Un breve e intenso romanzo corale, suddiviso in 65 capitoli che si sviluppano in un linguaggio scorrevole e accurato, e che nella parte finale, quando l’attentato si sta compiendo e la situazione si fa più concitata, divengono più brevi e di conseguenza la narrazione assume un carattere più frammentato, quasi a voler rappresentare l’infinità di schegge e brandelli di ogni genere causati dall’esplosione. La vicenda si ferma all’attentato di via Rasella, escludendo la spinosa e tragica questione dell’eccidio delle Fosse Ardeatine.
Si riscontra una scrupolosa precisione nell’esposizione dei fatti, anche sul versante topografico, ciò è verosimilmente frutto di un attento lavoro di documentazione. Tuttavia, entrando nella storia, si è colti dalla sensazione di vivere quasi una dimensione onirica, forse perché a raccontare e a dialogare, sono dei fantasmi ormai fuori da un tempo terreno. Per il resto, l’accuratezza è presente anche nella descrizione del funzionamento di armamenti e ordigni esplosivi. In effetti il sottotitolo “Storia di una bomba” sembra suggerirci che il protagonista della narrazione sia proprio il tritolo pressato in appositi contenitori metallici, al fine di realizzare un ordigno rudimentale assemblato dal giovane fisico Giulio Contini. Oppure indica che la storia deve farsi da sé, come nella poetica del verismo, eclissando il punto di vista dell’autore. Stando ai fatti, poiché le bombe non raccontato e non parlano fuorché al momento dell’esplosione, la vicenda viene narrata da giovani gappisti, ragazzi che abbracciarono la Resistenza, in nuclei che dipendevano dal Partito Comunista Italiano, i quali hanno avuto in sorte di vivere i loro anni più belli, in un’epoca come quella del secondo confitto mondiale, dove circolava la lapidaria ma eloquente frase: “Pietà l’è morta!”. Viene data voce anche a chi sta dall’altra parte della barricata: agli altoatesini del terzo battaglione Bozen, non giovanissimi per l’epoca (avevano un’età compresa tra i 26 e i 42 anni), coscritti della Germania nazista e spediti a Roma a presidiare la prestigiosa “città aperta”. La maggior parte di loro vede i tedeschi e il nazismo come entità estranee alla loro quotidianità di semplici montanari e valligiani del Sud Tirolo; ma, vittime della guerra, sono costretti a partire e fare il loro dovere al comando di ufficiali tedeschi che non li stimano e li chiamano con l’appellativo mortificante di “Teste di legno”, per via della loro scarsa attitudine bellica. Non va dimenticato che al momento della rappresaglia i sopravvissuti del terzo battaglione Bozen rifiuteranno di prendere parte all’eccidio (come era consuetudine), che comportava il massacro non dei responsabili dell’attentato ma di innocenti cittadini. Il loro comandante boemo, il maggiore Hans Dobek, dinanzi ai superiori, sosterrà che i suoi soldati non se la sentono di partecipare alla rappresaglia, poiché non hanno mai sparato contro esseri umani e per di più sono cattolici e attempati. In seguito, una trentina di sopravvissuti diserterà, tornando in Alto Adige, dove, denunciati dai vicini, saranno catturati e inviati a combattere in reparti punitivi sul fronte orientale, da cui quasi nessuno tornerà vivo.
Aldilà degli aspetti letterari, il romanzo offre l’occasione per riflettere su un fatto storico che non ha mai cessato di scatenare polemiche e destare interesse, anche perché si inscrive nelle dinamiche di una nefasta costante della storia, insita nella natura dell’essere umano, una delle specie animali più aggressive del pianeta: la guerra. Proprio per questa ragione, il passato raccontato nel romanzo di Chiara Castagna, ispira anche considerazioni che ci portano nell’attualità, visto che malauguratamente si continua a fare i conti con guerre, che coinvolgono il mondo occidentale e paesi, come Israele, che hanno fama di essere democratici. In guerra, come è noto, vige il diritto di rappresaglia, ma il confine tra questo atto di morte e distruzione, che pure è considerato legittimo, e il crimine di guerra non può e non deve essere valicato. Nell’eccidio delle Fosse Ardeatine questo limes sembra proprio essere stato oltrepassato dai comandi nazisti in Italia, che pure avviano concitate trattative con Hitler, e che riusciranno – per prevenire ribellioni di massa – a portare il rapporto tra i comunisti badogliani da trucidare per ogni “tedesco” ucciso, da cinquanta a dieci. La triste considerazione che ci cala direttamente nell’attualità è che oggi, la decisione di eliminare 335 persone a fronte dei 33 uccisi nell’attentato, quasi impallidisce se raffrontata – lo dico con dolore e sconcerto – a quanto sta accadendo a Gaza e non solo, dove la “vendetta” di Netanyahu ha già oltrepassato le trentamila vittime, di cui circa il 40% sono bambini. Non a caso più di qualcuno già da tempo, a questo riguardo, ha usato (a torto o a ragione) una parola dura come una pietra, che certamente si inscrive nel perimetro dei crimini di guerra: genocidio.
Per concludere, è opportuno porre l’accento sulla difficile operazione di scavo introspettivo, in cui si è cimentata l’autrice e che ha richiesto lucidità e coraggio per valicare l’annebbiamento di atavici e ingiustificati preconcetti nazionalisti, politici o di altra natura, con i quali sembra misurarsi Chiara Castagna, la quale coltivando ossequiosamente il dubbio, si inoltra in modo empatico e spassionato nell’animo e nella mente dei protagonisti della vicenda. Dissotterra dall’oblio emozioni, paure, incertezze, sentimenti, come inoltrandosi metaforicamente nel profondo delle Cave Ardeatine dove avvenne l’occultato eccidio, quasi a restituire alle vittime di ogni colore la loro umanità, annichilita dal brutale, spietato destino che dovettero subire, giustificato soltanto dalla infausta follia di una guerra mondiale, il cui ripetersi (e questo vale per ogni tipo di guerra) va categoricamente scongiurato, anche perché nelle guerre – come abbiamo constatato anche in questo caso - le vittime sono spesso proprio le persone meno inclini all’uso della violenza.