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recensioni
IN
FEDERICAE
di Maurizio Marota
In Federicae, di Maurizio
Marota, "non entra il mondo". La presa
d'atto di questa assenza è la disposizione
d'animo occorrente per immergersi in una lettura
in cui, tanto oggi raro da apparire eccentrico,
non si ha a soggetto il "male di vivere",
ma un "intelletto d'amore" che basta
a se stesso, come il solstizio dell'estate non
chiede per sé la memoria dell'inverno
o il presagio dell'autunno. Se ne ricava all'inizio
un senso di spaesamento, una sorta di inquieto
stupore nel trovarsi in una dimensione inattesa;
poi subentra la confidenza con una lingua e
con un amore, e ci si isola, a prendere parte,
a godere dell'assenza del frastuono, in un microuniverso
in cui Marota, uomo-poeta, è "senza
voce", ma dice; arriva, "senza essere
mai partito"; e parimenti la donna è
"vetta" che "sa e tace",
quasi ancora custode, nel suo silenzio, del
mistero sacro dei monti
E dunque, ormai coinvolti e partecipi , ci si
ritrova lettori immersi in uno spirto d'amore
che rianima e ravviva, attenti a cogliere del
libro le suggestioni che suggerisce, abbandonandosi
magari all'eco alcyonica alla quale paiono rispondere
i versi: "Tu dici; e mi parli senza parole,
/ giacché un nuovo linguaggio viene a
sera, / che ora mi insegni e che ieri non c'era"
. In essi, ce se ne rende conto, il panismo
non si risolve nella confusione degli esseri
umani con il bosco, divenuti di quella medesima
sostanza: le parole più nuove non sono
dette da gocciole e foglie / lontane, ma dalla
silente donna, e in lei lui, e lei in lui, attuano
la loro estatica metamorfosi. Ma, motivo essenziale,
la favola bella che l'avverbio temporale ieri
richiama, non si esplica in un'immagine di vita
fuggevole: l'amore è sostanza, e non
illusione.
Manca il simbolismo, poi si riflette. Ogni cosa
dice se stessa, pur mentre contribuisce all'atmosfera
dolce e incantata di uno stilnovo dei giorni
nostri che rende gli innamorati marito e moglie,
in un amore non platonico ma che, tra tanti
versi che ostentano sesso, -anche con provocatoria
ingiuria-, conserva la pudicizia limpida di
un'unione che è intima.
Si era pensato che in Federicae "non entra
il mondo". Si riflette poi, tornando indietro
nella lettura, che del mondo compare, all'inizio
del libro, un riflesso che indora i capelli
della giovane donna e che trasmuta il paesaggio
reale in un "campo di grano", in "fiamma
tra fruscoli"; quasi ad eco di altri versi
del passato: un vivo sole / fu quel ch'i' vidi
Come per Laura, e come lei indeterminata, la
lode di Federica ci è proposta per mezzo
dei suoi capelli biondi, privi comunque di nodi,
già a preannunciare un'armonia che continuerà
fino al loro inargentarsi lunare.
Ed i colori al sole dell'esordio sono l'indizio
delle certezze di una promessa: il giallo del
sole, del grano, di un rogo dorato; il rosso
della fiamma, della quercia; il nero dei cento
corsari, dei sassi. Nella iniziale visione di
un amore che diverrà vita concreta, il
miraggio acquisisce, ai nostri occhi, le sfumature
del tempo che condurrà alla luna, e si
leggerà pertanto di "foglie d'argento",
di un "cielo d'acqua", di "nubi
di madrepora o salgemma"
In sé dunque, la prima lode di Federica,
dalla situazione presente ci proietta ad un
futuro non presupposto, ma dato per certo: "Verrà
l'inverno, l'ultima stagione", ci sarà
comunicato nella decima e conclusiva lode. Verrà
la luna, -si era già riflettuto-, dopo
il sole. E il finale del libro non può
infatti che obbedire alla circolarità,
eterna per l'uomo, di questo avvicendarsi, riprendendo
(mutandone solo il carattere in corsivo, la
punteggiatura e la maiuscola), i versi dell'esordio:
"quindi mi volsi , guardandola uscire "
Una ripresa preannunciata nella lode settima:
"e riprendi da capo il primo verso",
ma che, nello stupore di vederla realizzata,
ancora una volta non ci allontana dalla visione
petrarchesca della femminilità, restituendoci
la donna in una perenne giovinezza.
Il dubbio non riguarda la verità dell'amore
-il poeta non ha incertezze a riguardo-, ma
ne coinvolge la maestria poetica, poiché
Marota confessa di ricercare "scavando
pozzi, inseguendo filoni, / la parola dorata,
mai trovata, / che nel quaderno trasmuti in
eterno / -non per alchimia o magia ma per scienza-
/ ogni mio e tuo pensiero e sentimento."
Al dativo del titolo, dato quasi per scontato,
poiché pare sottendere una dedica, a
lettura ultimata, si preferisce altresì
il genitivo dell'appartenenza: di Federica,
di lei, "della più bella" è
ognuna delle dieci lodi, è intera l'
obra, che diffonda "la musica in cielo
e in terra"; sua è la parola dorata
dell'uomo-poeta; e parola -detta- a raccontare
il discorso senza parole di entrambi gli innamorati,
con immagini di splendida nitidezza, come "la
merla che al nido / si riposa nella notte di
cera."
L'espressione ci si presenta simmetrica quanto
pacata, luminosa e armonica, a tradurre, sul
piano della sapiente elaborazione formale, l'ardore
di un innamoramento che sfugge all'usura del
tempo. L'artificio formale della calibrata disposizione
numerica dei versi di ogni lode risponde forse
all'esigenza di rivelare il proprio cor gentile
e di significare a quel modo che l'amore ditta
dentro. E ciò nel pieno rispetto di una
tradizione letteraria e di fede -la preghiera
è compagna di questo amore-, e nell'attualità
di una cosciente e consapevole introspezione
psicologica, si pensa, chiudendo Federicae;
ma tenendolo ancora tra le mani, oggetto prezioso
nel quale, domani, nuovamente si troverà
rifugio, a consolazione di un troppo presente
male di vivere, e vi si scopriranno altri echi,
altre immagini e sensazioni preziose.
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