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recensioni
Horcynus
Orca
di Stefano D'Arrigo
a cura di Roberto Donati
Prezzo
25 euro
Anno 2003
Rizzoli Editore
È
l'anno 1975: al cinema esce, tra i tanti capolavori,
Lo squalo di Steven Spielberg, metafora della
natura superiore per forza - ma non per intelligenza
- all'uomo.
In letteratura viene pubblicato un altro "monstrum"
dedicato a uno dei pericoli del mare: Horcynus
orca di Stefano D'Arrigo.
Il paragone si può forse fermare qui.
Horcynus orca, smisurato libro di ben 1250 pagine,
scritto da un siciliano appartenente al Gruppo
del '63 ed esperto di storia della lingua che,
in nome della sempre discussa e arbitraria licenza
poetica, non ha paura di sovvertire le regole
della narrativa e della grammatica inventando
una neolingua formata da modi di dire, sicilianismi,
proverbi e tutte le altre innovazioni che magari
già Verga e i veristi avevano già
attuato un secolo prima; la vera novità
stilistica di D'Arrigo sta nel suo uso smodato
e azzardato di neologismi di sua propria invenzione,
che arricchiscono (anche di difficoltà
comunicative e interpretative) il sostrato tematico
dell'opera, già di per sé profondo
e complesso. La trama non potrebbe essere più
semplice: il marinaio della fu regia 'Ndrja
Cambria sta tornando, nel 1943, a casa, nella
natia Sicilia. Il romanzo inizia con il suo
arrivo in un paesino della Calabria che si affaccia
sullo stretto di Scilla e Cariddi, il paese
delle femmine. Da lì trasborderà
in Sicilia e giungerà al suo paese, ma
la guerra ha ormai devastato tutto e niente
e nessuno è più come prima: ciò
che lo attende è la morte e basta.
Una storia così esile e banale se volete
è resa con una narrazione dai tempi lunghi,
che spesso divaga su episodi inutili per il
contesto ma essenziali per calare nella realtà
del luogo e del tempo: hanno questa funzione
le digressioni sui "pellisquadra",
i pescatori del luogo che odiano la "fera",
specie di delfino feroce e aggressivo che abita
il "duemari".
Già, il mare: Horcynus orca, come lo
era Nostos il ritorno al cinema, è un
poema sul mare, inteso come onda vitale e mortale
per la gente del posto, come ciclo eterno e
immutabile di un'esistenza.
E il mare che viene descritto è quello
tra la Calabria e la Sicilia, là dove
il Tirreno incontra lo Ionio e forma il "duemari",
stupenda invenzione geograficamente simbolica
di un'impossibilità decisionale.
È una narrazione interiore che non segue
un filo logico ma forse l'onda (e il mare ritorna)
dei ricordi e delle emozioni, una sorta di "flusso
di coscienza marino" dove i personaggi
e gli episodi variano continuamente in una sorta
di Odissea moderna.
Infatti il tema neorealista della guerra e del
ritorno del soldato è trasfigurato liricamente
in una straordinaria simbologia mitologica,
che non alleggerisce certamente la lettura ma
la rende pregnante di metafore stimolanti.
Personalmente non amo né il verismo letterario
di Verga e compagni né il neorealismo
cinematografico di Rossellini e gli altri: bene,
D'Arrigo riesce nel difficile compito di superare
la staticità e la noia dell'arte che
segue l'impossibile utopia di ricreare la "realtà
così com'è nei fatti" e ad
approdare nel lido degli autori con la A maiuscola
con un'opera unica perché inimitabile
e al tempo stesso eccezionale. Il centro, comunque,
del romanzo sta nell'apparizione dell'orca,
enorme "animalone" che sta per la
Morte e segna l'iniziazione del protagonista
a essa.
Da antologia la sua descrizione:
"Era l'Orca, quella che dà morte,
mentre lei passa per immortale: lei, la Morte
marina, sarebbe a dire la Morte, in una parola."
Per stavolta mi fermo qui, con la speranza di
avervi invogliato la lettura di questo capolavoro
spesso sconosciuto o spesso taciuto per la sua
obiettiva difficoltà (tanto che non viene
ripubblicato da anni ormai). Il fin del critico
è far scoprire la meraviglia.
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