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Un mondo sempre in viaggio
A cura di Francesca Fava


Solitamente si decide di intraprendere un viaggio per visitare nuovi luoghi, conoscere culture differenti dalla propria e avvicinarsi temporaneamente a un mondo tanto ignoto quanto spesso affascinante. Si parte per incontrare l’altro, per interagire con realtà che fino ad allora si ignoravano. Si viaggia per capire meglio se stessi, per ricercare la propria identità grazie al confronto (o malauguratamente scontro) con un universo che difficilmente può essere catalogato nei parametri prestabiliti dalla società di appartenenza. Ci si allontana da casa per assaporare il gusto dell’avventura, dell’imprevisto e del misterioso; si vuole essere in balia del caso e fuggire dallo scorrere lento e monotono dei giorni, da logore abitudini e da soffocanti obblighi.
E poi si ritorna nel proprio paese. Talvolta si è completamente ammaliati dal fascino del posto che si è visitato e talvolta si è scettici poiché un luogo non ha soddisfatto le aspettative della partenza o , più semplicemente, non è piaciuto. In ogni caso, si rientra arricchiti: l’incontro con il diverso da sé permette di comprendere meglio i limiti, i pregi e le potenzialità dell’io e dell’universo che lo circonda. Riuscendo a capire l’altro ( e accettandolo) , si riesce a capire meglio se stessi. L’identità , infatti, non è solo il prodotto di un complesso di riferimenti etici e cognitivi definiti dal mondo in cui si vive; non è solo la diretta conseguenza di scelte compiute dalla famiglia da cui si proviene.
L’identità è il risultato di un lungo cammino dell’individuo, di una sorta di viaggio che si sceglie di iniziare, dopo aver abbandonato parte delle certezze e dei principi che regolano il quotidiano svolgimento dell’esistenza. L’implacabile ripetitività dei giorni non permette di mettersi alla prova, di superare alcuni dei propri limiti e di poter scegliere: il susseguirsi di attività e momenti difficilmente imprevedibili crea attorno all’individuo un universo perfettamente organizzato in cui sentirsi protetto e rassicurato e che, per questo, non viene abbandonato. Da tale prospettiva, si potrebbe pensare che solo la noia costituisca una possibile variabile capace di turbare questa tranquilla dimensione, ma non è così: i meccanismi interni di questo complesso sistema sono in grado di reinserire l’uomo in altri sotto-sistemi destinati ad ideare sicuri istanti di svago e di divertimento. Tutto appare rispondere ad una perfetta logica, nulla sembra essere lasciato al caso. In una tale situazione, risulta palese come la personalità dell’individuo non sia soggetta ad una lenta ma continua evoluzione dovuta alla necessità di far fronte ai più disparati problemi, ma rimanga identica a se stessa. Solo un avvenimento imprevisto potrebbe sconvolgere parte di tale statica condizione e obbligare il soggetto a scoprire realmente se stesso, riflettere sulla sua identità ed , infine, crescere. Ed è per questo che, come sostiene lo scrittore libanese Amin Maalouf in Origines , per svilupparsi e maturare, l’uomo non deve essere costantemente radicato alla medesimo mondo, ma deve camminare, spostarsi da un luogo ad un altro, affrontare le più disparate avventure che si presentano, iniziare a percorrere una delle numerose strade che, improvvisamente , gli appaiono di fronte, poiché
“Pour nous, seules importent les routes. Ce sont elles qui nous convoient- de la pauvreté à la richesse ou à une autre pauvreté, de la servitude à la liberté ou à la mort violente. Elles nous promettent, elles nous portent, nous poussent, puis nous abandonnent.” (1)
Inoltre, in questo secolo di esodi e di migrazioni planetarie, un’attribuzione identitaria concepita in relazione al luogo di origine appare anacronistica ed inconcepibile: milioni di persone non vivono nel luogo in cui sono nate, parlano una lingua che non è quella materna ed apprendono una cultura che è diversa da quella paterna. Il concetto di individuo a radice unica derivante “[…] du principe d’une Genèse et du principe de la filiation, dans le but de rechercher une légitimité sur terre qui à partir de ce moment devient territoire[= terre élue]” (2) dovrebbe essere, per questo, sostituito a quello di “racine multiple” ipotizzato da Eduard Glissant in Introduction à une poétique du divers.
Ma acquisire la consapevolezza di dover “partire verso l’ignoto” può erroneamente indurre a credere di trovarsi dinnanzi a un immenso e sconfinato panorama di possibilità. Nonostante ciò, l’individuo non deve spaventarsi e pensare di essere privo di qualunque punto di riferimento poichè egli possiede una certezza che custodirà durante tutto il corso della sua vita: il suo nome. Grazie ad esso egli è in grado di definire se stesso e disegnare nitidi contorni della sua persona, riconoscendo il punto preciso da cui è partito e quello a cui può giungere: infatti, come sostiene Joël De Rosiers in Théories Caraïbes “Mon/nom:- signes inversés de la possession et de l’identité pour nous dire que le nom, non seulement signifie quelque chose mais nous convoque[…] Le nom n’est pas rien. Il nous désigne d’une manière qui n’est pas neutre. Plus encore que la langue maternelle, les patronyme s’impose à nous.”(3)
La coscienza di essere una parte attiva ed importante di un determinato micro-universo gli permette di riflettere su se stesso , senza rischiare di essere coinvolto in un processo di completa rivalutazione e ricreazione (con possibile conseguente annullamento) della propria personalità. Inoltre, egli può confrontarsi con gli altri, senza il timore di perdere parte della propria identità e senza voler imporsi come unico modello da emulare: nell’incontro con l’altro , egli può creare un perfetto rapporto di equilibrio tra le componenti principali della sua dimensione personale e quelle appartenenti all’universo del tu. Una perfetta e reale interazione, infatti, può avvenire solo quando entrambe la parti sono coscienti della propria identità e del sistema di valori a cui si riferiscono e, forti di tale consapevolezza, non devono imporre il proprio schema mentale e culturale per reazione inconscia ad un timore d’inferiorità.
Il suo nome racchiude un mondo che riesce ad aiutarlo in qualunque luogo si trovi poiché in esso si cela una delle componenti fondamentali per la formazione e lo sviluppo della personalità: la storia e la mitologia famigliare. Infatti, come afferma lo scrittore francese Daniel Picouly, nel momento in cui si è accinto a ripercorrere la storia dei suoi genitori e gli avvenimenti anteriori alla sua nascita, “Je vais à la rencontre des souvenirs qui m’ont forgé, formé. Des épisodes de l’historie familiale qui étaient dans ma tête depuis toujours.”(4) In effetti, grazie agli aneddoti e alle leggende che compongono la mitologia famigliare, l’uomo riesce a comprendere appieno le sue origini e, di conseguenza, a capire se stesso. La conoscenza degli avvenimenti, che nel passato sono stati fondamentali per la creazione di una particolare situazione, porta a svelare i meccanismi costitutivi del mondo presente e della propria realtà. La scoperta dei fatti e delle figure, che hanno maggiormente influenzato lo svolgimento degli eventi, permette all’individuo di divenire cosciente non solo di quell’ambiente che rappresenta la fonte dei suoi principi e che costituisce il modello a cui conformarsi, ma anche delle cause che lo hanno determinato.
Ma per compiere questa ricerca, occorre intraprendere un viaggio nel passato, in una dimensione in cui storie personali, nate da ricordi talvolta inventati o solo deformati dalla memoria famigliare, sono affiancate a storie pubbliche, storicamente riconosciute, istituzionalizzate e codificate dalla memoria nazionale. Il processo di identificazione e di conseguente separazione tra i fatti appartenenti alla storia individuale e direttamente vissuta e quelli connessi alla storia ufficiale comporta l’acquisizione di quella memoria che Régine Robin definisce “collective”, ossia “Elle est à la fois ce qui établit le lien entre la mémoire vivante, et la mémoire normée, mémoire de groupe, encadrée socialement, encadrée aussi par la tradition familial. Mémoire identitaire, close sur elle même, menacée et jalouse de sa singularité.” (5)
Di conseguenza, per conoscere il proprio passato, è necessario possedere un sapere storico, ufficiale ed accademico, riconducibile ad imponenti lavori di ricerca degli specialisti del settore, e un sapere famigliare, mitico e leggendario, costituito di ricordi gelosamente custoditi dalla memoria. Questa, infatti, diversamente dagli individui che dimenticano gli avvenimenti remoti, conserva la dimensione del passato e riesce,ogni qualvolta lo desidera, a farla riaffiorare nel presente. In tale prospettiva, l’uomo assume una posizione di sottomissione nei confronti di quest’ultima e sebbene si sforzi di controllare le immagini che di colpo appaiono nella mente, non riesce a controllare il movimento imprevedibile e discontinuo delle visioni passate
Ed è anche per questo che l’identità personale non può essere semplicemente spiegata ricorrendo esclusivamente a rigide concatenazioni di causa-effetto o a razionali e concrete motivazioni. In essa si celano paure, sogni e pensieri che sovente rimangono incomprensibili poiché completamente estranei a qualunque logica a loro esterna e possono essere chiariti solo grazie a racconti fantastici. Tutto ciò che è segreto, che risulta in prima analisi incomprensibile e, di conseguenza, misterioso, non deve essere catalogato come estraneo e quindi escluso; l’illogico, l’irrazionale e il remoto costituiscono una delle basi sulle quali la mitologia famigliare si edifica e si sviluppa. Cosciente del proprio passato e dei complessi meccanismi connessi al funzionamento della memoria, l’individuo può guardare la sua immagine presente ed immaginare quella futura, senza il timore di perdere i suoi punti di riferimento e, per questo, essere soggiogato dai modelli imposti dalla società in cui vive. Il ritorno alle origini assume così le connotazioni di un ritorno ( o scoperta) di se stesso.
I fantasmi che popolano i ricordi si trasformano in figure a cui riferirsi nei momenti di incertezza e di sconforto e le tracce che hanno lasciato diventano “vivi” strumenti di conoscenza.
Così, è accaduto a Aminn Maalouf quando, nel momento di raccontare la storia della sua famiglia, ha trovato tre lettere che il suo prozio Gebrayel aveva spedito a suo nonno: “En un clin d’œil, Gebrayel a cessé d’être pour moi une figure fantomatique évanouie en un passé indéterminé. Je tenais à présent dans mes mains des pages qui portaient son écriture, son accent, son souffle, sa sueur .”(6)
Il passato non appare più tanto lontano ma diviene parte attiva del presente e una solida base su cui costruire il futuro.
Tutte queste incertezze connesse al viaggio sembrano accrescere considerevolmente quando accade che l’individuo non scelga spontaneamente di partire, esplorare nuovi mondi, interagire con realtà diverse dalla propria, entrare in contatto con l’altro e capire meglio se stesso, ma sia costretto a farlo. Il mondo in cui è cresciuto e che avrebbe dovuto costituire lo sfondo su cui proiettare le aspettative future lo allontana e, sovente, per sempre. La terra che lo ha visto nascere lo obbliga ad abbandonare la casa, la città e le persone che lo hanno per lunghi anni circondato ( e forse anche la famiglia, dal momento che non tutti hanno il coraggio e la forza di costruire altrove il proprio futuro, o, più semplicemente, non possono). Partire significa lasciare le abitudini, la tradizioni e le regole di vita che lo hanno aiutato a definire la propria identità e che gli hanno permesso di sentirsi parte di un determinato universo. Da questa prospettiva, il paese natale si configura come un luogo di sofferenza da cui andarsene: rimanere, infatti, significherebbe continuare a vivere nella povertà, nella guerra o nella completa mancanza di libertà; significherebbe vivere nella paura di perdere le persone care, di vedere distrutti i luoghi nei quali si è cresciuti; significherebbe lottare quotidianamente per poter semplicemente sopravvivere.
Ma l’uomo non scappa dalla propria terra solo per sfuggire dalle difficili situazioni politiche, sociali ed economiche del luogo in cui vive.
Egli se ne va anche dal mondo culturale e famigliare che non gli permette di esprimersi in libertà, di sviluppare in modo autonomo la propria personalità e di inseguire i propri sogni. La famiglia diviene spesso una prigione dalla quale evadere; le tradizioni e la religione pretendono di assumere un ruolo determinante nelle decisioni quotidiane e private dell’individuo che, per questo, si sente soffocare nello stretto giogo dei doveri impostogli dall’esterno. L’individuo si sete imprigionato in una gabbia di obblighi,
La conformità alle regole imposte diviene una condizione indispensabile per essere accettati. La sensazione di non poter scegliere diviene talmente opprimente da indurlo ad andarsene o compiere gesti estremi. Soprattutto i giovani, desiderosi di sognare, speranzosi in un avvenire migliore, ma insicuri di se stessi e delle loro potenzialità, sono incapaci di reagire e diventano vittime di questo sistema di divieti e di costrizioni: infatti, come racconta Amin Maalouf, parlando di un suo cugino, “Le neveu de Botros avait émigré vers la mort comme d’autres émigrent vers l’Amérique, pour les mêmes raisons : l’univers qui l’entourait devenait étroit, étroites les communautés, leurs idées, leurs croyances, leurs manigances, leur grouillement servile ; étroites aussi les familles, étroites et étouffantes ! Il fallait s’échapper ! “(7)
La coscienza individuale si deve sottomettere agli obblighi sociali e alla volontà della comunità di appartenenza. Osare ribellarsi alle regole si traduce in un atto punito non solo con l’emarginazione, ma anche con la morte. Ogni vita deve seguire una traiettoria perfettamente tracciata e nessuno può permettersi di mutare il disegno che è stato chiamato a realizzare, anche se si è stati destinati ad un’esistenza di silenzio, di sottomissione e di reclusione, come ha ricordato una giovane narratrice, Nina Bouraoui, “Una donna musulmana lascia la sua casa due volte: per il matrimonio e per il funerale. Così ha deciso la tradizione!”(8).
Diviene così difficile ( o spesso impossibile) pensare diversamente dagli altri o più semplicemente pensare.
Ed esprimere con la scrittura pensieri diversi da quelli concessi dal potere può trasformarsi in un reato da punire severamente, soprattutto se chi si espone sono persone a cui non sono riservati diritti, ma solo obblighi. Così, come ricorda la scrittrice algerina Yamina Mechakra, descrivendo la condizione della donna in Algeria ,in La grotte éclatée , “A l’heure actuelle, dans notre pays, une femme qui écrit vaut son pesant de poudre”(9)
Ed è così che, con una sensazione di abbandono e di delusione, l’uomo inizia questo particolare viaggio che difficilmente si conclude quando si arriva a destinazione.
Le difficoltà connesse all’apprendimento di una nuova lingua, alla ricerca di adeguarsi a diverse regole di vita e alla comprensione di una cultura talvolta inconciliabile con la propria, pongono il soggetto in una condizione di “straniero per sempre”, di eterno viaggiatore. Infatti, come scrive Kenizé Mourad in De la part de la princesse morte , in cui si racconta la vita della madre costretta a fuggire dalla Turchia poiché figlia dell’ultimo sultano cacciato dalle milizie di Kemal, un esule può essere considerato estraneo ad un posto per svariati motivi: la lingua, la religione, l’educazione o la semplice mancanza di un documento d’identificazione.
La condizione di straniero lo accompagna ovunque decida di andare: “A nouveau, cette vieille sensation d’être rejetée…Sera-t-elle toujours, partout, l’étrangère ?”(10)
Per definire questa particolare situazione appare però riduttivo ricorrere solamente al termine straniero ed ai suoi sinonimi.
Con questa parola non si riescono ad esprimere la sensazione di insicurezza, precarietà ed instabilità che si prova quando si è identificati con tale vocabolo. E non si rivelano nemmeno quelle connotazioni di diffidenza, sospetto e talvolta (purtroppo) di disprezzo che essa comporta.
Così, per colmare tale lacuna lo scrittore algerino Yassir Benmiloud , che ha vissuto in prima persona l’esperienza dell’esilio, ha pensato di creare “[…] l’ intrangero , è una parola che ho inventato io che se non sei di origine difficile non la puoi capire, ma io te la spiego, vuol dire che sei uno straniero nel tuo stesso paese, ma non chiedermi se il paese in questione è l’Algeria o la Francia, vabbe’, diciamo l’Algeria francese già che siamo qui e adesso, come ha detto mio padre, traslochiamo, prendiamo le nostre carabattole e ricominciamo[…]”(11)
La diversità diviene un tratto saliente dell’identità : l’individuo viene ad essere definito solo come colui fuori dagli schemi imposti dalla nuova società in cui vive.
Diviene l’altro a cui opporsi. Assume le sembianze di quella minoranza che permette alla maggioranza di delineare più nitidamente i propri confini: infatti, come sostieneFatima Mernissi in La terrazza proibita, ricordando le parole di sua madre quando cercava di spiegarle le ragioni dell’odio nazista nei confronti degli ebrei e dei motivi per cui quest’ultimi erano costretti a portare la stella gialla sui loro vestiti “Forse è la stessa cosa che accade qui[ndr. Il Marocco] con le donne[…] Nessuno sa con certezza per quale ragione gli uomini ci fanno mettere il velo. Sarà qualcosa che a che fare con la diversità. La paura del diverso fa comportare la gente in modo molto strano. Forse gli alemanni si sentono più al sicuro quando sono tra di loro, proprio come gli uomini della medina diventano nervosi ogni volta che una donna si avvicina.”(12)
In realtà, egli non appare completamente estraneo ai parametri del mondo in cui ora si trova poiché anche a lui è stato attribuito un modello a cui riferirsi per poter essere riconosciuto: l’esilio diviene la sua condizione identitaria. In quanto esiliato egli deve rispettare una serie di norme che gli sono state imposte, e che spesso non riesce ad accettare poiché troppo differenti da quelle a cui si è da sempre attenuto.
Il paese in cui si credeva di poter trovare un sicuro rifugio si trasforma ben presto in un luogo di nuove imposizioni ed obblighi.
Attorno a lui iniziano a comparire dei divieti ai quali non è abituato, come mostra Gisèle Pineau in L’exil selon Julia, in cui si narrano le “avventure” della nonna Man Ya arrivata in Francia dalla Guadalupa: “Attention! Il ne faut pas marcher au milieu de la rue! Ne pas s’éloigner, au risque de se perdre à jamais. Traverser dans les clous. Ne pas quitter l’appartement sans carte d’identité. Ne pas causer aux inconnus, ils prendraient peur. Ne parler à personne puisque ici personne ne comprend le créole. Ne pas sortir sans manteau. Ne pas se fier au soleil qui rigole derrière les carreaux…il est aussi interdit d’aller sur les pelouses, de cueillir des fleurs, de casser des branches. Man Ya connaît ses droits : s’asseoir sur un banc, les deux mains déposées sur ses jupes, et prendre un bol d’air frais” (13)
La mancata osservanza alle regole comporta una possibile punizione e una sicura incapacità altrui di riconoscere il soggetto che ha trasgredito: l’immaginario collettivo, infatti, ha affidato ad ognuno un ruolo prestabilito e uno specifico comportamento da interpretare e difficilmente riesce ad accettare che l’individuo possa deludere le aspettative.
Il pericolo in cui lo straniero potrebbe incorrere sarebbe, di conseguenza, quello di essere considerato un diverso tra i diversi, un elemento di ulteriore confusione tra variabili già considerate incontrollabili.
Così appare nelle pagine di Khalid Boudou in Il paradiso della cotoletta in cui si raccontano i problemi quotidiani di Nordip, un adolescente marocchino immigrato in Olanda: “Nordip, non è per come sei, senti, ma…tu li conosci, quei ragazzacci per strada, anche della tua cultura, sono diversi, diversi da te. Tu sei veramente molto diverso. Molto diverso, Nordip.” (14)
Ma attenersi alle regole ed agli schemi imposti non garantisce il riconoscimento e l’accettazione altrui; non implica il rispetto, l’apertura e la comprensione.
Il modello a cui riferirsi, infatti, rappresenta semplicemente un’ulteriore barriera alla possibilità di integrarsi. Simboleggia la tendenza a considerare i valori particolare come universali. Incarna il desiderio di mantenere una condizione di egemonia culturale, politica e sociale.
Tuttavia, una reale integrazione non si rivela di difficile realizzazione solo a causa di coloro che apertamente impongono i loro archetipi e non accettano individui con culture e lingue diverse. Appare inattuabile anche per colpa di chi, fingendo di voler creare un mondo senza confini, continua a marcare le differenze ed erige nuove frontiere.
La volontà di imporsi ed imporre agli altri le proprie regole di vita si nasconde nel buonismo esasperato e nella pietà insensata, nel ritenere qualcuno incapace o insufficientemente preparato ad inserirsi autonomamente in una nuova società. L’uguaglianza non può esistere se si persiste a ritenere degli individui non del tutto simili ad altri.
La pace e la stabilità, derivate da una tranquilla situazione politica, sociale ed economica nella quale si vive, non aiutano a lenire il malessere causato da questa sensazione di essere perennemente diversi ed incomprensibili.
Sentendosi costantemente estraneo all’ambiente in cui ora abita, l’individuo inizia a desiderare di voler tornare nel mondo che ha abbandonato, in quell’universo famigliare che lo considerava un “componente regolare” della società.
Consapevole che questo desiderio di ritorno non può, però, avvenire, l’individuo inizia a viaggiare verso casa con la mente. Immagina le sensazioni che potrebbe provare, i profumi che potrebbe sentire, i luoghi che potrebbe vedere e le persone che potrebbe riabbracciare. Riemergono tradizioni che non si ricordavano, abitudini che talvolta si volevano cancellare.
Il passato subisce un processo di trasfigurazione e viene idealizzato. Si dimenticano le sofferenze, le difficoltà e tutti i problemi a causa dei quali si ha abbandonato la propria terra. E si ricordano solo i momenti in cui non si sapeva ancora cosa significasse essere straniero.
Svanisce il desiderio di essere accettati e considerati parte integrante della totalità e si manifesta una strana volontà di esclusione e separazione dal mondo in cui si è obbligati a vivere. Spariscono i compromessi, gli sforzi per comunicare ed interagire con gli altri. Ci si arrocca in un universo famigliare al quale possono partecipare solo coloro che condividono lingua, cultura e tradizioni. Il modello a cui ci riferiva per poter essere integrati viene rifiutato poiché simbolo di una società che, per prima, non è stata in grado di accogliere il diverso. Si acquisiscono esempi alternativi a cui identificarsi, solitamente ricercati nell’ambito famigliare, come afferma ironicamente Yassir Benmiloud nel già citato Allah superstar : “In verità il padre arabo funziona così: la sua vita è una dimostrazione di quello che bisogna fare, quindi non fare domande, fai come lui e sarai un uomo, figlio mio, se non passi il tuo tempo a chiacchierare come una donnicciola.” (15)
Tutto ciò che proviene dal quel mondo al quale si desiderava partecipare viene allontanato poiché emblema di un tentativo di sottomissione dello straniero a predefiniti schemi mentali. Il rifiuto di ogni modello esterno segna un momento importante per lo sviluppo personale poiché presuppone una maggiore consapevolezza della propria identità: l’individuo, infatti, decidendo autonomamente il suo agire quotidiano, trova in se stesso i punti di riferimento che possono aiutarlo a compiere le giuste scelte.
Da questo momento, egli può osservare il mondo che lo circonda con i suoi occhi e non più attraverso dei filtri deformanti imposti da altri. La realtà si rivela, così, con le sue contraddizioni , con le sue strane dinamiche e con le sue relazioni di potere.
La consapevolezza che deriva da queste scoperte permette allo straniero di giudicare più obbiettivamente l’universo in cui si trova e gli offre la possibilità di essere finalmente cosciente di sé. Acquisendo tale libertà mentale, egli smette di interiorizzare lo sguardo altrui. Si svincola da quell’assimilazione culturale che permette a coloro che sono parte agente di una maggioranza di creare illusori universi di valori a cui riferirsi, come sostiene Kenizé Mourad nel già citato De la part de la princesse morte, ricordando le parole di un amico indiano ritornato nel paese di origine dopo un lungo soggiorno in Inghilterra:“ Je me demande parfois si ces années passées en Angleterre n’ont pas été une malédiction. Au début je voulais assimiler leurs idées pour mieux les combattre, et à mon insu j’ai changé. Ils ont fini par me persuader que leurs valeurs étaient universelles, que la morale était « blanche » ! et maintenant, maintenant je ne sais plus…je les hais, et en même temps j’ai l’impression qu’ils ont raison, contre les mien…c’est là leur victoire. Sans doute vont-ils bientôt partir mais en réalité ils resteront- il se tape le front- là, dans nos cerveaux, nos cerveaux de blancs[…] que sommes-nous ?des indiens capables de comprendre et réaliser les aspiration de notre peuple ?ou bien de mauvaises copies d’anglais qui en nous glorifiant d’avoir acquis l’indépendance allons perpétuer l’esclavage ?”(16)
I meccanismi che sono alla base di questo processo non nascono nell’epoca contemporanea, in risposta al bisogno di controllare, plasmandole, le ondate migratorie. Il tentativo di influenzare alcune categorie di individui appare evidente soprattutto nel periodo della colonizzazione francese delle Antille, iniziato nella prima metà del 1600 e continuato nei secoli successivi. Diversamente da altri luoghi, infatti, in questi posti non si cercava solo di sfruttare le ricchezze naturali e di sottomettere con la forza degli uomini prima liberi, ma si voleva intraprendere un esperimento demiurgico. Si voleva creare degli esseri nuovi che agissero e soprattutto pensassero come i loro “padroni” .
Si volevano controllare i pensieri e le idee. Si pretendeva di attuare ciò che in seguito sarà definita “ aliénation”, ossia un processo
mentale per cui “[…] le maître n’existe en tant que maître- maître divinisé- que par le regard de son esclave. Et l’esclave n’existe en tant que tel que parce qu’il veut bien accepter l’image de lui-même que lui propose son soi-disant maître.” (17)
Tale impresa demiurgica di creazione di esseri nuovi è stata realizzata completamente e ha coinvolto tutti gli strati della società.
La successiva continuità politica, il principio di assimilazione inerente alla filosofia coloniale nata durante la Rivoluzione, la scolarizzazione obbligatoria e il centralismo di matrice giacobina hanno contribuito a dissolvere ogni tentativo di ritorno alla cultura originaria di quei luoghi.
Le Antille hanno , di conseguenza, perso la loro identità e sono state per lunghi anni sottomesse alla cultura francese.
Nonostante le numerose lotte di liberazione nazionale avvenute nei periodi successivi, questa influenza si è con il tempo talmente radicata da impedire il sorgere di un’autentica coscienza antillana. I tentativi di creare un immaginario specifico e proprio di quei luoghi si sono rivelati fallimentari poiché si è giunti solo ad un semplice rovesciamento dei modelli coloniali ed alienanti e ad una riscrittura di ciò che antecedentemente era stato imposto.
Solamente agli inizi del 1900, è apparsa una cultura delle Antille, libera ed originale: il riconoscimento delle radici africane e dell’importanza dei concetti di popolo e di nazione, e la scoperta di una certa continuità tematica delle produzioni artistiche si sono rivelate fondamentali per la nascita e lo sviluppo di una coscienza creola indispensabile per l’acquisizione di un’identità personale e collettiva.
Così, per scongiurare il pericolo di essere soggetti ad un processo di “ aliénation” , gli individui che non vivono nella loro terra di origine, cercano di trovare una propria dimensione in cui difendersi dall’influenza altrui. Talvolta, però, la paura di perdere la propria identità culturale porta ad un’estrema ( e dannosa ) chiusura verso l’altro.
Alle regole imposte dall’esterno iniziano a configurarsi altre norme. Sovente ancor più restrittive, queste appaiono però indispensabili poiché rafforzano e garantiscono la continuità del nuovo universo in cui si desidera vivere. La tradizione e, in alcuni casi, la religione assumono una posizione determinante nell’ambito delle decisioni riguardanti l’agire quotidiano ed arrivano fino a divenire più importanti ed influenti anche della famiglia: “Lo sceicco non l’ha detto così tanto per dire, ma c’ha messo il cuore, a dire il vero stava provando che la mia teoria sugli alberi senza radici me coi rami che comunque crescono è una stronzata, e quando ci segano il ramo che ci siamo sopra, che resta? Le radici, ma quelle vere. Al di là della tua famiglia assurda e dei tuoi amici bastardi qual è l’unico legame che conta davvero? Quello con il tuo Creatore, fratello, e che Lui abbia creato te o tu abbia creato Lui non cambia niente della questione, visto che adesso Lui c’è, e prova un po’ a farLo sloggiare.” (18)
Un’eccessiva osservanza dei principi stabiliti e la conseguente intransigenza morale non comportano solamente il possesso di solidi punti di riferimento, ma una nuova forma di limitazione di libertà. Se prima l’individuo si sentiva costretto ad attenersi le imposizioni sociali, ora è obbligato a rispettare i divieti famigliari. La crescita e lo sviluppo personali si rivelano di difficile attuazione : non si hanno responsabilità, ne si possono commettere degli errori, dal momento che le decisioni non nascono da una serie di riflessioni individuali, ma sono il prodotto di una scelta compiuta dalla comunità di appartenenza.
Tuttavia il desiderio di non soccombere alla cultura dell’altro e di mantenere un forte legame con le proprie origini può essere esaudito anche senza un isolamento totale.
La consapevolezza di appartenere ad un particolare mondo non presuppone un distacco dal resto; non implica la decisione di vivere in un presente senza imprevisti, né novità e neppure cambiamenti poiché ogni elemento è già stato ordinato, ogni evento stabilito e ogni persona decisa: il presente non è ( e soprattutto non deve esserlo) una fedele copia del passato.
In particolare in una condizione di immigrazione, l’individuo non può pensare di vivere una realtà identica a quella dei suoi avi. Il contesto in cui si trova, si rivela diverso da quello dei suoi antenati: mutano le situazioni geografiche, storiche e politiche; cambiano i doveri sociali e gli obblighi personali; dei nuovi bisogni si sostituiscono ai vecchi.
Ma i principi e i valori, che sono stati tramandati dalle generazioni e che costituiscono le componenti costituenti della stessa identità famigliare, possono essere recuperati e seguiti con il medesimo rispetto. Ed è per questo motivo che il passato non deve essere dimenticato, considerato come un’entità autonoma rispetto al presente, ma come un imprescindibile elemento costitutivo di quest’ultimo.
La conoscenza degli avvenimenti che maggiormente hanno determinato il destino della propria famiglia permette quindi l’acquisizione di una memoria famigliare indispensabile per lo sviluppo dell’identità personale. Infatti , riportare alla luce storie lontane nel tempo, non solo si traduce in un arricchimento di conoscenza e di coscienza del presente attraverso la scoperta del passato, ma diviene anche un importante momento di autoanalisi e di ricerca personale. Grazie alla consapevolezza delle proprie origini e una conseguente maggiore conoscenza di sé, l’individuo può vivere nel nuovo paese senza essere obbligato a compiere una scelta tra due universi (quello sociale e quello famigliare e/o comunitario) che lo circondano.
Egli può padroneggiare due lingue (quella materna e quella seconda), conoscere due sistemi di valori e capire il funzionamento di due sistemi mentali. Di conseguenza, sperimenta una sensazione di molteplicità culturale e possiede una coscienza multilinguistica: vive quell’eterogeneità pensata e teorizzata da Bakthine. (19)
Ma, diversamente da quanto pensava lo studioso, in questo preciso caso, l’alterità non comporta un sentimento di estraneità causato dalla mancanza di una certa continuità ed unità. Il soggetto, infatti, ha trovato nelle sue origini e nella memoria famigliare dei solidi punti di riferimento capaci di durare nel tempo e di aiutarlo ad affrontare i problemi.
E forse, solo in questo momento, il lungo viaggio che ha intrapreso quando ha abbandonato la sua terra, può finalmente terminare.

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(1)Maalouf, Origines, ed. Grasset, 2004, p . 9
(2) E. Glissant , Introduction à une poétique du divers, ed. Gallimard, 1996 p. 60
(3) J. De Rosiers, Théories Caraïbes , ed. Triptyque, 1996, p. 77
(4) Blandiaux, Parachuté dans le passé, in DH 26 ottobre 2001
(5) R. Robin, Le roman mémoriel, ed. Le Préambule, 1989, p.52
(6) Maalouf, Origines, ed. Grasset, 2004, p . 24
(7) ibid, p 400
(8) Nina Bouraoui, Una vita di sguardi, ed. Feltrinelli, 1993, p. 104
(9) Y. Mechakra , La grotte éclatée , ed. Enal, 1986, p. 8
(10) K. Mourad, De la part de la princesse morte, ed. le livre de poche, 1987, p. 300
(11) Y. Benmiloud, Allah superstar , ed. Einaudi, 2004, p.123
(12) F. Mernissi, La terrazza proibita, ed. Giunti, 1994 , p. 92
(13) G. Pineau, L’exil selon Julia, ed. Stock, 1996, p. 110
(14) Khalid Boudou , Il paradiso della cotoletta, ed. Garzanti, 2004, p. 77
(15) Y. Benmiloud, Allah superstar , ed. Einaudi, 2004, p. 42
(16) K. Mourad, De la part de la princesse morte, ed. le livre de poche, 1987, p. 501
(17) J. Corzani, La littérature d’expression française, in Europe, aprile 1980
(18) Y. Benmiloud, Allah superstar , ed. Einaudi, 2004, p. 92
(19) M. Bakthine, Esthétique et théorie du roman, Paris, 1978

(c) Francesca Fava

 
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