani, meno avvezzi a lasciarci
trasportare dalle ingenue lusinghe di
un mondo, quello della gioventù,
che magari non ci appartiene più
molto
dati di fatto. Chi è
nato negli anni Settanta, come chi scrive,
oggi certo non avverte più il
sottile brivido che si comunicava quando
nella pagina degli spettacoli di un
qualsiasi giornale appariva la locandina
di un film che subito identificavamo
come fantascientifico dal titolo o dall'immagine
stessa. Non ci era dato di sapere molto
di più di questi film, rispetto
ad oggi, e già quel primissimo
approccio bastava a farci sognare. Titoli
come 1975: occhi bianchi sul pianeta
Terra (The Omega Man, di Boris Sagal,
1971), 2022: i sopravvissuti (Soylent
Green, di Richard Fleischer, 1973),
Andromeda (The Andromeda Strain, di
Robert Wise, 1970), Rollerball (id.
di Norman Jewison, 1975), La fuga di
Logan (Logan's Run, di Michael Anderson,
1976), tutti quelli che contenevano
la parola "odissea", da 2001:
odissea nello spazio (2001: A Space
Odyssey, di Stanley Kubrick, 1968) a
2002: la seconda odissea (Silent Running,
di Douglas Trumbull, 1971), da Odissea
sulla Terra (Uchu Daikaju Guirara, di
Kazui Niohmatsu, 1967) a L'ultima odissea
(Damnation Alley, di Jack Smight, 1977)
- e poco importa se contenessero giganteschi
e ridicoli mostri giapponesi o veicoli
supercorazzati in marcia nel deserto-
erano sufficienti a farci fantasticare
prima, durante e dopo la visione. E
anche se con il senno di poi avremmo
bocciato come sciocchezze alcuni di
essi, allora erano invece tutti indistintamente
grandiosi. Sì, anche l'insulso
Guerra spaziale (Wakusei Daisesu, di
Jun Fukuda, 1977) del Sol Levante, uscito
subito dopo l'irraggiungibile Guerre
stellari (Star Wars, di George Lucas,
1977). Va bene, siamo cresciuti da allora.
Ma ugualmente
dov'è oggi
quella fantascienza? Dove sono quelle
storie? Non ditemi che ormai sono state
sorpassate dai tempi e dalla attuale
tecnologia, non vi crederei. Non ditemi
neppure che ormai hanno mostrato la
corda o che siano divenute obsolete,
inammissibili, troppo ingenue o incredibili
per il pubblico di oggi
non avreste
capito nulla del vero significato del
concetto di fantascienza o, peggio ancora,
di quello di cinema.
Avanti, su
che ne è stato
dell'intelligenza fantascientifica,
dell'ingenuità temprata dal genio,
delle allusioni profonde, delle verità
meglio comprese, delle paure esorcizzate,
delle meraviglie insondabili
di
tutti quei mondi fantastici che neppure
l'astronave Enterprise sarebbe stata
in grado di raggiungere?
Possibile che per ritrovarli dobbiamo
accontentarci di sequel o remake per
lo più malfatti? Per ritrovare
qualcosa di simile ad Alien (id. di
Ridley Scott, 1979), orrore e meraviglia,
devo vedermi Alien contro Predator (Alien
vs. Predator, di Paul Anderson, 2004)?
Per ritrovare qualcosa di simile allo
sfarzo visivo di Guerre stellari devo
vedermi la nuova trilogia di Lucas?
Per ritrovare qualcosa di simile alle
visioni distopiche di società
future come in Zardoz (id. di John Boorman,
1974), La fuga di Logan, 2022: i sopravvissuti
devo vedermi Matrix (id. di Wachowski
Bros, 1999-2003)? Per ritrovare l'ingenuo
ma sano divertimento del Godzilla originale
(Gojira, di Ishiro Honda, 1954) devo
vedermi quello americanizzato di americana
fattura (Godzilla, di Roland Emmerich,
1998)? Se voglio ancora un Mondo dei
robot (Westworld, di Michael Crichton,
1973) devo accontentarmi di un Jurassic
Park (id. di Steven Spielberg, 1993)?
Per ritrovare poi l'impronta filosofica
universale di 2001: odissea nello spazio
o la rivelazione della coscienza interiore
di Solaris (Saljaris, di Andrej Tarkowskij,
1972)
che devo fare, affidarmi
a George Clooney?
Ma no, non sono un irriducibile nostalgico
degli anni Settanta che non sa staccarsi
dal suo periodo di formazione e accettare
nuovi stimoli. Se fosse così
non prenderei in considerazione neppure
il decennio precedente degli anni Cinquanta,
ritenendolo solo noiosa preistoria del
genere fantascientifico, vecchiume,
quando invece lo ritengo indispensabile
ed evocativo allo stesso modo, a volte
addirittura migliore. Non si può
dimenticare l'algida e terrificante
L'invasione degli ultracorpi (Invasion
of the Body Snatchers, di Don Siegel,
1956), la lotta senza quartiere tra
i ghiacci del Polo di La cosa da un
altro mondo (The Thing From Another
World, di Christian Nyby-Howard Hawks,
1951), la visionarietà cosmica
di Cittadino dello spazio (This Island
Earth, di Joseph Newman-Jack Arnold).
1954), l'umanità aliena di Ultimatum
alla Terra (The Day the Earth Stood
Still, di Robert Wise, 1951)
Non meniamo più il cane per l'aia:
oggi la fantascienza cinematografica,
che comunque c'è, è pessima.
Tutto qui. Si è ridotta ad un
videogames impazzito, affidata a rutilanti
immagini computerizzate, senz'anima
né profondità, immagini
così comuni, ormai, da non comunicarci
più nulla. Perché abbiamo
un altro, e deprimente, Pianeta delle
scimmie (Planet of the Apes, di Tim
Burton, 2001), che fa sembrare un capolavoro
anche il sequel più debole della
saga iniziata con la pellicola di Franklyn
Schaffner del 1967? Davvero ci serviva?
Perché abbiamo cose come Independence
Day (id. di Roland Emmerich, 1996) -
OK, sì, è divertente alla
fine
ma basta?- o Lost in space
(id. di Stephen Hopkins, 1998) o addirittura
la versione con attori in carne ed ossa
dell'inimitabile Thunderbirds (Thunderbirds
Are Go, di Dave Lane, 1968) a pupazzi
animati? Perché si arriva a considerare
un capolavoro la trilogia di Matrix,
che ha la stessa profondità filosofica
di una pozzanghera ed è un mosaico
di situazioni e temi in ben altra maniera
sviscerati dal cinema fantascientifico
serio? Possibile che la fantascienza
buona di oggi debba essersi ridotta
al volteggiare tra i grattacieli di
Spider Man (id. di Sam Raimi, 2001)
che tra l'altro è poi l'unico
personaggio di fumetti degnamente tradotto
sul grande schermo?
Va bene, Kubrick è morto, Spielberg
annaspa, Carpenter si è rincoglionito,
Cronenberg latita
ma le storie,
per la Galassia, le vere grandi storie
immortali di fantascienza, i romanzi
degli autori più noti, quelli
ci sono ancora e possono essere saccheggiati
da bravi registi per realizzare film
straordinari. Ci sono ancora Leiber,
Clarke, Simak, Lem con le loro straordinarie
visioni, con la loro tecnologia futuribile,
con la loro profondità di prospettiva,
con il loro taglio psicologico, con
la loro sfrenatezza spettacolare, con
la loro connaturata umanità.
C'è l'ortodossia di Asimov, che
oggi viene tradito con l'insulso Io
robot (I Robot, di Alex Proyas, 2004),
c'è l'ambiguità esistenziale
di Dick, che dopo Blade Runner (id.
di Ridley Scott, 1982) è stato
attinto a piene mani nei suoi racconti
che subito si annullano in sceneggiature
per lo meno baracconesche, c'è
il senso cosmico di Lovecraft, che viene
deturpato da ridicoli mostri e sequenze
truculentemente splatter
La fantascienza cinematografica di oggi
è un grande e rutilante contenitore
vuoto di contenuti. Ci inganna alla
vista e si ripropone come era ai tempi
d'oro senza possederne più l'ingenua
freschezza, l'inventiva semplice ma
efficace. E ci propina vacui Deep Impact
(id. di Mimi Leder, 1998), fumettistici
e snervanti Armageddon (id. di Michael
Bay, 1998), noiosi esperimenti usciti
a metà come Captain Sky and the
World of Tomorrow, rifacimenti di piccole
perle anni Cinquanta come Quando i mondi
si scontrano (When Worlds Collide, di
Rudolph Matè, 1951), riverberato
dal bidimensionale L'alba del giorno
dopo (The Day After Tomorrow, di Roland
Emmerich, 2004), minacciosi blockbuster
futuri come una Guerra dei mondi targata
Spielberg o l'ennesimo King Kong voluto
da Jackson, signore dei fardelli. Gli
extraterrestri sono ancora tra noi,
ma tutti ricordano Alien fino all'esasperazione,
sia come design, sia come storie, sia
come situazioni, le astronavi in volo
nello spazio naufragano sempre nella
ormai stantia minestra startrekkiana,
i mutanti di Cronenberg si sono rivestiti
dei costumini da X-Men (id. di Bryan
Singer, 2000).
Dove sei andata a finire, fantascienza
vera, che faticosamente ti intravedi
ancora in piccole produzioni che sono
lampi fugaci in cieli ormai plumbei,
profilandoti in Gattaca (id. di Andrew
Niccol, 1998), The Cube (id. di Vincenzo
Natali, 1997), Moebius (id. di Gustavo
Monquera, 1998)? Ma chi ricorda queste
produzioni e quanto pubblico riescono
ancora ad attrarre?
Archiviati ormai gli anni Cinquanta
con le invasioni spaziali da parte di
bellicosi extraterrestri dagli occhi
d'insetto, i giganteschi lucertoloni
che frantumavano intere città
come se fossero crackers, le tute spaziali
simili a pigiamini colorati di baldi
esploratori del cosmo e le urlanti fanciulle
tra le grinfie di mostruosi marziani
ma archiviate anche le grandi problematiche
umane sociali, culturali, urbane, tecnologiche,
ecologiche e ambientaliste degli anni
Settanta, la solennità di grandi
astronavi che scivolano nel cosmo, l'orrore
di creature partorite dalla notte stellata,
la rivolta di macchine pensanti e soprattutto
la figura dell'Uomo al centro della
riflessione che scaturiva dalla fantascienza
realistica di quegli anni, l'Uomo e
la sua Società, riprodotta in
previsione futura, l'Uomo e il suo confronto
con le nuove tecnologie, la robotica
e cibernetica, la genetica, le nuove
forme di vita terrestri o aliene, i
nuovi problemi scaturiti dal ruolo primario
assunto dalla scienza nelle nostre vite.
Pochi altri gioielli negli anni Ottanta,
come 1997: fuga da New York (Escape
From N.Y. di John Carpenter, 1981),
Blade Runner, Interceptor-Il guerriero
della strada (Mad Max 2, di George Miller,
1982), Terminator (The Terminator, di
James Cameron, 1983), Abyss (The Abyss,
di James Cameron, 1989), Dune (id. di
David Lynch, 1984), Robocop (id. di
Paul Verhoeven, 1986)
pellicole
destinate a dettare ancora legge nell'iconografia,
nei costumi, nell'allestimento scenico
e negli elementi narrativi del cinema
dei nostri stanchi tempi. Quando il
mero effetto speciale finisce col prevalere
sulla storia narrata, l'ipnosi dell'artificio
spettacolare sul fascino degli intrecci,
il contenitore sul contenuto, la meraviglia
destata dal cinema di fantascienza si
riduce presto a ripetizione e noia:
gli anni Novanta e Duemila, vuoti e
sterili nella serializzazione dei grandi
successi, nella riproposta moderna dei
classici, nell'utilizzo serioso di mode
deleterie come la New Age e il Cyberpunk
in film come Contact (id. di Robert
Zemeckis, 1997) e Matrix.
Ammettiamolo: l'attuale cinema fantascientifico
ha perso il suo smalto, la sua originalità,
il suo riscontro con il realismo. Non
per mancanza di idee valide ma a causa
di un errata (culturalmente parlando)
filosofia di mercato, volta al conseguimento
di superficiali sensazioni nel pubblico,
sovente limitate solo al "visivo".
Attraverso uno stellato Velo di Maia,
la vera fantascienza cinematografica
dei tempi che furono aveva aperto uno
spiraglio sul multiforme Altrove che
ci attendeva. Oltre la sottile fessura
di questo cielo lo spettatore si era
ritrovato a fissare un occhio spalancato,
un occhio che a sua volta fissava. L'Occhio
dell'Uomo Trascendentale, del Bambino
delle Stelle di kubrickiana memoria,
del Confronto Finale con noi stessi,
con i mondi che ci eravamo creati e
con gli esseri che venivano dall'Esterno.
Il meraviglioso Occhio nel Cielo, ormai
spento di fronte alle più recenti,
banali, infantili, noiose e risapute
visioni fantascientifiche che il cinema
ci somministra oggi.
Dove sei finita, dunque, vera fantascienza
cinematografica?
Ci manchi. (Michele Tetro)
Michele Tetro (Novara,
1969).
Redattore televisivo, laureato in
Lettere Moderne con la tesi "Fantasia
eroica e medioevo inventato nell'opera
di Robert E. Howard" e appassionato
del Fantastico in ogni sua forma, ha
pubblicato racconti di genere fantascientifico
su "OMNI" (Peruzzo Periodici),
"Futura" (Peruzzo Periodici),
"L'Eternauta" (Comic Art),
"Futuro Europa" (Perseo Libri).
Ha scritto saggistica cinematografica
per le riviste "Yorick", "Terzo
Millennio", "Il Giornale dei
Misteri". Più volte finalista
al Premio Italia per saggi e racconti
di genere fantastico, ha girato diversi
corto e lungometraggi e tiene da cinque
anni i Corsi di Cinema per la USEM (Università
Senza Età del Monteregio). Partecipa
come relatore a diverse Convention dedicate
al Fantastico (Italcon, Saga, Venerdì
Gotici etc.). Nel 2001 ha curato il
volume "H. P. Lovecraft: Sculptus
in Tenebris-saggi e iconografia lovecraftiana"
(Nuova Metropolis Edizioni) ed è
autore dei libri "Il grande cinema
di fantascienza-Da 2001 al 2001"
(Gremese Editore, 2001), Premio Italia
2002, "Il grande cinema di fantascienza-Aspettando
il monolito nero" (Gremese Editore,
2003), "Il grande cinema fantasy"
(Gremese Editore, 2004), sempre in collaborazione
con Roberto Chiavini e Gian Filippo
Pizzo, mentre a sua sola firma è
uscito il libro "Conan il barbaro.
L'epica di John Milius" (Falsopiano
Editore, 2004). Attualmente sta realizzando
l'Enciclopedia a Schede del Cinema di
Fantascienza.
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