Banana
Yoshimoto, classe 1964, è una
delle scrittrici straniere più apprezzate
e amate dai lettori italiani. Seppure lontana
culturalmente e geograficamente dal mondo e
dalla cultura italiana, con i suoi romanzi è
riuscita a far breccia nel cuore di molti giovani
e adulti.
La sua scrittura in apparenza molto semplice
e chiara, nella traduzione italiana di Giorgio
Armitrano, ha la leggerezza di un racconto di
fiabe i cui temi però sono intrisi di
solitudine e malinconia. Il tema conduttore
molto spesso è la morte e la solitudine,
talvolta accompagnato anche dall'elemento soprannaturale,
sia questo una visione o un disco volante. La
preferenza per questi temi e per la disgregazione
della famiglia non deriva da esperienze autobiografiche;
anzi, la sua è sempre stata una famiglia
molto unita e l'autrice non ha mai provato esperienze
di distacco molto forti. La sua scelta è
quella dell'artista che esplora campi e sensazioni
nuove, mettendosi nella pelle di personaggi
a lei estranei. Il risultato è spesso
di un'atmosfera ovattata, in cui anche le più
grandi tragedie, vengono raccontate con una
rassegnazione e atarassia buddista, verrebbe
da dire. Eppure la sua non è una narrazione
della disperazione, quanto piuttosto della speranza
e del risorgere dalle proprie ceneri.
Lo stile molto personale di Banana Yoshimoto
può essere descritto tramite una definizione
fornita dalla stessa scrittrice durante un'intervista,
in cui affermò che se i libri di poesia
del padre (Takaaki Yoshimoto, saggista e poeta
ben noto in Giappone) si sposassero con i libri
di haiku della madre, nascerebbero i libri che
lei scrive. In effetti, nella sua narrazione
il genere prettamente europeo del romanzo si
fonde con la poesia giapponese della brevità,
del sentimento e della natura. Le immagini che
ne nascono sono dei piccoli bonsai, in cui la
cultura giapponese risalta attraverso la descrizione
della natura. Per stessa ammissione dell'autrice,
Banana Yoshimoto ama soprattutto la natura,
il modo delicato in cui le stagioni mutano.
in particolar modo è possibile rintracciare
non solo l'amore per la finezza dei particolari
della natura giapponese, ma anche degli ambienti
e dei gesti, secondo lo spirito del bonsai in
una compresenza di microcosmo e macrocosmo.
Un linguaggio il suo molto vicino anche a quello
dei manga, semplice, incisivo ma ricco di immagini,
da lei stessa giustificato dal fatto di appartenere
ad una generazione cresciuta a fumetti giapponesi,
film (quelli di Dario Argento nel suo caso)
e musica. Siamo in piena generazione dell'immagine
che rivive tra le pagine dei suoi romanzi.
Il tema della morte, della solitudine però
spesso si lega con il tema del linguaggio e
della comunicazione verbale spesso impossibile
fra le persone. Questo, a mio avviso, è
chiaramente rintracciabile nella raccolta Lucertola
(Feltrinelli, 1993), composta da sei racconti
i cui protagonisti sono tutti feriti da un trauma
infantile o da una storia d'amore tormentata,
in una Tokyo ricca di luce e vita. Tutti i racconti
sono narrati in prima persona, tramite un narratore
intradiagetico, ovvero all'interno del racconto
e protagonista della vicenda, cosicché
le sensazioni e le esperienze di vita vengono
filtrate dalla soggettività dell'individuo
in difficoltà nel comunicare con i suoi
prossimi, ma che però riesce a stabilire
una comunicazione chiara con il lettore della
storia. Ciò che colpisce è che
molto spesso, il lettore non conosce il nome
del narratore, se non nel corso o verso la fine
del racconto, cosicché la sua identità
rimane quasi come celata e svelata dalle sue
scelte di vita, dal suo linguaggio e dallo sguardo
dell'altro. Comunicazione quindi tra lettore
e protagonista che potremmo definire univoca,
anche per il mezzo scelto (la scrittura) che
impedisce un reale dialogo, simile a quella
che hanno le persone nella realtà descritta
dall'autrice.
Il primo racconto, Giovani Sposi, si apre e
si conclude all'interno della metropolitana
di Tokyo durante una corsa notturna. Viene presentato
al lettore come un ricordo lontano, di un incontro
straordinario, che quindi viene accettato dal
lettore come reale, proprio perché offerto
come una storia vera. Il protagonista, non avendo
voglia di tornare a casa, dalla moglie sposata
da poco, rimane sul treno, sul quale sale un
barbone. Il giovane si ritrova solo con quest'uomo,
perché a causa del fetore che emana,
gli altri tre passeggeri decidono di spostarsi
nelle vetture adiacenti. Il vecchio, dopo essersi
seduto accanto a lui, comincia ad interrogarlo
sul motivo per il quale non desidera far ritorno
a casa. Il protagonista lo ignora, fin quando
si accorge che il vecchio si è trasformato
in una donna "dagli occhi castani, lunghi
capelli bruni. Un vestito nero. Piedi affusolati
in scarpe di vernice nera dai tacchi alti.[
]
Sul seno, abbondante, aveva appuntato un mazzolino
di fiori freschi."(1) Una descrizione che
sembra una tavola di fumetto senza baloons.
Un linguaggio secco ma molto descrittivo.
Il dialogo con questa figura, collocata fra
sogno e realtà, risveglia in lui il ricordo
della moglie e lo aiuta a comprendere il motivo
per il quale non desidera tornare a casa. Nella
narrazione tempo e luogo fisico si dilatano.
Quello che presumibilmente occupa un breve lasso
(la corsa e l'incontro straordinario) si dilata
nella percezione del protagonista, riuscendo
ad allargarsi oltre lo spazio occupato nel vagone.
Il treno, ambiente piccolo e ristretto, riesce
ad aprirsi verso la stazione, attraverso le
immagini evocate dal giovane. La stazione vista
con il ricordo del protagonista diviene metafora
del mondo: i diversi personaggi che la popolano
sono un esempio della varietà umana.
La corsa del treno, simile nel suo scorrere
al fiume, intorno a cui si snoda la vicenda
dell'ultimo racconto della raccolta, diviene
chiara metafora della vita. Il protagonista
non vuole fermarsi, ma continua la sua corsa.
Dietro il suo malessere, si cela in realtà
la paura del matrimonio, del flusso di sensazioni
e sentimenti che cambiano dopo i primi mesi
di matrimonio, quando comincia il vero vivere
quotidiano fianco a fianco. Il protagonista
ha bisogno di un elemento esterno ed estraneo
al suo mondo per poter focalizzare la moglie
nei suoi gesti ed è tramite essi e non
attraverso un dialogo con lei che riesce a far
chiarezza dentro di sé.
Proprio in questo racconto troviamo un'interessante
definizione di cosa sia il linguaggio. Ad un
certo punto del dialogo, il protagonista chiede
alla donna che lingua stia parlando. La risposta
e la spiegazione che ne consegue rileva come
non esiste una lingua comune che permetta una
comunicazione chiara ed efficace tra i soggetti,
quanto una lingua basata su un sentimento che
accomuni i vari interlocutori. Non si tratta
così di una lingua straniera, piuttosto
di una lingua che solo due individui impegnati
in un dialogo sono in grado di comprendere.
Nel caso in cui si aggiunga una terza o una
quarta persona, la lingua cambia. Così
se l'interlocutore è "una simpatica
vecchietta che vive da sola, userei una lingua
che sa di solitudine", (2) afferma la donna.
La lingua sembra dunque essere uno strumento
duttile, ma che deve essere modellato secondo
i soggetti in gioco e che presenta dei grossi
rischi d'insuccesso - l'incomunicabilità
- se non è mutato opportunamente. Così,
il protagonista non riesce ad esprimersi, usando
solo le parole, ma deve ricorrere a delle immagini,
che lui stesso definisce "scolpite dallo
sguardo. [
] una sensazione conturbante
di tepore e d'intimità con un corpo estraneo,
con l'altro."(3)
Il racconto che dà il titolo alla raccolta,
Lucertola, sembra sostenere pienamente l'impossibilità
di comunicazione tra gli individui, si badi
bene, comunicazione ancora una volta verbale.
Banana Yoshimoto mostra un interesse e un piacere
per ciò che concerne il cibo (non a caso
il suo primo romanzo Kitchen ha come centro
dell'azione una cucina e l'arte culinaria),
proprio perché per sua stessa ammissione,
il cibo, la convivialità sono spesso
la miglior forma di comunicazione. Quando i
personaggi di Yoshimoto ricorrono alla lingua,
ciò avviene in circostanze eccezionali,
come nel barbone trasformato in giovane e attraente
ragazza del racconto precedente, o solo sotto
lo stimolo di forti emozioni, come testimonia
Lucertola. In questo racconto, la comunicazione
verbale è ancora una volta in secondo
piano. La voce narrante è quella di un
medico che si occupa di bambini affetti da autismo
e la sua compagna, da lui battezzata Lucertola,
per via dei suoi occhi neri e lucenti come quelli
di un rettile, usa come primo mezzo di comunicazione
il tatto. Spesso nel racconto i due giacciono
in un letto insieme, senza scambiare una parola,
mentre la ragazza si stringe a lui, cercando
di affossare il mento nell'incavo tra la spalla
e il torace, come alla ricerca di un maggior
contatto. Il linguaggio del corpo si fa linguaggio
erotico, nel senso in cui comunica attraverso
semplici gesti, i sentimenti dei due innamorati.
Eppure la stessa Lucertola afferma che il suo
compagno è l'unica persona con cui possa
parlare, ma riconosce di non avergli mai svelato
un segreto. La confessione di una vicenda di
morte della sua infanzia, spingerà una
confessione analoga del medico, aprendosi l'uno
verso l'altra in maniera verbale per la prima
volta.
Ricordo e paura di dimenticare quello che è
veramente importante, il ritrovarsi di due innamorati
è al centro di Spirale, in cui non vi
è una vera e propria storia. Il racconto
è come un lampo nella vita dei due protagonisti,
incentrato sul valore dell'oblio di ciò
che fa male e il ricordo di ciò che rende
felici. La ragazza decide di incontrare il giovane
narratore nel loro solito posto, una caffetteria
all'interno di un emporio fuori dell'orario
di apertura al pubblico (la ragazza ha le chiavi
del locale). I due si ritrovano a parlare in
un luogo che solitamente è pieno di gente
ma che allora, a luci spente, è solo
per loro. La caffetteria diventa così
lo spazio interiore dove poter comunicare pienamente
e aprirsi l'uno all'altra. Il linguaggio viene
usato solo nel momento estremo, come chiosa
di una comunicazione già iniziata con
altri mezzi. La ragazza, infatti, ci viene presentata
all'inizio del racconto attraverso il ricordo
del narratore, che ripensa all'abitudine della
giovane di fermarsi ogni tanto per cercare una
parola, con gli occhi chiusi, corrugando le
sopracciglia. "E quando fa così
io ho sempre la strana sensazione di capire
tutto della sua personalità generosa
e impulsiva" (4), conclude il narratore.
Nel momento in cui il linguaggio viene meno,
perché sembra non essere una risorsa
alla comunicazione pienamente efficace, subentra
il linguaggio del corpo e dei gesti per rivelare
pienamente l'essenza di un individuo.
Il racconto Sogno con Kimchee si dimostra una
nuova conferma del valore evocativo del cibo
e di quanto la comunicazione verbale possa essere
sostituita con altre forme. L'impossibilità
di comunicare pienamente viene ripetuta, nel
momento in cui la protagonista afferma di scontrarsi
"con un tempo come il nostro, dove è
difficile perfino stare da soli. C'è
come un'ombra, una specie di ragnatela che ci
avvolge e si attacca al corpo."(5) L'affermazione
ha il tono di una denuncia, di un'accusa verso
il mondo moderno e la società giapponese,
dato che il racconto è ambientato a Tokyo,
in cui le convenzioni impediscono una piena
apertura dell'individuo. Tuttavia, questa frase
si carica di una forza universale nel momento
in cui si considera che la protagonista sta
vivendo un momento di crisi con il proprio compagno
e se si pensa che tale insicurezza deriva dal
fatto che la loro è nata come una storia
extraconiugale dell'uomo, ma che poi è
sfociata nel matrimonio. Dalle pagine del racconto,
si percepisce che i due si sentono lontani l'uno
dall'altra e sarà un piatto di kimchee
(un piatto della cucina coreana composto da
foglie di cavolo cinese condito con un trito
fortemente speziato e di conseguenza dal forte
odore) ha suggerire un sogno comune ai due.
La coppia raggiunge una perfetta comunicazione
solo in sogno; finalmente sono in sintonia.
Ciò che li ha fatti incontrare è
l'odore del kimchee, ma non la lingua. Persino
nel sogno non parlano, ma si tengono per mano
mentre percorrono un mercato coreano.
Sangue e acqua si apre con una fuga da parte
della protagonista da una comunità religiosa
in cui i genitori hanno deciso di vivere. Pur
riconoscendo che la comunità agisce come
una famiglia, in cui tutti si aiutano vicendevolmente,
la ragazza non si sente in sintonia con i membri
di quella società e soprattutto sente
di non poter diventare come loro. Una volta
a Tokyo, comincia una storia con uno scultore
di talismani, Akira, per il quale fa da tramite
nella vendita di questi oggetti a selezionati
clienti. Akira non desidera comunicare con le
altre persone: a farlo per lui sono i talismani
che confeziona appositamente per i clienti.
Come la lingua di cui parlava il barbone del
primo racconto che permette la comunicazione
sulla base di un comune sentimento fra gli interlocutori,
così i talismani sembrano parlare per
Akira direttamente al cuore del cliente. La
cosa singolare è che Chikako, la protagonista,
ha l'abitudine di non presentarsi dicendo il
proprio nome ai clienti, con i quali talvolta
però entra in profonda confidenza, come
nel caso dell'episodio narrato, in cui la cliente
ammette di non riuscire a parlare con il marito.
Il talismano funge da tramite tra le diverse
persone, sostituendosi alla parola come primo
mezzo di comunicazione.
Spesso alcuni personaggi di Banana Yoshimoto
presentano gusti e identità sessuali
fuori della norma, talvolta sono dei cross-gender
(e qui si rimanda di nuovo a Kitchen) altre
volte sono degli individui che hanno sperimentato
un tipo di sessualità comunque irregolare.
L'interesse dell'autrice verso quest'argomento,
come affermato da lei, è dettato dal
desiderio di suscitare accettazione di questo
tipo di individui che in Giappone vengono molto
discriminati. Infatti, appartiene a questa categoria
di "reietti" anche la protagonista
dell'ultimo racconto, Strana storia sulla sponda
del fiume. Il fiume è quello su cui si
affaccia la casa che lei e il suo uomo abitano
e che le trasmette uno strano senso di familiarità.
La protagonista scoprirà poi di aver
abitato in una casa sul fiume quando aveva pochi
mesi e di aver vissuto una terribile esperienza.
Di nuovo il non-detto è presente in maniera
preponderante: la madre non ricorda di aver
tentato, in preda alla depressione, di gettarla
nel fiume e quando racconta alla figlia di aver
vissuto in una casa simile alla sua, alla domanda,
nega fermamente di aver tentato il suicidio.
Infatti, l'intenzione, in un raptus di follia,
era di gettare la figlioletta nel fiume. Fiume,
che come un silenzioso testimone, scorre inesorabile,
e, simile alla metropolitana del primo, richiama
la vita, il flusso di coscienza e, in questo
caso, l'elemento femminile. La femminilità
è un tratto distintivo della raccolta
e nell'ultimo racconto viene esaltata attraverso
l'interesse particolare di Akemi per il sesso.
"Non riesco a ricordare bene quando ho
smesso di avere una vita sessuale che si possa
definire normale. [
] Sì, se guardo
indietro, senza quasi accorgermene ho avuto
esperienze di ogni tipo"(6) , afferma all'inizio
del racconto. Questo modo di vivere la propria
sessualità viene presentato come una
delle tante scelte di vita che ogni individuo
può decidere di intraprendere. Tuttavia
nel suo caso, anche il sesso sembra volersi
sostituire alla comunicazione verbale. Di nuovo
il linguaggio del corpo sembra essere quello
preferito nel cercare una più completa
comunicazione con sé e con gli altri.
In conclusione, ciò che si è cercato
di mostrare è che i temi della solitudine
e della morte, cari a Banana Yoshimoto, sono
strettamente legati all'idea dell'incomunicabilità
fra gli individui. La lingua, il linguaggio
verbale è percepito nei suoi racconti
come inefficace al pieno svolgimento della sua
funzione. All'impossibilità del linguaggio
si ovvia utilizzando forme alternative, come
il cibo, i gesti, la sessualità; mezzi
universali che trascendono la lingua e che rendono
l'opera di Banana Yoshimoto transfrontaliera,
capace di parlare all'animo di ogni lettore.
SalvatoreCiancitto
s_ciancitto@yahoo.com
Note:
(1) Lucertola, Feltrinelli, 1993, trad. di Giorgio
Armitrari, p. 11 - (2) Idem, p. 13 - (3) Idem,
p. 14 - (4) Idem, p. 41 - (5) Idem, p. 52 -
(6) Idem, p. 80.
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