Capita ancora, passando in macchina in certi
paesini del meridione, specie in Sicilia, di
trovarsi accodati, senza volerlo, a qualche
corteo funebre. Ricorderete certamente qualche
film, che ha ritratto un funerale siciliano,
tragicamente, grottescamente od addirittura,
incredibile a dirsi, a volte anche comicamente.
Nel verismo, limmagine e la rappresentazione
della morte gioca un ruolo importante, come
risvolto indissolubile ed inevitabile della
vita: si può pensare ai due grandi romanzi
verghiani, i Malavoglia e specialmente Mastro
Don Gesualdo, come ai Viceré di Federico
De Roberto, e più modernamente al Gattopardo
di Tomasi di Lampedusa, dove la morte è
attesa e riconosciuta in ultimo, quasi senza
paura, o addirittura come una liberatrice. E,
se mi passate il salto un po brusco (ma
solo in apparenza), ricordo uno dei più
esilaranti momenti di un film di Franchi ed
Ingrassia, che trovandosi per qualche contorto
e farsesco motivo nel West a dover fingere di
essere dei parenti di un mormone, interpretano
il funerale a modo loro, siculo naturalmente,
con un effetto travolgente.
Sono convinto che se siete rimasti bloccati
da un funerale in qualche tortuosa strada dellinterno
dellisola, lultima cosa cui avete
pensato è la musica, ma in realtà
la colonna sonora del corteo è
spesso la stessa, che avrete sentito in tanti
film di ambientazione siciliana. E una
musica adattissima ad una banda, mesta, ovviamente,
ma con un senso di movimento interno, nonostante
una staticità di fatto, molto adatta
al fatto che la banda è abituata a camminare
piuttosto veloce, mentre il mortorio simmagina
lento: un po come uno che vorrebbe saltellare,
ma non ce la fa più a muoversi, e così
si accontenta di avere la mente ancora piena
di pensieri. Rende molto lidea di un dolore
immenso, ma di una speranza altrettanto invincibile,
come dovrebbe essere la fine di un credente;
e tende quasi inconsapevolmente ad una levità,
ma una levità ancora molto terrena,
da palco della banda, non certo da Crepuscolo
degli Dei. Ve lo dico sottovoce, per non disturbare,
ma è una melodia che trovo splendida,
proprio perché nella sua semplicità
un po ingenua ostenta tutti questi contrasti,
che fanno parte dellanimus popolare siciliano.
Se non solo vi accorgete della musica, ma siete
curiosi, vi diranno che si tratta della Marcia
Funebre del Petrella. Errico Petrella (1813-1877),
esattamente coetaneo di Verdi quindi, palermitano,
ma che visse prevalentemente a Napoli, scrisse
venticinque opere, buffe, semiserie e serie.
Fu tra laltro lautore di una delle
due trasposizioni operistiche de I promessi
sposi (laltra, leggermente più
nota ed eseguita, è di Amilcare Ponchielli).
Dava però il meglio di sé in quelle
vicende in cui, nella tradizione del teatro
popolare del nostro meridione, aspetti patetici,
se non francamente comici, si fondevano in una
cornice decisamente drammatica, se non addirittura
tragica. In particolare, i libretti delle opere
di Petrella venivano spesso tratti da romanzi
davventura, pieni di vicende amorose ed
anche sensuali.
Nelle Novelle della Pescara (1902), Gabriele
DAnnunzio racconta di una rappresentazione,
de La contessa dAmalfi di
Petrella, negli anni immediatamente successivi
allunità dItalia (la prima
dellopera fu nel 1864). Le parole di DAnnunzio
rendono conto di cosa significasse la messa
in scena di unopera in una città
di provincia a quellepoca. Qui siamo allapparizione
della Contessa al secondo atto:
Quando il sipario si alzò, una specie
di stupore invase gli animi. Lapparato
scenico parve meraviglioso. Tre arcate si prolungavano
in prospettiva, illuminate; e quella di mezzo
terminava in un giardino fantastico. Alcuni
paggi stavano sparsi qua e là, e sinchinavano.
La contessa dAmalfi, tutta vestita di
velluto rosso, con uno strascico regale, con
le braccia e le spalle nude, rosea nella faccia,
entrò a passi concitati:
Fu una sera debrezza, e lalma mia
Nè piena ancor...
La sua voce era disuguale, talvolta stridula,
ma spesso poderosa, acutissima. Produsse nel
pubblico un effetto singolare, dopo il miagolìo
tenero di Tilde. Subitamente il pubblico si
divise in due fazioni: le donne stavano per
Tilde; gli uomini, per Leonora.
A vezzi miei resistere
non è sì facil gioco...
Leonora aveva nelle attitudini, nei gesti, nei
passi, una procacità che inebriava ed
accendeva i celibi avvezzi alle flosce Veneri
del vico di SantAgostino, e i mariti stanchi
dalle scipitezze coniugali. Tutti guardavano,
ad ogni volgersi della cantatrice, le spalle
grasse e bianche, dove al gioco delle braccia
rotonde due fossette parevano ridere.
Alla fine della solo gli applausi scoppiarono
con un fragore immenso. Poi lo svenimento della
contessa, le simulazioni dinanzi al duca Carnioli,
il principio del duetto, tutte le scene suscitarono
applausi. Nella sala sera addensato il
calore: per le tribune i ventagli sagitavano
confusamente, e nello sventolìo le facce
femminili apparivano e sparivano. Quando la
contessa si appoggiò a una colonna, in
un attitudine damorosa contemplazione,
e fu rischiarata dalla luce lunare dun
bengala, mentre Egidio cantava la romanza soave.
Don Antonio Brattella disse forte:
- E grande!
Don Giovanni Ussorio con un impeto subitaneo,
si mise a battere le mani, solo. Gli altri imposero
silenzio, poiché volevano ascoltare.
Don Giovanni rimase confuso.
(Gabriele DAnnunzio, Le novelle della
Pescara, Treves, Milano, 1902, p.226-227 )
La vicenda della novella di DAnnunzio,
un raro scritto dannunziano con venature umoristiche,
anche se un po livide, racconta di un
signorotto pescarese, Don Giovanni Ussorio,
che incapricciatosi della protagonista della
Contessa dAmalfi, una soprano
di origine greca, Violetta Kutufà, fa
sì che ella lasci la compagnia ed inizi
una convivenza con lui, mettendo su anche una
specie di salotto letterario e musicale. Ma
si sa, Pescara non è proprio una metropoli,
così, dopo averlo sfruttato ben bene,
la soprano lascia improvvisamente Don Giovanni,
che si riduce, vecchio ormai, a farsi accudire
dalla governante Rosa Catana, consolandosi solo
col pensiero che le mani di Rosa avessero pettinato
e curato la sua ultima innamorata.
Non solo Don Giovanni era innamorato della Kutufà,
ma anche tutta Pescara si prese una vera e propria
cotta per la Contessa dAmalfi, specie
per una celebre romanza che la protagonista
cantava al terzo atto:
E Violetta Kutufà così conquistò
Pescara.
Per oltre un mese le rappresentazioni dellopera
del cavaliere Petrella si seguirono con favore
crescente. Il teatro era sempre pieno, gremito.
Le acclamazioni a Leonora scoppiavano furiose
ad ogni fine di romanza. Un singolare fenomeno
avveniva: tutta la popolazione di Pescara pareva
presa da una specie di mania musicale; tutta
la vita pescarese pareva chiusa nel circolo
magico di una melodia unica, di quella ovè
la farfalla che scherza tra i fiori. Da per
tutto, in tutte le ore, in tutti i modi, in
tutte le possibili variazioni, in tutti gli
strumenti, con una persistenza stupefacente,
quella melodia si ripeteva; e limmagine
di Violetta Kutufà collegavasi alle note
cantanti, come, Dio mi perdoni, agli accordi
dellorgano limagine del Paradiso.
Le facoltà musiche e liriche, le quali
nel popolo aternino1 sono nativamente vivissime,
ebbero allora una espansione senza limiti. I
monelli fischiavano per le vie; tutti i dilettanti
suonatori provavano. Donna Lisetta Memma sonava
laria sul gravicembalo, dallalba
al tramonto; Don Antonio Brattella la sonava
sul flauto; Don Domenico Quaquino sul clarinetto;
Don Giacomo Palusci, il prete, su una sua vecchia
spinetta rococò; Don Vincenzo Rapagnetta2
sul violoncello; Don Vincenzo Ranieri su la
tromba; Don Nicola dAnnunzio sul violino.
Dai bastioni di SantAgostino allArsenale
e dalla Pescheria alla Dogana, i vari suoni
si mescolavano e contrastavano e discordavano.
Nelle prime ore del pomeriggio il paese pareva
un qualche grande ospizio di pazzi incurabili.
Perfino gli arrotini, affilando i coltelli alla
ruota, cercavano di seguire con lo stridore
del ferro e della cote il ritmo.
(Gabriele DAnnunzio, Le novelle della
Pescara, Treves, Milano, 1902, p.230-231)
Forse non con il vento di follia descritto
a Pescara da DAnnunzio, tuttavia La
contessa dAmalfi fu un successo
abbastanza durevole, tanto che ancora nel 1892
veniva eseguita al teatro Fenaroli di Lanciano.
Jone, che non centra con
un dramma di Euripide con lo stesso titolo,
ha un libretto tratto da un romanzone dellepoca,
dal quale sono stati ispirati anche dei colossal
in epoca a noi più vicina, e cioè
Gli ultimi giorni di Pompei di Edward
Bulwer Lytton, dove, con la scusa dellarcheologia
(e lautore partecipò agli scavi,
quindi aveva una conoscenza di prima mano)
si mostrano i pompeiani con vivida fantasia,
da un lato vagamente edonisti e dediti a molli
piaceri, ma daltro canto sentimentali,
innamorati, ma naturalmente presaghi della fine.
Forse ricordate un film italiano (uno dei cosiddetti
pepla) del 1959, diretto da Mario
Bonnard e Sergio Leone, con lo stesso titolo,
uno dei nostri film che ebbe successo anche
oltreoceano: ebbene, la storia è quella,
collegata alla scomparsa improvvisa sotto le
ceneri del Vesuvio della città di Pompei
il 24 agosto 79 D.C., ma molto romanzata. Questo
film è almeno il quinto ad ispirarsi
al romanzo di Bulwer Lytton nella storia del
cinema, il primo dovrebbe essere quello di Eleuterio
Ridolfi nel 1913.
Anche nel film di Bonnard e Leone i caratteri
sono gli stessi: Jone, sacerdotessa di Iside,
è innamorata ricambiata del giovane Glauco,
il quale però nel corso della vicenda
salva la schiava cieca Nidia dalle grinfie del
mago egizio Arbace. Arbace giura di vendicarsi,
ed alla prima occasione propizia condanna Glauco
ad essere divorato dalle fiere del circo, aiutato
dal fatto di essere, come ci siamo immaginati,
anchegli innamorato di Jone. Il tutto
è stato complicato dal fatto che Nidia,
da brava pompeiana sentimentale, si è
offerta come schiava a Glauco, sperando anchella
di sottrarlo a Jone. Un filtro damore,
preparato da Arbace, non funziona che a far
impazzire Glauco, che rinsavisce in tempo per
la scena madre nel circo e per il gran finale
con terremoto ed eruzione.
E chiaro che una situazione del genere,
mentre avrebbe forse suggerito poco al rigore
drammatico e romantico di Verdi, molto poteva
ispirare a Petrella, che della contaminazione
dei generi tipica del teatro napoletano (pensate
a come si fonda il comico, il drammatico ed
il patetico in un capolavoro di Eduardo come
Natale in casa Cupiello) aveva fatto
la propria ragione di vita e di lavoro, innervandola
in quellidea, sottilmente terrena e vagamente
sessuata, dellimminenza della
morte, tipica della cultura siciliana (non è
un caso che proprio in Sicilia siano diffusi
dolci un po macabri, ma per inciso buonissimi,
autentiche prelibatezze, come le ossa
di morto).
Notiamo per inciso che la lettura intimista
che Petrella fa dei Promessi Sposi (1869) la
rende una vicenda simile, ma molto più
in piccolo, a quella pompeiana della Jone: sostituisci
Glauco e Jone con Renzo e Lucia, cambia Arbace
con Don Rodrigo, e ricrea limminenza della
morte, invece che con il vulcano, con la peste.
A rigore, nei Promessi Sposi, una Nidia che
sacrifichi il suo amore, come farà la
Liù pucciniana, non cè,
in compenso però cè un lato
comico, con Don Abbondio e la Perpetua, cui
per esempio, il lombardo Ponchielli non fu interessato,
tanto da musicare una riduzione del romanzo
di Manzoni (1856) priva di Don Abbondio (benché
sia difficile da immaginare): aveva paura delle
reazioni dei preti della sua zona a vedere un
parroco interpretato da un basso buffo?
A parte gli scherzi, Jone si caratterizza
veramente per unalternanza di toni drammatici
e vagamente epici con toni popolareschi, tanto
che uno dei sei quadri in cui si dividono i
quattro atti è ambientato in un mercato
di Pompei, che è proprio il tipico mercatino
rionale del nostro meridione, cè
anche il venditore di pistacchi e datteri, non
molto diverso dal bruscolinaro romanesco,
che espone la sua merce con una polifonia suggestiva
del coro, e nel mezzo del mercato si ode il
rimbombo del terremoto. La speranza del coro
è che Arbace, con la magia, possa allontanare
il disastro da Pompei, tipica scaramanzia di
quelle parti, ma si sa che leffetto della
magia sui vulcani è tutto da dimostrare.
Leroe buono Glauco si esprime con toni
da tenore verdiano, un po generici, anche
se a volte, specie nei duetti con Jone, con
una tenerezza vocale, che ricorda un po
certi personaggi di Bellini, altro siciliano
peraltro. Jone tende ad essere, come sacerdotessa,
appassionata, ma meno sensuale della Leonora
della Contessa dAmalfi.
Senza però togliere al resto, i due elementi
che caratterizzano la Jone sono la presenza
del vulcano, cioè la morte improvvisa,
e la marcia funebre, che dovrebbe accompagnare
Glauco nel circo, cioè la morte prevedibile
e codificata; ovviamente si prevede che luna
prevalga sullaltra, come infatti accade,
e faccia in un senso giustizia. I leoni nel
frattempo, di fronte a Glauco si sono fermati,
come se attendessero lesito finale: il
pubblico è in delirio, anche perché
Glauco ha cantato una romanza commovente, il
cui testo illustra in modo efficace la concezione
drammaturgica del librettista di Petrella, Giovanni
Peruzzini, per un verso volto verso la canzone
napoletana, ma come metrica fermo a Metastasio3:
O Jone! O di questanima
desio supremo e santo,
non è il morir, ma il perderti
che maddolora or tanto.
Ah! di me priva, o misera
qual più ti resta aita?
Lunga agonia di spasimi
per te sarà la vita...
ma no! conforto siati
la mia memoria, o cara:
damor eterna unara
per noi lEliso avrà.
Il tuo Glauco, lultimo
in terra addio ti dà!
E naturalmente cè
il duetto a voce spiegata, e cantabilissimo
(In questestasi sublime) dei
due amanti che si sottraggono al loro destino,
mentre il vulcano esplode. Chi si ricorda il
film di Bonnard, che finisce allo stesso modo
dellopera petrelliana, anche se indubbiamente
con meno musica e canto melodioso, sa che Jone
e Glauco si allontanano su una barca verso la
Grecia, loro comune patria dorigine, mentre
Nidia rimane tra la folla, non volendo salvarsi
per immolarsi perché Glauco sia felice,
analogamente a quanto fa la Liù pucciniana
in favore di Calaf, il principe del Nessun dorma,
ed infine si getta in mare (a quel che predice
ai due amanti, perché nellopera
svanisce nelle tenebre in fondo al palcoscenico).
Didascalia finale del libretto, vagamente cinematografica
ante litteram:
Glauco e Jone corrono abbracciati verso
il mare confusi alla folla che si accalca da
ogni parte nellestremo della disperazione.
Fra le grida di spavento e il fracasso de
crollanti edifizi, cala la tela.
Si salveranno veramente? Difficile dirlo. Forse
no, perché il Vesuvio erutta e la Grecia
è lontana. Daltronde Petrella ci
aveva avvertito fin dallinizio che la
questione sarebbe stata difficile, aprendo la
sinfonia, con gesto molto coraggioso per uno
che di opere ci campava, con il tema della marcia
funebre. Intanto però Glauco e Jone,
già con la patria negli occhi, si convertono
al cristianesimo al suono di una melodia fervente,
il che evidentemente, anche se non totalmente
plausibile in un frangente così delicato,
male non fa.
Dopo unimmensa fortuna in Italia ed altrove
fino circa al 1920, Jone è
sopravvissuta soltanto in parte nel repertorio
delle bande e, come dicevamo, nei funerali di
piazza in Sicilia ed in altre parti del Meridione.
Nel caso, cè un motivo specifico,
ed è appunto lavvento del colossal
cinematografico: buona parte del fascino di
un dramma come questo sul pubblico di metà
ottocento, che a noi sembra ingenuo (ma magari
siamo più ingenui noi, chissà),
è lidea di andare a teatro a vedere
un vero vulcano esplodere tra mortaretti
e tricche tracche. Unidea seducente non
solo in piccoli paesi di provincia, se è
vero che Jone ebbe la prima alla
Scala di Milano nel 1858 e resistette venticinque
sere. Tuttavia, da quando certe cose si vedono
al cinema, renderle credibili su un palcoscenico
richiede unabilità non comune ed
uno scialo di cartapesta che nessun ente lirico
italiano si sente di affrontare.
Si tratta di unopera assai godibile, a
mio parere, e ne esiste, a mia conoscenza, una
sola registrazione completa moderna dal vivo
(1981) del Teatro Municipal de Caracas (!),
diretta da Edoardo Müller, un esperto di
queste riscoperte strane (ricordo
una sua incisione de I Lituani di
Ponchielli, altro drammone, stavolta alto-medievale,
nel 1984, centenario della morte dellautore)
ed un benemerito, per quanto mi consta. Jone
è il soprano argentino dorigine
italiana Adelaida Negri, mentre Glauco è
il tenore friulano Bruno Sebastian, Arbace il
baritono Giampiero Mastromei e Nidia il mezzosoprano
Stella Silva.
Quanto alla marcia funebre, è curioso
che si ricordi un musicista per un solo pezzo,
notissimo, ma di cui quasi nessuno conosce lautore.
Mi risulta almeno un altro caso, molto più
allegro: è la cosiddetta
Tarantella per antonomasia, che tutti conoscono,
ed è di Luigi Ricci, e fa parte di una
sua commedia per musica, Piedigrotta
(1850), anchessa completamente dimenticata.
Ma di questa, se permettete, parleremo una prossima
volta.
(c)Carlo Santulli
Note:
1 DallAterno, uno dei fiumi di Pescara
2 Il vero nome e cognome di DAnnunzio
era Gaetano Rapagnetta. DAnnunzio era
stato legalmente aggiunto al cognome della
famiglia da suo padre Francesco, possidente
e sindaco di Pescara. Curioso come nello stesso
brano lautore metta sia un Rapagnetta
che un DAnnunzio.
3 Un bel distico di ottonari tipicamente metastasiano
lo tirerà fuori lo stesso Peruzzini
ne La contessa dAmalfi:
Non sai tu che piombo è al piede/la
catena coniugale
Errico Petrella
(1813-1877)
Compositore palermitano, fu allievo di V. Bellini
e N. Zingarelli. Noto per le numerose opere
teatrali, e specialmente per: Jone, Le precauzioni
e La Contessa d'Amalfi. Enrico Petrella era
considerato intorno al 1870 il maggior operista
italiano dopo Verdi. Tuttavia, morì in
povertà e conobbe, dopo la morte, l'oblio
quasi totale.
Bibliografia
Su Errico Petrella:
Andrea Sessa, IL MELODRAMMA ITALIANO (1861-1900),
Dizionario bio-bibliografico dei compositori,
Olschki 2003, ISBN: 8822252136
Altre notizie su Errico Petrella presso:
www.processionemisteritp.it/musica/petrella/petrella.htm
Sulla Jone, vedi la voce omonima del Dizionario
dellOpera a cura di Piero Gelli, Baldini
& Castoldi, 1996
La Jone (2 CD) è disponibile presso :
www.casadelaopera.com.ar
- Buenos Aires
Il romanzo Gli ultimi giorni di Pompei
di Edward Bulwer Lytton (1803-1873) è
disponibile prezzo Rizzoli in unedizione
del 2004.
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