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poesia
Lo
sguardo è vento
di Pietro Pancamo
a cura di Carlo
Santulli
L'ironia in poesia è un
campo un po' minato: ci sono poeti che ne rifiutano
del tutto la possibilità, come se fosse
necessario sempre ed inevitabilmente prendersi
sul serio. Come ogni fenomeno che si rispetti,
l'ironia poetica ha avuto dei detrattori, specialmente
sul versante più ideologizzato e impegnato,
ma ha anche avuto molti estimatori. In questa
raccolta di Pietro Pancamo, "Lo sguardo
è vento", l'ironia, che a tratti
fa capolino, è funzionale a far passare
un contenuto intimo, qualcosa che esprimere
apertamente sarebbe forse difficile e immodesto,
ma che l'ironia rende accettabile e specialmente
gentile. E' l'ironia di Palazzeschi depurata
di quella scherzosità fiorentina, è
un po' in una terra di confine, dove questa
incontra l'umorismo programmatico. Non a caso
una delle poesie della raccolta si intitola
"Pirandelliana", ed è guarda
caso dove il fantasma del crepuscolarismo più
aleggia, con quei Sissì e Nonnò
trasposti dal parlato, eppure felici ed efficaci,
come la passeggiata tra le vetrine, irta di
rime e distici, di Palazzeschi appunto, e ancora:
"A quest'ora/ogni paese/è un fagotto/di
stelle e di buio" ("Somiglianze"),
e qui si sentono echi anche di certo Betocchi,
con i suoi paesi e campanili solo apparentemente
privi di tensioni ed idillici. Non è
un caso che io stia usando la categoria della
gentilezza per Pancamo: esisteva un crepuscolarismo
gentile, incarnato per esempio in certe prove
di Marino Moretti, ed al quale l'autore, non
sempre inconsciamente, sembra ricollegarsi.
E qui l'ironia si dissolve in un fondo di ingenuità
e di innocenza, come in quei racconti dell'autore
dove si affacciano, direi quasi impudicamente,
angioletti e cherubini. Mi affascina inoltre
l'uso ungarettiano e chiarificante della parentesi,
che spesso è sottesa a soluzioni più
complesse ed attuali, come se il discorso aperto
non fosse sufficiente ad esprimere quel che
l'autore desidera comunicare. Si vedano i versi
"Ma lo è pure/questo cielo vagabondo/(guscio
d'aria e di respiri)/che stringe in un solo
mondo/città, mari e tempeste" ("Somiglianze"),
dove la definizione del cielo, contenuta tra
parentesi, non è solo il centro fisico,
ma concettuale della strofa riportata (e forse
dell'intero componimento).
La gentilezza come categoria espressiva della
"perplessità crepuscolare"
non impedisce che, quando il tessuto drammatico
lo richiede, Pancamo passi a modalità
più rabbiose e "gridate", come
in "Decomposizione psichica": "Il
mio cielo/è questo mio cervello/pieno
di tralicci spezzati/e di barriere sventrate/e
d'acque ferite/e di binari sradicati/che si
mordono col ferro", un altro cielo, ma
intimo e corrucciato, ma la conclusione è
ancora esplicativa e vagamente ungarettiana:
"La morte è silenzio/stonato".
E bisogna ancora di collegare ad Ungaretti l'apertura
cosmica di certi distici, come "Un'orma
di luce/imbavaglia lo spazio". ("Confronto"),
molto riuscito a mio parere, perché rende
l'idea di quello che questa raccolta offre con
piena consapevolezza di mezzi espressivi, il
racconto dello spavento di un bambino nell'affacciarsi
alla vita, e l'incredula gioia, in fondo, di
parteciparne. E tutto questo, senza il dono
di un'ironia insieme angelica e profonda, come
quella di Pancamo, non sarebbe credibile. C.S.
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