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recensioni
Nel bunker di Hitler di
Bernd Freytag von Loringhoven
Anno
2005 -
Einaudi, Torino
Prezzo €
13 -
155 pp.
ISBN
2147483647
Nel bunker di Hitler, 23 luglio 1944-29 aprile 1945, traduzione di Margherita Botto (ed.orig.francese, Editions Perrin, Paris, 2005)
“ Per nove mesi, dal 23 luglio 1944 al 29 aprile 1945, avevo avuto l'opportunità, rarissima per un giovane ufficiale, di incontrare Hitler quasi ogni giorno. Come aiutante di campo accompagnavo il capo di stato maggiore generale dell'esercito – il generale Heinz Guderian, e poi il suo successore, generale Hans Krebs – alle riunioni tattico-informative quotidiane. A questi incontri erano presenti i vertici della gerarchia militare, i marescialli Keitel e Goering, il generale Jodl e l'ammiraglio Doenitz, nonché un certo numero di alti dignitari del regime nazista: Himmler, Goebbels, Bormann o Ribbentrop. La Fuehrerlage era un momento centrale nella giornata di Hitler, il luogo per eccellenza dove egli poteva esercitare la sua autorità di comandante in capo delle armate e prendere le sue decisioni per l' insieme dei fronti. Avevo vissuto in diretta quelle discussioni in parte segrete.” ( pag.VIII). Scriviamolo tranquillamente, senza patemi d'animo o rimorsi, del tutto ingiustificati, in questo caso: letto questo breve trafiletto iniziale, si ha già, in sostanza, letto tutto o quasi, quello che di rilevante, utile, informativo, nuovo sugli ultimi giorni di Hitler nel bunker della cancelleria, nella Berlino stretta nella morsa dell'assedio sovietico. Che si tratti, in sostanza, di una operazione squisitamente ed esclusivamente commerciale, da sfruttare sull'onda di successi e proposte-riproposte cinematografiche, televisive, editoriali, lo sospettavamo sin dalla lettura della quarta di copertina e dai vari risvolti. I toni da imbonimento, con i richiami a un uomo che “assiste da vicino all'agonia umana e politica di colui che aveva sognato di assoggettare l' Europa al suo sogno totalitario.” , in un racconto che “ci restituisce la quotidianità dell'ultimo Hitler in tutta la sua dimensione torbida e crepuscolare, fino al precipizio ultimo dell'autodistruzione “ , sanno ben poco di letteratura seria sull'argomento, e rimandano piuttosto ad elementi di consumo di massa e di quelle forme di pruriginosa o semi-pruriginosa curiosità propria di coloro che sono attratti dalle cosiddette manifestazioni, o incarnazioni, del male. Un sottofondo wagneriano accompagna spesso troppi testi che hanno la pretesa di “illuminarci” sulla figura di Adolf Hitler. Un' ulteriore conferma della necessità solo di mercato, nel cavalcare l'onda anomala di un interesse che è in crescita esponenziale, ci viene ancora dalla quarta di copertina, dove trionfa questa frase: “ Uno dei libri che hanno ispirato il recente film La caduta di Olivier ( sic) Hirschbiegel”. Davvero interessante, perché non si riesce a capire come un testo che viene elaborato, a più mani, a partire dall'estate del 2004 -” ringrazio François e Monica d' Alançon per aver avuto l' idea di spingermi a scrivere questo libro, alla cui realizzazione hanno ampiamente contribuito le nostre lunghe conversazioni dell' estate del 2004. Mi fa piacere che sia stato pubblicato anzitutto in Francia, un paese ormai legato al mio da una solida amicizia.” ( pag.IX)- e che si pubblica quindi in Francia nel 2005, possa aver influenzato un film che esce in Germania nelle sale cinematografiche proprio nell'estate del 2004, e che, presumibilmente, dev'essere stato scritto e girato almeno, si suppone, qualche settimana prima. Fatti questi opportuni distinguo, che non possono che farci rimpiangere la Casa dello Struzzo così come l'avevamo conosciuta da ragazzi negli anni settanta, possiamo aggiungere che il testo presenta motivi reali di interesse, ma non tanto nell'ottica, fuorviante, del suo titolo. Sugli ultimi mesi nel bunker della cancelleria il barone Bernd Freytag von Loringhoven, classe 1914, non ci trasmette nulla di nuovo, salvo forse qualche piccolo episodio, dando complessivamente al lettore la sensazione che non è sufficiente essere testimoni oculari per comprendere meglio o più in profondità: il ritratto di Hitler, ad esempio, è banalmente superficiale e pieno di quei cliché che lo trasformano in un uomo ormai fisicamente a pezzi, claudicante, fanatico e in trappola, del tutto irrazionale nelle sue direttive e iniziative. Si tratta di una lettura semplicistica che non tiene conto del grado di razionalità presente anche nella fase estrema della vita del dittatore tedesco. Ma si tratta di una banalizzazione ancora peggiore perché non tiene assolutamente conto di un altro dato essenziale: già dalla fine del 1941 vi era la consapevolezza in Hitler di non poter più vincere la guerra, almeno quella guerra che lui voleva combattere e vincere. Nella fase finale del conflitto a sorreggere tutta o gran parte almeno delle sue convinzioni vi sono elementi che si riconnettono alla strategia di Federico II ( non è casuale che un suo ritratto fosse appeso nel suo scrittoio personale nel bunker della cancelleria), si può razionalmente parlare in lui di una speranza di un parallelismo storico. Federico II aveva avuto ragione della “innaturale” coalizione dei suoi nemici perché contro ogni considerazione, e con forze militari di gran lunga inferiori, aveva mostrato la sua determinazione, la sua volontà a non cedere, fino alla rottura dell'unione di forze che lo contrastava. Era questo, in definitiva, l'estremo appiglio sul quale Hitler riponeva le sue residue speranze. Paradossalmente( e forse neppure troppo ) i fatti successivi gli avrebbero dato ragione: l'alleanza tra potenze occidentali e Unione Sovietica era del tutto innaturale e avrebbe ben presto mostrato ed evidenziato i suoi limiti. A tenere uniti alleati così diversi vi erano tuttavia elementi comuni, fra tutti, il principale forse era proprio l'eliminazione e la sconfitta definitiva del Terzo Reich, oltre ad un salutare controllo reciproco.
Così come appare evidente in queste pagine il tentativo di addossare solo ed unicamente ad Hitler le responsabilità delle sconfitte militari e della catastrofe della guerra, specie sul fronte orientale, nonostante il parere dei suoi generali. La memorialistica del dopoguerra è ricchissima di testi di ufficiali e quadri degli stati maggiori tedeschi, volti soprattutto allo scopo di dimostrare che le sconfitte erano, principalmente, da attribuire al “piccolo caporale boemo”.Troppo semplice, e, ovviamente, troppo unilaterale. In questo l'autore non fa che riflettere le opinioni, molto sprezzanti e spesso errate, della sua casta di appartenenza. Così si legga a pag.61: “Hitler non accettava i consigli di nessuno, convinto di essere infallibile, in politica come nelle cose militari.” ( sbagliato),”Era un enorme egoista, ossessionato dalla conquista e poi dalla conservazione di un potere che aveva perseguito per tutta la vita.” ( semplicistico, la vera e più profonda natura del suo carattere era altra), “Il destino della Germania gli interessava solo nella misura in cui si confondeva con il suo. Nonostante tutte le belle parole il popolo tedesco era per lui solo un mezzo. Da lui non ho mai udito una parola di compassione per i soldati al fronte, i prigionieri o i feriti, i bombardamenti o i rifugiati. La sofferenza degli esseri umani non gli interessava, percepita come quantità trascurabile nello splendido isolamento dei suoi quartieri generali e, il che era peggio, non voleva vederla.” ( sono parole durissime, ma che evidenziano la non comprensione della natura profonda del dittatore, che non era assolutamente quella di un sadico o di un maniaco ). Eppure, come notavamo, qualcosa di interessante si trova, basta cercarlo nella direzione giusta, evitando di soggiacere al richiamo del “bunker della cancelleria”. L'autore discende da una antica e nobile famiglia di tedeschi del Baltico: le descrizioni del loro grado di conoscenza del mondo e della realtà più specificatamente russa non è mai banale o superficiale. Dalla storia russa i tedeschi del Baltico avevano appreso lezioni preziose: non ultimo come si organizzava, nella più completa segretezza, un complotto, senza fughe di notizie ed indiscrezioni, con cospiratori -germanici del Reich, quelli dell'attentato del 20 luglio 1944- rimproverati per essersi dimostrati troppo ciarlieri. In questi “squarci”, in piccoli aneddoti familiari e personali, si coglie, in definitiva, la ragione d'essere di questo volume.
Poco convincente, ma sicuramente politicamente appropriato, anche il mea culpa finale, con frasi che debordano in uno squisito cesello di retorica europeista e obbligo sulla vigilanza affinché determinati delitti non abbiano a ripetersi. “Quando la storia- conclude Freytag von Loringhoven- viene ad illuminare la memoria, è il miglior antidoto contro l'intolleranza e il ritorno delle illusioni.” ( pag. 144). Sarà, ma tante, troppe esperienze di questi ultimi anni, europee e non, stanno lì a dimostrarci esattamente il contrario.
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