Esiste
unico modo per evitare la guerra: non farla.
(Anonimo)
Che l'idea di "guerra" abbia sempre
avuto gran peso in ogni forma o diramazione
di mito, racconto, letteratura, è faccenda
nota. La narrativa fantastica in particolare,
con la sua capacità di amplificare speranze
e incubi, ha intrattenuto fin dalle origini
un rapporto privilegiato con i miti di salvezza,
di catarsi, di distruzione. Senza voler andare
più lontano, già nella Storia
vera di Luciano di Samòsata (II secolo
d.C.) veniva descritto un gigantesco apparato
bellico nel combattimento fra Lunari e Solari:
80.000 uomini su cavalli tricefali affiancati
da ragni giganti, tiratori alati, pulci trainate
su ippogrifi, formiche dalle ali smisurate.
Luciano è ritenuto un precursore della
narrativa di fantascienza, e probabilmente la
Storia è il primo romanzo "fantastico"
in senso moderno, ma la sua era un'opera dalle
dichiarate intenzioni polemiche, allegoriche,
filosofiche, che è stata un punto fermo
per molti romanzi fantastico-filosofici settecenteschi;
e ovviamente da quelle pagine restava assente
ogni riferimento alla tecnologia.
Quanto alla fantascienza vera e propria (e ai
suoi immediati precursori, Jules Verne e Herbert
George Wells in primis), essa, a maggior ragione
in quanto collusa intimamente con le nuove tecnologie,
non ha potuto evitare fin dal suo apparire il
confronto con il tema del conflitto bellico.
Ciò è accaduto sottolineando di
volta in volta particolari aspetti, alcuni dei
quali sono divenuti, nel tempo, veri e propri
"filoni" interni al genere. Si va
dai testi che privilegiano la presentazione
di armi dai terrificanti poteri distruttivi,
alle guerre con creature d'altri mondi, agli
scenari di apocalittici conflitti globali, alle
narrazioni sul "day after" (l'epopea
di pochi sopravvissuti in un contesto fortemente
degradato), alle storie di "fantapolitica"
(in voga soprattutto negli anni Sessanta e Settanta),
a pagine il cui intento preminente, sub-generi
a parte, diviene soprattutto una riflessione
sulla natura stessa della guerra. Fermerò
la mia attenzione soprattutto su quest'ultimo
tipo di narrazioni.
Nel 1914 H.G. Wells pubblicava La liberazione
del mondo, in cui descriveva chiaramente la
costruzione e l'uso di un ordigno che era in
sostanza una bomba atomica, con conseguente
distruzione del mondo seguita da un benefico
regno di scienziati e tecnici (!). Una ventina
d'anni prima, il romanzo verniano La scoperta
infernale (1896) narrava del Folgoratore Roch,
arma pesante e informe capace di scagliare una
bomba ad alto potenziale esplosivo "costituita
da sostanze completamente nuove", annientatrice
di ogni manifestazione vitale nel raggio di
quindici chilometri. L'inventore, ingegner Thomas
Roch, vendeva (buon precursore) la sua arma
a governi senza scrupoli. Si potrebbe proseguire
a lungo su questo tema, che ha interessato fin
dai primi decenni del XX secolo un numero indefinito
di autori anche estranei alla fantascienza.
Lo stesso Italo Svevo scriveva nel romanzo La
coscienza di Zeno (1923):
Quando i gas velenosi non basteranno più,
un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto
di una stanza, inventerà un esplosivo
incomparabile in confronto al quale gli esplosivi
attualmente esistenti saranno considerati innocui
giocattoli. E un altro uomo come tutti gli altri,
ma degli altri un po' più ammalato, ruberà
tale esplosivo e si arrampicherà al centro
della Terra per porlo nel punto ove il suo effetto
potrà essere il massimo (...); e la Terra,
ritornata alla forma di nebulosa, errerà
nei cieli priva di parassiti e malattie.
È il caso di ricordare che la famosa
equazione einsteniana e=mc2 (la massa di un
corpo equivale alla misura del suo contenuto
di energia) risale al 1905; e presto inquietanti
ipotesi sulle applicazioni pratiche della "formuletta"
presero a infiltrarsi nell'immaginario narrativo
di scrittori più attenti, benché
poi i reali progetti per la bomba atomica iniziassero
solo verso la fine degli anni Trenta, dopo gli
studi dei vari Joliot-Curie, Fermi, Szilard.
In definitiva dagli anni Dieci si scriveva già
di armi atomiche e missili, dai Venti di "raggi
dalla morte"; e nel ventennio tra le due
guerre mondiali ordigni atomici erano routine
sulle pagine delle riviste pulp di science fiction.
Eppure talora apparivano storie controcorrente,
come Il potere e la gloria (1930), di Charles
Diffin. L'autore vi presentava lo scopritore
di un'arma potentissima, per poi chiedersi quanto
valesse imbarcarsi in un'avventura piena di
grosse incognite. Con l'inizio della guerra
e la messa in cantiere della prima autentica
"bomba", si verificarono alcuni episodi
che oggi possono apparire inverosimili, se non
grotteschi: l'Fbi prese a interessarsi alle...
riviste di fantascienza. Accadde nel 1944, allorché
alcuni agenti visitarono la redazione di "Astounding",
insospettiti da alcuni dettagli concernenti
la costruzione di una bomba atomica, illustrati
nel racconto Deadline di Cleve Cartmill. Il
direttore della rivista, John Campbell, rispose
con la semplice verità: Cartmill aveva
ripreso e rielaborato con fantasia dati tecnici
generici, e di dominio pubblico fin dal 1940
(aggiungo che il racconto era di fattura decisamente
pessima; noto in Italia come Missione segreta,
è ricordato unicamente per l'episodio
citato). Nello stesso periodo l'Fbi aveva ammonito
il disegnatore Alex Raymond, il celebre illustratore
di Flash Gordon, a non inserire più armi
atomiche nelle sue storie. E nel 1945 lo scrittore
Philip Wylie si vide censurare una sua opera
di science fiction sulla bomba, Il cratere del
Paradiso.
Ma si avvicinava il 6 agosto. Poco tempo prima
un altro scrittore della rivista "Astounding",
Robert A. Heinlein, nel romanzo breve Soluzione
insoddisfacente aveva fornito un'altra visione
profetica. Heinlein immaginava che gli Usa sarebbero
stati coinvolti nella guerra in atto, e avrebbero
costruito un'arma atomica capace di decretare
la fine del conflitto imponendo al pianeta una
dittatoriale "pax americana" (in realtà
l'arma descritta non era una bomba, ma una specie
di pulviscolo radioattivo). Sempre Heinlein,
in Esplosioni che capitano (1940), aveva suggerito
che una centrale nucleare avrebbe comportato
dei rischi; l'autore proponeva di collocarla
nello spazio, in modo da ritrasmettere sul pianeta
l'energia sotto altra forma. In una sua Storia
illustrata della fantascienza (1975) James E.
Gunn, docente universitario e affermato autore,
ha scritto:
Quando il 6 agosto 1945 giunse la notizia della
distruzione di Hiroshima, ogni lettore di fantascienza
in ogni parte del globo sapeva cosa voleva dire
questo fatto, e quali erano le implicazioni.
Nella nostra immaginazione avevamo già
vissuto molte volte tale esperienza. L'era atomica
iniziava. Mi chiesi se per caso la bomba non
avesse innescato una reazione a catena con la
Terra stessa e, in questo caso, quanto tempo
sarebbe occorso perché la disintegrazione
planetaria giungesse agli Usa.
Un'ipotesi del genere, per quanto bislacca
(la reazione a catena che si comunica a materiali
non fissili, un "grande nulla" capace
di inglobare l'universo) dava corpo a un timore
diffuso perfino presso alcuni scienziati. Gunn
continua:
Al tempo della prima esplosione atomica sperimentale,
Alamogordo 16 luglio 1945, Carson Mark, uno
dei brillanti scienziati dello staff, temé
fino all'ultimo che la palla di fuoco non avrebbe
smesso di crescere, fino a inglobare cielo e
terra.
Si sarebbe portati un po' a pensare che questi
"brillanti scienziati", tra la certezza
incrollabile di lavorare per la libertà
e qualche (recondito) senso di colpa nei confronti
di civili che sarebbero stati annichilati a
centinaia di migliaia, temessero soprattutto
per la propria pelle...
Dai pochi esempi citati si può forse
intuire quanto, e per quanto tempo, l'energia
atomica abbia monopolizzato in tema di guerre
l'immaginario fantascientifico (e non). Ma non
di sole bombe A, o H, o N (al neutrone) si è
interessata questa narrativa.
Per portare un esempio alternativo partiamo
ancora da Wells e da un suo insolito romanzo
del 1908, La guerra nell'aria. Opera apocalittica
tra racconto e saggio, vi si narra di una conflagrazione
mondiale in cui gigantesche aeronavi, mongolfiere
da guerra e aerei fantastici solcano i cieli
seminando morte ovunque; non si parla di atomica
ma si presagisce l'orrore del conflitto globale,
alla cui lettura oggi il romanzo unisce un gustoso
ma ambiguo sapore rètro:
L'idea che il mondo intero era in guerra (...)
si fece strada molto lentamente nel cervello
di Bert. Nella sua fantasia il conflitto, fonte
di notizie e di emozioni, era qualcosa che avveniva
in una zona circoscritta e che si usava chiamare
teatro di guerra. Ora invece l'intera atmosfera
ne era teatro e ogni paese un'arena di combattimento;
le nazioni erano ormai così poco distanziate
nella gara delle ricerche scientifiche e delle
invenzioni, e le loro conquiste così
simili, benché fossero state tenute rigorosamente
segrete che, a poche ore dalla partenza della
prima flotta dalla Franconia, una grande flotta
aerea asiatica si era spinta a ovest volando
alta sopra i milioni di uomini che, colmi di
meraviglia, la osservavano dalla pianura del
Gange. Ma i preparativi militari della Confederazione
dell'Asia Orientale erano stati fatti su scala
assai più vasta di quelli del governo
tedesco (...) Quando bombardarono New York,
i tedeschi avevano a malapena trecento aeronavi
in tutto il mondo, mentre la flotta asiatica
che volava a est, a ovest e a sud ne contava
parecchie migliaia. Inoltre gli asiatici possedevano
il Niaio, leggero ma molto efficiente, infinitamente
superiore al Drachenflieger tedesco. Era, come
quest'ultimo, un monoposto, ma costruito in
acciaio, bambù e seta artificiale; aveva
un motore trasversale e ali laterali che si
muovevano come quelle degli uccelli. L'aeronauta
era armato di un fucile mitragliatore che sparava
pallottole esplosive con carica a ossigeno e
inoltre, fedele alle migliori tradizioni del
Giappone, di una spada. I piloti erano giapponesi
ed è significativo che fin dall'inizio
si pensasse a un'aeronauta spadaccino. Le ali
di questi aerei erano dotate di artigli simili
a quelli del pipistrello, con i quali si agganciavano
ai comparti a gas dell'aeronave avversaria mentre
l'abbordavano (...)
Nel famoso saggio sulla fantascienza Nuove
mappe dell'inferno (1960), Kingsley Amis definiva
La guerra nell'aria "il più potente"
dei romanzi di Wells, "per la sua curiosa
sintesi della prima, della seconda e della terza
guerra mondiale (...) con un suono inconfondibilmente
moderno di satira e ammonimento al tempo stesso".
Restando per un'ultima volta in ambito wellsiano,
non è possibile ignorare La guerra dei
mondi (1897), per l'insieme dei simboli e temi
che racchiude. I Marziani di Wells incarnano
il dualismo di una identità in cui si
mescolano una fisionomia inumana e una umana
"malvagità assoluta", che ci
ricordano il Jekyll e Hyde di Stevenson, o la
vergognosa degenerazione del ritratto di Dorian
Gray (Wilde), e che in definitiva ci rimandano
alla parte più oscura e abietta di noi
stessi. Inoltre (ma questo può oggi interessare
di meno) nel corso della narrazione Wells inseriva
elementi di critica sociale: se i Marziani erano
invincibili e riuscivano a radere Londra al
suolo, ciò accadeva perché la
grande potenza militare dell'impero inglese
era divenuta, a suo parere, sostanzialmente
fragile. In ogni caso La guerra dei mondi ci
ricorda - se ce ne fosse ancora bisogno - che
anche descrivendo eventi di fantasia o improbabili
creature (nella fattispecie gli alieni) è
possibile parlare del "qui e ora".
Nell'universo
repressivo e ossessivo dell'orwelliano 1984
ricorrono, fra altri, tre slogan: LA GUERRA
È PACE / L'IGNORANZA È FORZA /
LA LIBERTÀ È SCHIAVITÙ:
l'applicazione letterale di queste "massime"
contribuisce in modo determinante alla perpetuazione
del regime dittatoriale.
Orwell immagina il mondo del (suo) futuro diviso
in tre grandi superstati: Eurasia, Oceania,
Estasia, in perenne belligeranza reciproca.
In realtà si tratta di un conflitto dagli
scopi limitati, attuato soprattutto in zone
di confine e che coinvolge un numero tutto sommato
ristretto di persone, soprattutto specialisti
della guerra. Le perdite sono relativamente
modeste per una guerra, anche se "l'isterismo
guerriero" porta ad azioni di stupro, saccheggio,
stragi di bambini, assoggettamento di intere
popolazioni in schiavitù, ferocissime
rappresaglie contro i prigionieri, interminabile
spargimento di sangue. Tale guerra tuttavia
non potrà mai giungere a una conclusione,
poiché le forze dei tre superstati sono
sostanzialmente bilanciate e perché le
alleanze variano continuamente fra loro:
Uno dei principali scopi della guerra è
consumare i prodotti della macchina senza migliorare
il generale livello di vita. (...) Se tranquillità
e sicurezza fossero godute da tutti nello stesso
modo, la maggior parte degli esseri umani avrebbe
appreso a leggere, scrivere, pensare col proprio
cervello; (...) e non avrebbe tardato prima
o poi a capire che la minoranza privilegiata
non aveva alcuna reale funzione, cercando quindi
di scalzarla. (...) Nello stesso tempo, la consapevolezza
del continuo stato di guerra, e quindi del perpetuo
pericolo che da essa deriva, fa apparire del
tutto naturale rimettere il potere in mano a
una casta minore. La guerra, quindi, (...) si
raffigura anche in una forma psicologicamente
accettabile. (...) Né importa che essa
ci sia realmente: la sola cosa indispensabile
è che esista tale stato di guerra. Proprio
tra le file del Partito Interno l'isterismo
guerriero e l'odio del nemico sono più
forti. Si rende spesso necessario, per un membro
del Partito Interno, sapere che questa o quella
notizia riguardante il conflitto in corso è
inventata, [ciò nonostante] nessun membro
del Partito vacilla un solo attimo nel suo mistico
credo che la guerra è reale, necessaria,
e destinata a terminare vittoriosamente. (...)
La stessa parola guerra è diventata equivoca.
Sarebbe probabilmente esatto dire che, una volta
diventata continua, senza più interruzione,
la guerra ha cessato propriamente di esistere.
Una pace che fosse davvero permanente sarebbe
in tutto identica a una guerra, appunto, permanente.
Questo (sebbene la maggior parte dei membri
del Partito se ne renda conto solo superficialmente)
è il vero significato dello slogan LA
GUERRA È PACE.
È trascorso più di mezzo secolo
dalla pubblicazione di 1984, e certamente alcuni
spunti e analisi orwelliani appaiono superati,
se non addirittura ottimistici (come l'idea
generica che un maggior tasso di acculturamento
possa far pensare col proprio cervello), tuttavia
il romanzo rimane sostanzialmente attuale per
numerose intuizioni e (purtroppo) profezie:
in particolare, il micidiale mix di "guerra
perpetua" (necessaria), la manipolazione
dei media (censura dei giornali e della tv),
l'alterazione del passato (anche recente), perfino
il desiderio di ridurre le possibilità
espressive del linguaggio. Se guardiamo dunque
a ciò che sta accadendo in questi tempi
ci accorgiamo di essere in pieno 1984; e scopriamo
che tutte le ricchissime elaborazioni della
sinistra (marxismo, anarchismo etc.) sulle cause
dei conflitti armati, e sui reali interessi
(cioè men che zero) della gente comune
alla guerra, a questo tipo di guerra, e le istanze
di riscatto dei più deboli, vengono costantemente
metodicamente ed energicamente rimosse, se non
dileggiate.
COMUNITÀ- IDENTITÀ - STABILITÀ
era per contro il motto di un altro celebre
stato totalitario, quello descritto da Aldous
Huxley nel suo Mondo nuovo. Qui la società
ha un'organizzazione tipo "alveare":
grazie ai progressi dell'ingegneria genetica
(non si dimentichi che l'opera risale al 1932!
In Italia giunse l'anno seguente) il governo
è in grado di calcolare quali e quanti
cittadini, e di che genere, siano volta per
volta necessari, affinché lo stato proceda
nel "migliore dei modi". Già
prima della nascita, a ciascun individuo viene
assegnato un preciso e limitato compito sociale:
operaio, aviatore, eccetera; e gli individui
nasceranno in classi nettamente condizionate
e differenziate (somaticamente e psichicamente)
tra loro. Questi futuri cittadini saranno dunque
felici:
Il segreto della felicità e della virtù
è questo: amare ciò che si deve
amare. Ogni condizionamento mira a far sì
che la gente agogni la sua inevitabile destinazione
sociale.
E infatti, guardando con occhio disincantato
all'universo descritto nel Mondo nuovo, occorre
convenire che l'infernale e irridente meccanismo
ipotizzato da Huxley funziona, né è
facilmente smontabile concettualmente: se il
fine supremo dell'uomo è il raggiungimento
della felicità, chi può negare
che quella del Mondo nuovo non sia una società
di felici? D'altronde, non è anche vero
che la nostra società tende a inculcare
la convinzione che ciascuno di noi, qualunque
sia il proprio stato, dovrebbe mettere da parte
pensieri circa ingiustizie e disparità,
e trovare "in sé" il modo di
essere soddisfatto e felice?
Qualcuno obietterà: nel Mondo nuovo non
ci sono guerre, e neanche malattie: a che pro
citarlo in questa sede? Bene: ne scrivo giusto
per questo. Ecco finalmente la "societas
felix" in cui i conflitti saranno debellati,
suggerisce Huxley! Possiamo comunque tranquillizzarci:
quand'anche in quello scenario dovesse (per
assurdo) spuntare una guerra, lo stato saprebbe
ben produrre, geneticamente, il migliore (e
più soddisfatto) dei soldati possibili...
Completamente diverso l'approccio al tema da
parte del già nominato Robert A. Heinlein,
in un romanzo rimasto celebre (che dette anche
vita a un raffinato e complesso war game, e
in anni recenti è stato reinventato cinematograficamente
da Paul Verhoeven): Fanteria dello spazio. Specie
negli anni Sessanta, moltissimo è stato
scritto su Heinlein e sulla sua visione conservatrice,
che talora rasentava il fascismo; e poi su alcune
sue opere successive che per contro apparivano
quasi dei manuali libertari e di emancipazione,
soprattutto sessuale (il suo romanzo Straniero
in terra straniera divenne, si dice, una "bibbia
degli hippies", tuttavia a ben leggerlo
si rivelava falsamente progressista). La verità
è che Heinlein apparteneva a una destra
"americana", con idee che a noialtri
europei possono apparire, a volte, contraddittorie;
ma soprattutto possedeva un mestiere di scrittore
di prim'ordine. Fanteria dello spazio (1959)
descriveva una guerra su altri mondi, anzi una
guerriglia nel fango, un po' come sarebbe poi
stato nel Vietnam. Il protagonista era un giovane
che scappava di casa per arruolarsi nell'esercito
e divenire così "vero uomo";
il che implicava ammazzamenti di perfidi e mostruosi
alieni, col diretto corollario d'una invidiabile
carriera. Una scheda del romanzo, presente in
Nei labirinti della fantascienza (Guida critica
a cura del Collettivo "Un'Ambigua Utopia",
1979) riportava: "La cosa stupefacente
è che Heinlein, che forse con questo
libro ha creato il suo capolavoro negativo,
riesce ad essere tremendamente avvincente: al
punto da comunicarci, per qualche fuggevole
attimo, una sensazione di oscura complicità
con i marines galattici. Di cui siamo liberi,
subito dopo, di vergognarci o no".
Eppure è noto (l'abbiamo visto in questo
stesso volume) che di ben altre valenze si potrebbe
caricare la figura dell'"alieno".
Piuttosto che scivolare nella sgradevole melassa
mistica dell'ET spielberghiano, preferisco richiamare
il micro-racconto più famoso della fantascienza,
Sentinella (1954), di Fredric Brown. Anche qui
c'è uno scontro tra umani e alieni. L'autore
descrive il disagio del protagonista, un fante
spaziale costretto a combattere la furia dei
mostri invasori su un pianeta a cinquantamila
anni luce da casa, con una forza di gravità
doppia di quella cui è abituato, sotto
una pioggia battente e un sole gigantesco. Ed
ecco, una delle mostruose creature nemiche tenta
di avvicinarsi alla postazione del nostro fante,
il quale non ha scelta. Prende la mira e spara:
Il nemico emise il verso strano, agghiacciante,
che tutti loro facevano, poi non si mosse più.
Quel verso, e la vista del cadavere, lo fecero
rabbrividire. Molti col passare del tempo si
erano abituati, non ci facevano più caso,
ma lui no. Erano creature troppo schifose, con
solo due braccia e due gambe, la pelle d'un
bianco nauseante... e senza squame.
Storia estremamente semplice, quasi elementare:
eppure già mezzo secolo fa la fantascienza
insinuava con un pizzico di ironia il dubbio
- che dovrebbe essere la norma - secondo cui
per altri potremmo essere "noi" cattivissimi
e "schifosi": non meno di quanto potrebbero
rivelarsi per noi gli avversari. Un risultato
non disprezzabile, per una letteratura "popolare",
la science fiction moderna, nata su riviste
di quart'ordine.
Nel mare magnum di storie di guerra cariche
di retorica militarista, di ideali espansionistici
e di conquista dell'uomo bianco occidentale,
qualcosa tuttavia si salva: la fantascienza
si è mostrata narrativa capace, a volte,
di andare appunto contro le più viete
convenzioni. Fin dagli anni '50 Theodore Sturgeon
narrava di situazioni-limite con protagonisti
emarginati, se non in qualche modo handicappati;
personaggi che si rivelavano gli unici in grado
di esprimere un'autentica umanità. Il
racconto Il tuono e le rose (pubblicato nel
1947, quando ancora erano brucianti gli strascichi
di una "guerra mondiale") ipotizza
un repentino, massiccio bombardamento atomico
sugli Usa, da est e da ovest. Non si sa chi
siano i nemici. La nazione è rasa al
suolo, l'intera popolazione contaminata dalle
radiazioni è destinata all'estinzione.
Il sergente Pete Mawser, distaccato in una base
militare, individua casualmente un cunicolo
che conduce in una grotta. Il sito contiene
insoliti macchinari: si tratta, scopre Mawser,
di una installazione automatica dotata di missili
atomici. Dunque, con un semplice gesto, egli
potrebbe liberare dozzine di missili a testata
atomica e scatenare una rappresaglia che porterebbe
alla morte dei nemici, probabilmente dell'intera
umanità. Uno dei personaggi, la soubrette
Starr Anthim, dice a Pete:
Credo che nessuno dei nostri avversari sapesse
esattamente quanto fosse forte l'altro. C'era
talmente tanta segretezza... Per quanto ci riguarda,
anche noi non siamo senza colpe. Ma alla luce
di ciò che tu hai scoperto, ciò
che dobbiamo fare è difficile. Dobbiamo
morire, Pete, ma senza contrattaccare con quei
missili (...) L'umanità è in tutti
gli esseri umani. Una malattia ha reso altri
uomini nostri nemici per una volta, ma col passare
delle generazioni i nemici diventano amici e
viceversa. L'inimicizia di coloro che ci hanno
ucciso è cosa talmente insignificante
e temporanea, nel lungo corso della storia...
Pete userà la forza fisica per impedire
al commilitone Sonny di "abbassare la leva",
e saboterà il meccanismo che potrebbe
attivare la rappresaglia. Ciò fatto:
Pete uscì, richiudendo accuratamente
il divisorio. Certo che il lavoro di mimetizzazione
della grotta e degli armamenti era stato ottimo.
Sedette pesantemente su un banco di lavoro,
lì vicino.
- Avrete la vostra chance - disse, rivolgendosi
a un lontano futuro. - E perdio, sarà
meglio che la sfruttiate bene.
Poi restò lì, semplicemente ad
aspettare.
Il 1953, nell'epoca della famosa "Guerra
fredda" fra Usa e Urss con la "pax
atomica" quale controverso deterrente,
fu anche l'anno in cui uscì La decima
vittima (in originale The Seventh Victim), racconto
tra i più celebri di Robert Sheckley,
autore di punta della cosiddetta social science
fiction: un filone le cui storie erano ispirate
soprattutto a certi meccanismi della società.
Nel racconto di Sheckley si descriveva un mondo
futuro nel quale si era cercato di incanalare
diversamente la componente violenta dell'uomo.
Il protagonista, Stanton Frelaine, riceve un'attesa
comunicazione dal CCE, il governativo Centro
di Catarsi Emotiva:
- Una bella uccisione ti farà bene -
disse Morger. - Hai i nervi tesi, Stanton!
- Lo so. - Frelaine sogghignò di nuovo.
- Vorrei tornare giovane - disse Morger. - Mi
viene voglia di impugnare di nuovo una pistola.
Il vecchio era stato un Cacciatore formidabile,
ai suoi tempi. Dieci cacce fortunate lo avevano
qualificato per l'ammissione all'esclusivo Club
dei Dieci. E naturalmente, dopo ogni caccia
Morger aveva dovuto fungere da Vittima: quindi
aveva all'attivo venti uccisioni.
- Spero che la mia Vittima non sia un tipo come
te - disse Frelaine, quasi scherzando.
- Non preoccuparti. E questa sarà...?
- La settima.
- Sette è un numero fortunato. Coraggio.
A quell'epoca si era sentita la necessità
di una pace stabile, duratura. C'era una ragione
pratica, molto semplice: l'annientamento totale
era ormai un pericolo incombente. Le armi diventavano
sempre più potenti, efficienti, sterminatrici.
Ma si era giunti al punto di saturazione: la
prossima guerra avrebbe messo fine a tutte le
guerre. Perciò la pace doveva durare
per sempre; ma gli uomini che l'avevano preparata
erano tipi pratici. Sapevano che esistono tensioni
e squilibri, vale a dire i focolai in cui si
cucinano le guerre. E si chiesero perché
la pace in passato non fosse mai stata stabile.
- Perché gli uomini amano combattere
- fu la risposta.
- Oh, no! - gridarono gli idealisti.
Il problema era: stabilire una pace che durasse;
impedire agli uomini di autodistruggersi, ma
senza cancellare le caratteristiche che li spingevano
a farlo.
L'unico modo, decisero, era incanalare la loro
violenza in un'altra direzione. Ma la gente
esigeva un prodotto autentico. E non esistono
surrogati per l'omicidio.
Così l'omicidio venne legalizzato su
una base rigorosamente individuale, e solo per
coloro che lo desideravano.
Il racconto (che nel 1965 fu trasferito sullo
schermo, in un mediocre film di Elio Petri,
con Marcello Mastroianni e Ursula Andress) diede
impulso a una serie di opere narrative e filmiche
imperniate sul tema della caccia all'uomo, o
dei giochi che hanno per posta la vita umana.
Diversa, a suo modo emblematica, la situazione
presentata nel lungo racconto Il Tempio di Satana,
di Daniel F. Galouye (1954). Un leggendario
Despota è arroccato in una fortezza-bunker
contro la quale è in corso da anni una
estenuante battaglia, con perdite gravissime;
il protagonista riuscirà a espugnare
il bunker, ma si renderà conto che il
suo gesto consoliderà lo status quo:
giunto al vertice, egli "dovrà"
sostituirsi all'espugnato nel suo stesso ruolo.
Il romanzo di Samuel R. Delany Triton (1976)
si svolge su un satellite del pianeta Nettuno,
Tritone, dove si è trasferita una cospicua
fetta dell'umanità. Fra altre cose vi
è descritta un genere di guerra, strana
per l'epoca in cui uscì il romanzo, in
quanto dura solo pochi giorni, e che assume
oggi una diversa luce: "Il cliché
dei soldati aveva subìto una notevole
svalutazione. Sicché si trattava di un
conflitto fatto di pulsanti, spie, sabotaggi;
e restavano uccisi solo i civili, perché
erano le uniche persone implicate".
Un richiamo ritengo meriti anche Il mondo della
foresta di Ursula K. LeGuin (1967), benché
sintetizzare questa storia significhi svalutarla.
È un romanzo sulla colonizzazione spesso
violenta e sanguinaria (una vera invasione)
del pianeta Atheshe, abitato da una piccola
e pacifica specie umanoide i cui maschi sono
capaci di controllare i propri sogni, mentre
sono le femmine a tradurre in decisioni "politiche"
quelle visioni. Ma i terrestri non riescono
a penetrare in una cultura lontanissima dalla
loro, dall'antropologo Ljubov al capitano Davidson,
che si muove nella foresta come se fosse il
Vietnam. Il pianeta viene disboscato, l'equilibrio
ecologico è stravolto. E i nativi alla
fine dovranno rinunciare a vivere nella loro
dimensione creativa: dai terrestri hanno imparato
a uccidere.
Specie negli anni Sessanta, ampia risonanza
ebbero le storie di "fantapolitica",
un filone che estrapolava a breve termine da
situazioni reali, e che produsse anche film
di notevole rilievo, molti dei quali tratti
da romanzi (o di cui fu poi scritto il romanzo):
Il dottor Stranamore di Stanley Kubrick (1964),
Sette giorni a maggio di John Frankenheimer
(1964), Il gioco della guerra dell'inglese Peter
Watkins (1964), che in Gran Bretagna fu severamente
censurato dalla BBC per la crudezza e il realismo
delle scene. E poi ancora A prova d'errore di
Sidney Lumet (1964), Stato d'allarme di John
B. Harris (1965), Ultimi bagliori di un crepuscolo
di Robert Aldrich (1977), L'ultima spiaggia
di Stanley Kramer (1959): film basati, con sfaccettature
diverse, su possibili falle nel cosiddetto "equilibrio
del terrore" creatosi durante la proliferazione
delle testate atomiche. Il sub?genere, opportunamente
aggiornato, è stato poi ripreso in seguito
in noti romanzi di Tom Clancy, Frederick Forsyth
e altri. Il giorno dello sciacallo di Forsyth
immaginava un killer incaricato dall'Oas, un'organizzazione
di destra, di uccidere il presidente francese
Charles De Gaulle. Ottimo l'omonimo film (1975).
Lo stesso scrittore nel 1984 pubblica Il quarto
protocollo, in cui narrava di un piano del Kgb
implicante un attentato a una base americana,
che facesse però ricadere la colpa sui
britannici. Mediocre stavolta l'omonimo film
(1987), nonostante un discreto Michael Caine.
In Icona (1996) Forsyth immaginava nel 1999
la morte di Boris Eltsin, il Presidente della
Repubblica federale russa.
Di Clancy ricorderò quale esempio La
grande fuga dell'Ottobre Rosso (1986, Hunt for
the Red October, da cui il film Caccia a Ottobre
Rosso di John McTiernan, 1990). Alla fantapolitica
potrebbe annettersi il film Alba rossa di John
Milius (1984), nel quale si realizzava la massima
paranoia americana: l'Urss invadeva gli Usa.
Buon antesignano del tema, il Cyril Kornbluth
(peraltro ottimo scrittore) del romanzo Non
sarà per agosto (1955), dove però
gli yankees hanno sempre l'asso nella manica.
Lo seguiva sulla stessa via, sempre nel 1955,
Jerry Sohl col romanzo Il pianeta dell'esilio
(1955): esiliato era appunto il governo degli
Usa, trasferitosi addirittura su Marte in attesa
del riscatto.
Il film L'ultima spiaggia (dall'omonimo romanzo
dell'australiano Nevil Shute, On the Beach,
1957) rappresentava al contempo anche il sub-genere
del "day after", in quanto descrizione
di uno sparuto gruppo di persone che tentavano
di riorganizzarsi dopo un olocausto nucleare
in una drammatica attesa della fine; stessa
cosa per il coinvolgente Testament della regista
Lynne Littmann (1983). Numerosissime, come si
può immaginare, anche le storie su questo
tema: a quella già citata di Sturgeon
aggiungerei Il silenzio della morte di Wilson
Tucker (1952), duro e asciutto romanzo sui sopravvissuti
a una guerra batteriologica, probabilmente uno
dei primi esempi sull'argomento; e Lot (1963/64,
Lot e Lot's Daughter; "Urania" n.
375, 1965) di Ward Moore, la cui pubblicazione
incontrò negli Usa alcune difficoltà
(il racconto lasciava intuire che similmente
all'omonimo personaggio biblico scampato alla
distruzione di Sodoma, il protagonista americano
salvatosi dallo scoppio dell'atomica si unisse
incestuosamente alle due figlie). Né
va dimenticato il film che ha dato in nome al
filone: The Day After appunto (1983), di Nicholas
Meyer: per aggiungere subito che, invece, come
opera in sé, essa è decisamente...
da dimenticare.
Con l'avvento del cyberpunk le guerre si sono
in parte trasferite all'interno della grande
rete, o nelle realtà virtuali. Brevissima
ma fulminante una storia di Geoffrey A. Landis,
Nel mondo dei sensi (1990): in un paio di paginette
è riassunta l'odissea di Drusilla e Rachel,
a partire dal loro rastrellamento nel ghetto
da parte dei nazisti. Entrambe vengono spedite
in un lager. Lì trascorreranno mesi d'inferno,
coinvolte in uno scenario di estrema crescente
abiezione e sofferenza, infine saranno condotte
a morte:
Mentre il gas defluiva in un sibilo, mentre
gli altri si coprivano la bocca con le mani
o trattenevano il respiro, loro cominciarono
a cantare sottovoce...
Ma poi narrazione cambia drasticamente:
- Non trovi che sia stata un'esperienza sensoriale
impareggiabile?
- Sbalorditiva - rispose. - Che intensità...
- Dolore - aggiunse la donna. - Incredibile.
Mai provato nulla di simile.
- C'è una lista d'attesa di anni - aggiunse
un uomo. - Dobbiamo tornarci! Mi hanno detto
che il prossimo spettacolo è anche migliore
di questo.
- Davvero? Andiamoci! Com'è intitolato?
- Penso che si chiami Olocausto nucleare.
- Non vedo l'ora - esclamò la donna.
Il racconto di Vittorio Curtoni La sindrome
lunare (1977) narra di un "day after"
conseguente a una guerra combattuta a base anche
di allucinogeni. Il conflitto sembra terminato,
ma il suo esito è lo sfrangiamento di
ogni legame interpersonale; l'individuo non
riconosce più se stesso, a maggior ragione
disconosce il proprio simile. L'umanità
vi appare parcellizzata, polverizzata, schizoide,
prigioniera di brandelli deformati di ricordi
e di emanazioni psichiche, priva ormai di qualunque
aggancio al suo passato e al sociale. Storia
significativa non solo in quanto narrativamente
riuscita, ma soprattutto perché allegoria
della cortina fumogena nella quale costantemente
ci affogano i media, travisando o ignorando
le notizie più importanti. D'altronde
siamo in una società in cui si convince
la gente (ed esiste una legge in proposito)
che la bandiera della pace equivale a vilipendio
dello stendardo nazionale. Ma tutto ha una sua
logica, per quanto diabolica: evidentemente
oggi la pace certamente vilipende molti; tanto
che noti opinionisti fanno i "distinguo",
in articoli di fondo, se a marciare per la famosa
pace, magari congiuntamente, siano i cattolici
o altri.
Tutti i miti dell'Ebro (1986), racconto di Franco
Ricciardiello, si svolge "oggi", ma
nella Spagna della Guerra Civile: per la precisione,
l'azione si situa nelle tredici ore che vanno
dalle 8,35 alle 21,10 del 29 ottobre 1938: un
lasso di tempo che pare essere misteriosamente
riemerso e inceppatosi per ritornare sempre
su se stesso, come un'altalena o un loop. I
due personaggi - il protagonista e la sua ragazza
- si ritrovano imprigionati in quella scheggia
temporale che fu anche una sorta di crocevia
degli eventi, un momento della storia assolutamente
cruciale per quella guerra e probabilmente anche
per il futuro assetto europeo. Purtroppo per
i due, consapevoli di ciò che stanno
sperimentando, non sarà possibile modificare
la realtà. Ad ogni modo, "riviverla"
direttamente li condurrà a una diversa
consapevolezza; quella stessa che non dovremmo
mai permettere venisse meno, o che fosse offuscata
dai mercanti dell'ultima ora.
In chiusura, Valerio Evangelisti.
Difficile riassumere in breve le sfaccettature
di quest'autore, al quale dobbiamo romanzi che
ritengo poderosi. Mi preme qui evidenziare una
"tensione etica" sottesa a tutta la
sua narrativa, fantascientifica e non; un'eticità
però tutt'altro che urlata, nonostante
le sue opere siano spesso crudeli, descrittive
di istinti bestiali, atti criminosi, psicologie
aberranti, situazioni devastate. Ma come sempre
accade nelle "anti?utopie" (e tali
potrebbero considerarsi le narrazioni di Evangelisti),
l'universo che vi è ritratto è
un evidente riflesso del nostro; in esso leggiamo
e viviamo semplicemente le brutture - talora
anche gli elementari bisogni - di chi non ha
più nulla da perdere se non le proprie
catene. La forza dell'autore è anche
nella pagina limpida e funzionale, nelle dottissime
elaborazioni, nell'avventura, i simbolismi da
incubo, la maledizione che incatena passato?presente?futuro
e sembra aver dissolto ogni idea di riscatto.
Gli estratti che seguono sono dal racconto O
Gorica, tu sei maledetta (1995):
(...) Quello che doveva fingere di ignorare,
era che la RACHE faceva dei prigionieri più
robusti altrettanti Poliploidi, dopo averli
immersi nelle grandi vasche di Karlovac in cui
ribolliva un enzima dal nome impossibile. I
Poliploidi divenivano guerrieri stupidissimi
ma quasi invulnerabili, i cui organi si moltiplicavano
di continuo per effetto del mutagene. Essi morivano
da soli quando il numero dei loro cuori, polmoni
e reni diventava eccessivo in rapporto alla
stazza corporea. Oppure quando venivano letteralmente
squarciati o carbonizzati dalle esplosioni.
Ma un unico proiettile non poteva danneggiarli
seriamente.
Questa vera "carne da cannone" viene
utilizzata in un conflitto insensato che si
svolge in Balcania, impero federale rabberciato
dopo la polverizzazione dell'ex Iugoslavia.
La guerra vede su fronti contrapposti (ma si
scoprirà che i vertici sono conniventi)
l'Eurobank e la RACHE. Questa sigla sta per
Rassenchemie, "chimica della razza".
Se Grol stava con la RACHE, era perché
credeva in un mondo di uomini forti, in cui
l'aristocrazia era costituita da gente superiore
alla pietà. Quella visione grandiosa,
di una ferocia piena di fascino, lo aiutava
a sopportare le angherie degli ufficiali, e
a dimenticare quelle davvero atroci subite quando
era un ragazzetto, a Vukovar.
(...) [Grol] afferrò l'ometto per i capelli
e fece cenno al cronista di avvicinarsi con
la telecamera. Ai suoi piedi, un paio di donne
piangevano sommessamente. Meglio. La scena sarebbe
riuscita più drammatica. -- È
un ebreo? - chiese il cameraman mentre azionava
lo zoom.
- No, di ebrei non ce ne sono più - rispose
Grol distrattamente. - Però è
un mondialista.
Facile intuire cosa sia, nel racconto, un mondialista:
uno di quei rompiscatole che si adoperano, a
qualunque livello, perché vengano affermati
diritti essenziali e democrazia, conquiste ritenute
sempre più un fastidioso intralcio, una
perdita di tempo e soprattutto di denaro.
Perché esiste una fantascienza che ci
parla anche di questo.
© Vittorio Catani 2003
Vittorio Catani (Lecce 1940), ex funzionario
di banca, vive a Bari. Come autore di fantascienza
esordì nel 1962 sull'edizione italiana
di "Galaxy". Collabora alla "Gazzetta
del Mezzogiorno". Suoi articoli e racconti
sono apparsi sulle principali testate fantascientifiche
italiane, e su riviste e quotidiani; vari racconti
sono stati tradotti in Paesi europei. Ha pubblicato
sette volumi di narrativa (fra cui il romanzo
Gli universi di Moras, Mondadori 1990, vincitore
della 1a edizione del Premio Urania), un'antologia
scolastica di fanta?racconti di autori italiani,
due volumi di saggistica. Collabora alle riviste
"Delos" e "Carmilla" (telematiche),
"Villaggio Globale" (trimestrale cartaceo
di ecologia), all'antologia cartacea periodica
"Alia". "Storie dal villaggio
globale" (2005) raccoglie 21 racconti brevi
fanta?ecologici (reperibile su www.delosstore.it/bazaar/)
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