Perduta la sembianza d’uomo,/ fermo a una sbarra/ di stanchezze e speranza (Turoldo)
«Salmi metropolitani» è un libro testimonianza, un libro denuncia, ma soprattutto un libro di dedizione poetica, che si fa invocazione, supplica e preghiera, come un abbraccio silenzioso, benevolo e rassicurante.
Dopo La fontana d'acciaio (Ed. Polistampa, 2007) questa nuova raccolta di Michele Brancale si pone fin dal titolo, sotto una connotazione estremamente attuale, contemporanea, impegnata su più fronti: quello sociale, politico, umano.
La silloge nasce da un’urgenza e da una necessità (condivisa), dal bisogno di far emergere dai sotterranei, una voce (poetica) nell’assoluzione delle sue funzioni più alte (di umanità e umiltà), in un mondo frastornato e stordito dal chiasso, dal rumore, dalla fretta e dalla confusione.
Nel silenzio della pagina bianca si stagliano prepotenti fatti e storie di vita quotidiana, quelle che riempiono di cronaca nera i giornali e i TG di ogni giorno “guarderemo sullo schermo della tv,/ seduti, la bomba che ci entra in casa” (p.37), ma c’è anche la politica (la cattiva politica), la guerra, i resoconti della storia, il malaffare e un esercito di diseredati, di poveri, di abbandonati a se stessi, accerchiati dal laccio dell’indifferenza e della solitudine.
Quello che tristemente emerge dai versi di M. Brancale è una verità cruda e attuale: l’incapacità di non sapere più vedere, più ascoltare. E neppure riconoscere nell’altro qualcosa che ci assomiglia, che è anima, desiderio, sofferenza, solitudine, speranza.
(…) Di giorno
ovunque, c’è un Cristo minimo, basso,
dal volto bambino, che ha tutti i sogni
dei suoi coetanei, ma fa elemosina
ai semafori, talvolta si vende
(p. 158)
Fa da sottofondo ai versi una città grigia, anonima (aggredita da passi frettolosi, dal frastuono, dalle onde magnetiche dei cellulari). E’ lì, tra le strade, le piazze, i binari della ferrovia, il verde interrotto dai tralicci, i tetti di eternit, che avviene l’esodo di un popolo inconsapevole (consapevole?), incosciente e cieco. Accecato da se stesso, dall’orgoglio, dalle leggi del potere e del mercato “Affacciandosi alla terrazza interna/ dell’ultima casa, guardando indietro/ verso la città, siamo sulla prua,/ all’estremità: la nave incagliata” (p. 60).
Eppure, sembra dirci M. Brancale, la salvezza c’è, esiste. Viene dal “recinto delle piccole cose” (p.8) da “una voce nella sosta” (p.6), viene dal confidare e dall’affidarsi in preghiera (a quel Dio “sconfitto”, senza braccia e non visto, non riconosciuto). A quel Dio che sa risorgere sempre. Al miracolo che si compie inaspettato per strada.
“ (…) dai cavalcavia,
osservando i treni veloci in corsa,
riassaporo il valore di stazioni
anche piccole, le aree di sosta
dove chiami qualcuno che è passato
e allora avviene anche il miracolo”
(p.143)
L’autore non finge, fugge, non passa dritto, la sua parola poetica, così turoldiana (così vicina al misticismo), entra nelle cose, si pone in ascolto, a servizio dell’essere. Ad ogni “stazione” (una croce), un impegno di umiltà, un disvelamento. La grazia e la luce che si sollevano in leggerezza, in una nuova rinascita.
“L’uomo che ama la sua città non finge
Le proprie strade altrove. Vive dove
Sta un corso di pensieri radicato
Nel volto di chi incontra, nel cammino.
Fatti accanto al fratello dissipato
Nutrilo di parole personali:
da ramo secco riprende vigore”
(p.142)