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recensioni
Sei
pezzi da mille
di James Ellroy
Titolo originale: The cold six thousands
Anno pubblicazione USA: 2001
Una recensione di Giorgio Nebuloni
Premessa:
Dopo 'American Tabloid', di cui si propone come
proseguimento ideale, S.p.d.m. è il secondo
dei romanzi di Ellroy che esce deliberatamente
dallo schema pur vago di giallo, thriller o
poliziesco. Sembrerebbe quindi insensato trattarlo
qui, in un numero esplicitamente dedicato al
giallo e alle sue varianti. Ma, appunto, spesso
il 'vero-giallo' è indistinguibile dalle
sue infinite sfumature. Spesso le sfumature
sono il romanzo giallo. Trattare S.p.d.m. come
una propaggine ormai irriconoscibile del genere
giallo-mystery-thriller diventa allora molto
interessante per capire fin dove può
arrivare il romanzo di genere giallo, e fino
a che punto lo si può ancora chiamare
tale. Guardare alle propaggini di un fenomeno
a volte risulta molto utile per capirne il cuore.
La prima volta che tentai di leggere "Sei
pezzi da mille" venni rimbalzato all'indietro,
come contro un muro di gomma. Scorsi una trentina
di pagine senza capire assolutamente nulla dei
fatti, dei personaggi, delle connessioni e dunque
dei dialoghi. Restai basito, in bambola completa.
L'atmosfera però l'afferrai, o forse
fu lei ad afferrare me, fatto sta che non potei
fare a meno di lanciarmi in un secondo coraggioso
tentativo ripartendo da capo. La seconda volta
che tentai di leggere S.p.d.m. ci restai spiaccicato
contro, come un moscerino sul parabrezza. Finitolo
saltai in piedi convinto di aver appena avuto
un corpo a corpo con uno dei libri più
significativi degli ultimi dieci anni. Eppure
non capivo cosa fosse stato a farmi barcollare
prima ed entusiasmare poi. Dapprima pensai alla
proverbiale crudezza di Ellroy, alla sua esibizione
di violenza. Ma non era quello, non funzionava.
Quello l'avevo assaggiato altrove senza alcun
effetto collaterale di tipo esaltativi. Così
mi misi a pensare, a ragionare sul romanzo.
Conclusi che era il fatto che la creatura di
E. fosse totalmente inedita a stendermi fisicamente.
Intuii anche che le novità sostanziali
e letali consistevano nello stile e nella coralità/storicità
dei personaggi. Violenza, stile, storicità
e coralità: i nodi sono di certo questi,
ma finora temo di aver messo solo in difficoltà
chi non ha mai letto il libro. Perciò
rientrerò nei temi dalla porta spalancata
di un riassunto iper-sintetico e iper-sommario,
tentando di non rovinare il piacere di una eventuale
lettura.
La narrazione dei fatti si estende tra il novembre
'63 e il giugno '68, periodo che va dall'assassinio
di JFK a quello di suo fratello Robert, passando
per l'omicidio di Martin Luther King e la guerra
in Vietnam. In ciò S.p.d.m. è
la continuazione cronologica di American Tabloid,
a cui la morte di JFK sta come conclusione.
Nel suo nucleo, S.p.d.m. è un romanzo
di azione e conflitto. L'azione si sposta in
maniera lineare sull'asse del tempo, ma multipla
su quella dello spazio. Si salta continuamente
da Las Vegas, perno della vicenda, a locazioni
sparse per tutta l'America e oltre (Texas, Florida,
Cuba e Vietnam sono solo alcune di esse). L'azione
narrata non fa altro che seguire il conflitto
come una telecamera mobile.
I tre protagonisti sono Wayne Tedrow Junior,
poliziotto di Las Vegas corrotto e onesto al
contempo, stretto tra un padre ingombrante,
molto poco amico dei colored e una vendetta
da consumare a tutti i costi; Ward J. Littell,
ex-federale con le mani in più affari
contrastanti e una specie di coscienza sballata
che lo tormenta in direzioni incoerenti; Pete
Bondurant, mercenario al soldo della mafia di
Chicago, i cui interessi si sciolgono in un
profondo anticomunismo per mettere in pratica
il quale tutto è concesso.
Il conflitto è ciò che motiva
e muove alla azione i tre protagonisti, che
evidentemente hanno motivazioni eppure si trovano
a combattere su fronti spesso coincidenti. Nessuna
delle sfide dei tre è legale. Nessuna
è compiuta agli ordini di qualche organizzazione
ufficiale. In linea di massima, per questi tre
uomini non esiste separazione tra coinvolgimento
d'affari e implicazioni personali. Tutto è
al contempo affari - dunque richiede spietata
freddezza - e personale - e richiede vendette,
più armi e soldi per compierle.
L'assassinio di JFK è il punto zero,
quello in cui sono tutti bene o male coinvolti.
Da lì partono fili di legami tra i protagonisti
e le decine di personaggi di secondo e terzo
piano che affollano il libro. Ellroy definisce
questa galassia di "spezzaossa della Storia"
come "The Life" ovvero la "connessione
tra esuli cubani rinnegati, teste calde destrorse,
tizi del KKK, poliziotti corrotti, cabarettisti
da quattro soldi, agenti dello spionaggio",
l'insieme di persone ignote e con le mani in
tutti i sensi sporche, che ha cambiato la storia
dell'America influendo nei suoi eventi capitali,
da Dallas alla candidatura di Nixon per le presidenziali
del '68. Ellroy si spinge a dire che "se
un solo momento della loro vita avesse preso
una strada diversa, la storia americana come
la conosciamo non esisterebbe". Dunque
l'effettivo soggetto del romanzo è una
coralità di uomini con un'ideologia comune
di destra, alla quale tutti più o meno
aderiscono, ma che negli obbiettivi concreti
trova spesso conflitti interiori. Si può
infatti essere anticomunisti ma non razzisti,
reazionari ma non bombaroli, anticastristi ma
anche antimafiosi, mafiosi e razzisti ma contrari
alla vendita di eroina in America. Per non parlare
dei singoli individui spesso alleati a persone
che disprezzano al solo fine di trovare la via
per la loro vendetta. Così nel valzer
perenne di tradimenti e posizioni oblique, solo
Pete, Wayne e Ward restano sempre, in qualche
senso originario e per nulla convenzionale,
amici. I loro nemici si mischiano, si identificano,
si confondono, montagne di conti in sospeso
da saldare. Alle uccisioni si risponde con le
uccisioni, la vendetta è il carburante
emotivo senza il quale questi uomini diventerebbero
macchine ferme ai bordi di una strada.
Sebbene questa massa di persone si inserita
saldamente nell'accurato contesto storico descritto,
E. non si propone di descrivere la storia pura
e semplice. Certo non vuole nemmeno "romanzare"
tale realtà rendendola poetica, leggibile
e godibile, come una qualsiasi fiction. Il suo
scopo è una via di mezzo tra i due, è
usare i mezzi letterari per dire qualcosa di
significativo sull'America del '60 (e sull'America
in generale, aggiungo io), rifiutandosi di separare
realtà e finzione ("the one question
I never answer about 'The cold six thousand'
is what's real and what's not") perché
in fondo ora non c'è nessuna possibilità,
per noi, di sapere se effettivamente siano esistiti
quei cattivi di secondo piano e se fossero proprio
così, e avessero esattamente quei complessi
psichici o cosa. Alla domanda sarebbe scontato
rispondere: No! È falso! Tedrow e i suoi
soci spaccaossa se li è inventati di
sana pianta Ellroy, è ovvio, piantatela
di dire assurdità! E potrebbe anche starci,
se non che noi 1) non lo sapremo mai; 2) non
siamo in nessun modo interessati a saperlo.
Solo così possiamo davvero apprezzare
quel che E. chiama "il tutto coesivo in
cui eventi reali e immaginari sono stati co-optati".
La storia con la s minuscola, la storia scritta
da E., ha inghiottito quella con la S maiuscola.
La narrazione della storia è diventato
un portare la Storia ad un livello più
completo, proprio perché più discutibile.
La Storia dei Grandi Eventi - ammesso sia mai
esistita - può tornare in vita solo grazie
ad una interpretazione e ad una narrazione.
E. ci spedisce entrambe le cose con una posta
prioritaria che è arduo non aprire.
Del resto, da che mondo è mondo, è
questo lo scopo di ogni testo scritto: completare
ciò che è accaduto (gli Eventi),
piegarlo ai propri interessi, renderlo umano.
E dargli un significato, un motivo.
Dalla sintesi - confusa, per la verità
- all'analisi di coralità e storicità
del racconto il passo è stato così
breve da non accorgersi. Per quanto riguarda
il motivo tematico, su cui imperniare la sua
interpretazione degli eventi narrati, Ellroy
non compie grandi spostamenti dalla sua produzione
tipica. Il cuore tematico, senza il quale l'intera,
labirintica galassia corale di rapporti umani
delineata in S.p.d.m. non potrebbe proprio esistere,
è sempre lo stesso: la violenza. Pura,
nuda e cruda. Una violenza dal di dentro, sempre
in atto e mai guardata a freddo, a posteriori,
attraverso l'analisi autoptica di qualche cadavere
pieno di indizi. Se i thriller tradizionali,
specie quelli di ultima generazione, sono spesso
descritti come "macchinari perfetti di
tensione e suspense" e il loro ormai arcinoto
scopo è tenere il lettore incatenato
alla trama, facendogli domandare ansioso cosa
succederà e come, E. corre su una strada
molto più impervia. Il suo tono non è
mai quello macabro distaccato, tipo "Che
schifo il cadaverino a pezzetti" tanto
caro al thriller psicologico stile Deaver. (Non
che io abbia alcunché contro Deaver e
co., anzi, semplicemente fanno un'altra cosa
rispetto ad Ellroy.). Di sicuro E. è
attratto dalla cattiveria dei suoi personaggi,
al punto tale da coltivarla e trasmetterne il
fascino anche a noi. Già leggendo qualche
romanzo precedente a S.p.d.m, ad esempio 'La
collina dei suicidi' o 'Prega detective', si
era proiettati in un mondo durissimo, ultraviolento
sotto qualsiasi punto di vista. La violenza
era narrata, analizzata, inoculata nei personaggi
del mondo fittizio fino a gonfiarli come bambolotti
allo spasimo. Avevamo serial killer tra i più
maligni mai immaginati e forze dell'ordine spesso
più maniacali e schizoidi di loro. Morivano
persone a cataste, sempre con dovizia di particolari.
Ellroy ci metteva, appena possibile, nei panni
di colui che uccide, di colui che vede il polmone
esploso o l'occhio cavato in diretta, e lo vede
non sotto il microscopio dell'oggettività,
ma dentro la sua caotica prospettiva. L'uccisione,
lo stupro o qualsiasi altro delitto potevano
rappresentare giustizia pubblica/privata (raro
trovare una distinzione tra le due), oppure
necessità implacabile o puro godimento.
Ma certo la cattiveria non si limitava a serial
killer così astratti da sembrare fantasmi.
La voluttà con cui E. da sempre naviga
dentro la violenza ha spinto qualcuno a ipotizzato
che la cascata di sangue in eccesso sia una
trovata pubblicitaria, e altri a impacchettare
il tutto nella scontata confezione regalo targata
'voglia di trasgredire dell'autore'. Le cose
non vanno proprio così. In E. le situazioni
più dure, i veri conflitti, finiscono
coll'essere omogenei al resto del testo e all'atmosfera
che il testo sprigiona. E. non piazza squarci
di mostruosità in un ambiente regolare,
normale. Lui mette l'ambiente intero - e la
città di LA in primis - dentro la mostruosità.
I rapporti tra colleghi sono più crudi
delle sparatorie; le ossessioni sessuali dei
'buoni' superano quelle dei maniaci. Il mondo
dello spettacolo, quello della politica, perfino
la famiglia nel suo interno, è sullo
stesso identico livello di violenza psicologica
e 'cattiveria' del mondo criminale. I polizieschi
di E. scoprono il volto della crudeltà
umana soprattutto nel delineare le vite normali,
quelli di tutti i giorni. La criminalità
è solo il sintomo materiale evidente
della malattia che corrode l'uomo. La malattia
è ovunque. Si tratta della malvagità
umana, della violenza metafisica nata pressappoco
quando Eva ha colto una certa mela su un certo
albero. Non per niente Ellroy si ritiene un
"artista protestante".
Se già una poetica - perché di
poetica si può cominciare a parlare:
E. trasmette una visione della vita con le sue
storie, non si limita al pur onorevole compito
di divertire e/o sollazzare il lettore - di
tal sorta inizia a far star stretta a E. la
maschera di scrittore di genere, con American
Tabloid e S.p.d.m. il discorso si amplia e lo
cose trovano la loro deflagrazione naturale.
Sono due le dimensioni diverse in cui E. espande
la violenza.
La prima è: fuori dai canoni del poliziesco.
Non ci sono più buoni contro cattivi,
poliziotti alla ricerca di un colpevole. L'ultimo
residuo formale della vecchia struttura bene
contro male, ovvero l'assunzione di un personaggio
solo come protagonista e, se non proprio buono,
almeno avversario dei perversi, crolla. I personaggi
si moltiplicano, i protagonisti anche e il tutto
coincide con la Storia. Il che, come visto,
non comporta alcuna trasposizione del racconto
nel mondo della realtà, ma, al contrario,
butta anche nella realtà le riflessioni
e i valori espressi nella fiction poliziesca.
È come se E. ci dicesse: Questa violenza
metafisica non è una mia invenzione per
rendere avvincenti le Los Angeles del detective
Brown o Lloyd. Questo principio è nella
realtà, è fuori in strada, è
nelle nostre case. E c'è anche dentro
di noi.
La seconda è: fuori dal mondo narrato.
Se, come osservato, nei precedenti lavori di
E. la violenza-principio-metafisico era onnipervasiva
del mondo della finzione, e tendeva i cardini
della gabbia fittizia in cui era stata rinchiusa,
con la sua liberazione nella Storia (S.p.d.m.)
essa esce dal mondo narrato e con un gesto fisico
si impossessando delle parole scritte, delle
pagine stampate su cui il lettore mette le mani.
Per esprimere la violenza a fondo non basta
più narrarla con mezzi tradizionali.
E. lo sa e si trova costretto ad estremizzare
il suo linguaggio, ad incattivire il suo già
affilato stile. Ciò che ne esce è
roba da far impallidirei futuristi, è
un ripetuto pugno in faccia al lettore, specie
a quello che cerca un po' di svago in un thriller
Per capirci un esempio è d'obbligo. Tutto
il romanzo è così:
Hate. It moved him. It ran him. It called his
shots. He stayed cool with it. He stayed justified.
He never said nigger. They weren't all bad.
He knew it and stayed justified. He found the
bad ones. They knew him. Wayne Junior, he baaad.
He worked the deuce, he threw hurt, he spared
his hands and used his sap. He never said nigger.
He never thought nigger. He never condoned the
concept. He worked double shifts. He stayed
double justified. The owner had rules, the pit
boss has rules. Rules ruled the roost high and
wide. Wayne had rules. Wayne enforced said.
Do not paw women, do not hit women, treat whores
with respect. He enforced his rules. He bridged
race lines. He enforced his rule of intent.
He predicted rude acts, he pre-empted them.
He employed all due force. He tracked them,
he trailed them, he prowled West LV. He looked
for Wendell Durfee, it was feudal. He knew it.
The hate drew him there.
Trentadue periodi, quarantuno predicati verbali,
zero proposizioni subordinate. Come dice P.
Dodd intervistando Ellroy: "nasty, short
and deliberately brutish".
La violenza verbale crea spezzettamenti, ripetizioni
con variazioni (di solito soggetto fisso e verbi
con significato a scalare) e prosciugamento
assoluto del non necessario. Le considerazioni
personali del soggetto inquadrato sono secche,
prive di qualsiasi vagheggiamento psicologico.
He never said nigger. He never thought nigger.
He never condoned the concept. I pensieri diventano
fatti, tutto diventa un fatto che colpisce direttamente
l'attonito lettore. E i fatti sono esposti in
uno scheletro assoluto della proposizione: soggetto
+ verbo + 1 o 2 complementi. Le relazioni tra
i fatti? Che se le trovi i lettore.
Credo sia stata questa concretezza assoluta,
insuperabile, a tramortirmi nella lettura. Esistono
interi romanzi in cui succedono meno cose che
in una pagina di S.p.d.m. Si potrebbe dire che
S.p.d.m. è un concentrato di azione,
una scarica inarrestabile di colpi. Settecento
pagine di esplicitazione dei fatti.
Così dunque E. taglia fuori l'istinto
naturale del giallista a creare la tensione:
non può esserci tensione e aspettativa
per un fatto, senza un momento di rilassamento/flessione/psicologia
nel quale mettere l'attesa. E S.p.d.m. spara
fatti a ripetizione, senza pause o cali di ritmo
che consentano al lettore di riflettere sulla
vicenda. Se vuoi riflettere in S.p.d.m. devi
chiudere il libro e guardare il muro. Farlo
diventa difficilissimo però: quando stai
in battaglia tra le coltivazioni di ero in Vietnam,
infangato e sudato, non puoi appoggiare la testa
al palmo della mano e domandarti fino a che
punto l'autore faccia propria la concezione
dei movimenti per i diritti civili. In battaglia
devi combattere. S.p.d.m. è tutto un
conflitto. E. ti ci infila dentro, dentro l'odio
e dentro le vicende dei personaggi e dentro
le loro prospettive, semplicemente sommergendoti
di fatti, eventi atomici narrati a ripetizione.
In questo la tecnica è vagamente cinematografica.
I fotogrammi sono i fatti-frasi e lo scorrimento
fluido dell'immagine è l'azione generale
- narrazione.
Superfluo dire che reggere per 700 pagine uno
stile del genere senza generare ridondanze e
senza confondere troppo il lettore, richiede
capacità compositive mostruose. Unite
a questo il cambio continuo di slang a seconda
dell'appartenenza sociale del personaggio (i
neri parlano un inglese, i mafia un altro, i
mormoni un altro), miscelate il tutto con finti
documenti che testimoniano retroscena verosimili
sui rapporti tra Hoover, il KKK, i Federali,
B.L. Johnson, il movimento per i diritti civili,
i generali-narcos sudvietnamiti etc etc. e il
risultato sarà esplosivo anche ad un
primo approccio. Ma soprattutto, ci sarà
un unico legame superstite con il genere giallo-thriller
da cui E. ha preso le mosse: il nodo tematico
della violenza e del delitto, la Via Nera.
Senza denunciarmi subito alle autorità
competenti per l'enormità del paragone,
E., come Dostoevskij, ha seguito la via nera
per spedirci una raffigurazione dell'umanità.
La Via Nera è il materiale sporco con
cui l'uomo si trova a fare i conti, ovvero l'insieme
di situazioni in cui entrano in gioco questioni
riguardanti criminalità, delitto, colpa/innocenza,
morale, e soprattutto morte. Prendere come base
materiale e tematica la Via Nera è spesso
il modo più diretto per giungere al nocciolo
del problema, e cioè all'uomo dentro
e fuori. Il genere giallo-thriller-mystery- .
ci attrae proprio per questo: tocca l'oscuro,
tocca i limiti a cui possiamo arrivare. Non
c'è soluzione di continuità in
ciò, tra Delitto e Castigo, Simenon,
Il Grande Sonno, S.p.d.m. e Il Collezionista
di ossa. La radice è comune. Quello che
porta su un altro livello Dostoevskij e i 'Grandi
Autori' e rende per loro inapplicabile la categoria
di scrittori-di-genere è l'uscita da
schemi preconfezionati di narrazione, il possesso
di uno stile e la proposta di una visione del
mondo. Perciò, soddisfatti tali parametri
E. può ora tranquillamente compiacersi
di essere riuscito a "scrivere un libro
non catalogabile come romanzo mystery, thriller
o poliziesco" ("write a book that
could not be categorized as a mystery, thriller,
or crime novel") e affermare, con la consueta
modestia: "Fuck being a crime novelist
when you can be a flat-out great novelist".
In definitiva E. è slittato fuori dal
confine del romanzo di genere finendo nell'ambiguo
olimpo della Grande Letteratura. E il fatto
che il passaggio sia stato morbido, sul tapis
roulant della Via Nera, pone la questione se
esista davvero una separazione tra romanzo-romanzo
e romanzo-di-genere-giallo. Resta un dato innegabile:
si nutrono entrambi della stessa terra nera,
proprio quel tipo di terra spazzata dalle macchine
sui bordi delle strade di Las Vegas.
Le citazioni inserite tra " "
sono riportate da:
Allen Barra intervista J. E. su Interview, Dicembre
1996 (Su Findarticles.com)
Philip Dodd intervista J. E. su BBC Radio 3,
18 aprile 2001 (Su Ellroy.com)
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