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Le riviste letterarie non hanno
ragione di esistere... però ci sono

Ovvero: Due o tre cose che ho scoperto
sulle riviste letterarie italiane

A cura di Marco R. Capelli


Devo ammetterlo, quando mi è stato suggerito di scrivere questo articolo ho subito pensato si trattasse di una cosa piuttosto semplice: un salto in emeroteca, un paio d’ore a battere sulla tastiera. Invece, le cose si sono complicate quasi subito. Il dubbio, poi, di avere a che fare con un iceberg (un terzo emerso... e due terzi sotto la superficie) mi è venuto quando ho scoperto come la facoltà di Lingue e Culture di Verona preveda addirittura un esame di “Storia delle riviste letterarie”.
In questi casi, la cosa migliore è armarsi di pazienza e cominciare dall’inizio. Così ho messo mano al fedele Dizionario Enciclopedico Sansoni che recita più o meno così:

Rivista letteraria: Pubblicazione periodica che si distingue dai giornali quotidiani per il formato, la periodicità (settimanale, quindicinale, mensile etc.) e lo scopo diretto alla trattazione più o meno esauriente di un argomento di carattere letterario, politico o filosofico. (...)

Apparentemente il primo periodico che si sia occupato esclusivamente di letteratura, cioè la prima vera rivista letteraria, fu fondato in Francia da Theophraste Renaudot nel 1633 (e continuò a pubblicare fino al 1642). I primi però a presentare recensioni di libri furono i redattori del Journal des Savants fondato da Denis de Sallo nel 1665. Uno dei periodici più longevi in assoluto, dato che continua a uscire regolarmente a cura dell’Accademia di Francia. L’Italia sarebbe arrivata qualche anno dopo, e più precisamente nel 1668, anno in cui l’abate Francesco Nazzari fondò a Roma il Giornale de Letterati. Molto più rappresentativa è però la Galleria di Minerva, (Roma 1717) nata con lo scopo di dare notizia “di quanto è stato scritto dai letterati di Europa, non solo nel presente secolo ma anche nei secoli trascorsi in qualunque materia sacra e profana”. A dir poco ambizioso!

Il secolo dei lumi fu prodigo di riviste letterarie, destinate, ciascuna, alla diffusione delle idee di un gruppo di intellettuali. Intellettuali che erano soliti riunirsi in quelle botteghe destinate alla vendita del caffè che erano allora una vera e propria novità in Europa. Come a dire che riviste letterarie e caffè letterari sono nati assieme. Del resto i locali nei quali si serve il caffè segnano la fine della taverna, tra "il tramonto della civiltà del vino, fatta di deliri, ebbrezze, invasamenti, e l'inizio della civiltà del caffè, fatta di riflessione, meditazione, chiarezza di idee". Non a caso proprio Il Caffè è il nome del periodico più importante e prestigioso della cultura illuministica italiana, nato a Milano nel 1764 a opera di Piero Verri e del gruppo di intellettuali (tra i quali Cesare Beccaria) che si incontrava all'Accademia dei Pugni.

Con il nuovo secolo cambiano i gusti dei lettori ma, soprattutto, cambiano i lettori. L’alfabetizzazione raggiunge infatti ampie fasce di popolazione (relativamente parlando) trasformando la lettura nel passatempo favorito di una borghesia un po’ annoiata che cerca tra le pagine dei libri - più che i sofismi dello stile – i brividi dell’avventura e dell’intrigo amoroso. Siamo nel secolo del romanzo e dei romanzieri, da Scott a Manzoni, da Dumas a Balzac, da Tolstoj a Flaubert. Quando le navi che portavano i libri di Alexandre Dumas(1802-1870) oltreoceano attraccavano nei porti di San Francisco o Nuova York, trovavano ad attenderli folle di lettori che, per acquistare una copia in anteprima, non avevano esitato a dormire sulle banchine per giorni e giorni. Dumas stesso, poi, era così popolare da non poter passeggiare per strada senza essere importunato da qualche ammiratore. Un po’ quel che succede oggi quando passa una star del cinema o un calciatore. Ebbene, moltissimi di questi romanzi venivano pubblicati a puntate, o come appendice di pubblicazioni di cronaca o all’interno di vere e proprie riviste, diffusissime in tutta Europa (ma specialmente in Francia ed in Italia). Il Regno di Sardegna, in particolare, conosce una impressionante proliferazione di riviste a partire dal 1847 (anno dell’Editto sulla libertà di Stampa), riviste che, inevitabilmente nella tensione di quegli anni, mescolano politica e letteratura. Dallo sfortunato Silvio Pellico in poi, non sono pochi i patrioti-scrittori che giocano le loro sorti sulle pagine di una rivista letteraria.

Tra le riviste dell’ottocento, troppe per raccapezzarcisi (ma il secolo XX sarà anche peggio, cioè... meglio!) possiamo limitarci a citare la Edimburgh Review fondata nel 1802 da Walter Scott (che però se ne stancò abbastanza presto) e, in casa nostra, Nuova Antologia, fondata nel 1866 a Pisa da Francesco Protonotari. Tutti gli scrittori e gli uomini politici dell’epoca vi scrissero, compresi De Sanctis, Carducci, De Amicis, Verga, Panzini, Fogazzaro, D’Annunzio e Pascoli.

E’ però dall’America del Nord che arriva una grande novità: la stampa popolare a larga diffusione. Negli Stati Uniti al termine della guerra di Secessione l’alfabetizzazione di massa genera due importantissime conseguenze: la nascita di una letteratura popolare in senso stretto, caratterizzata da narrazioni brevi e destinate a produrre forti emozioni, e quella delle riviste a grande tiratura, gestite non più a livello amatoriale ma come un vero e proprio business editoriale. Con forti investimenti e campagne pubblicitarie sistematiche e mirate. A cavallo tra i due secoli, fanno la loro comparsa pubblicazioni come The all-story (1905-1920), che raggiungono tirature superiori alle centomila copie e pubblicano, rigorosamente a puntate, opere di autori come E.R.Burroughs, Mark Twain e H.G.Wells. Da qui ai pulp, le riviste popolari stampate in grande tiratura su carta economica (di polpa, appunto) che contenevano in genere (ma non sempre!) storie di bassa qualità, il passo è breve.

Ovviamente, in queste condizioni, si accentua la spaccatura fra la rivista “colta” - e quindi elitaria - e la rivista popolare. Le riviste pulp raggiungono il loro apice negli anni ’30 del novecento. Sulle pagine di Amazing Stories di Gernsback (che proprio pulp non era) prende vita nel 1926 la fantascienza moderna. Vi scriveranno autori come Hamilton, Leinster, Heinlein e Van Vogt. Poi verranno Wonder Tales, Astounding stories of super-science, Amazing Tales e tutte le altre.
H.P. Lovecraft, che visse povero e semisconosciuto a Providence per poi, da morto, trasformarsi in un classico della letteratura macabra e fantascientifica, pubblicò esclusivamente su queste riviste. E fu egli stesso più volte presidente dell’associazione della stampa amatoriale (campo quanto mai vasto e insidioso!).
L’apice della gloria del pulp coinciderà, come capita spesso, con l’inizio della caduta. Perché proprio negli anni ’30 si vanno diffondendo negli USA due nuovissimi metodi di intrattenimento, destinati fin da subito a calamitare l’attenzione di migliaia di potenziali lettori: la radio e il cinema sonoro. Già alla fine degli anni trenta negli states andavano in onda decine di radiodrammi, detti soap operas perché quasi sempre destinati alle casalinghe e sponsorizzati da aziende che producevano prodotti per la pulizia della casa. Le ultime pulp chiusero i battenti all’inizio degli anni ’50, nel disinteresse generale, mentre Hollywood viveva forse la fase di massimo splendore e la televisione entrava a far parte del sogno americano.
Le altre riviste, quelle letterarie in senso stretto passarono oltre, un po’ sdegnose, attraversando indenni, proprio per la loro natura elitaria, la nascita della comunicazione di massa.

In Italia (ed in Europa in generale) però le cose erano andate in modo assai differente. La povertà diffusa, il basso tasso di alfabetizzazione, e forse anche la natura poco imprenditoriale degli editori di casa nostra, non permisero mai la nascita di prodotti destinati alla vendita su larga scala come negli Stati Uniti. Le riviste letterarie restavano confinate in ambiti ristretti, oscillanti fra la critica e la produzione sperimentale.

Proprio per questo, la storia letteraria del ‘900 può essere rivissuta attraverso le riviste letterarie che, dei vari movimenti, furono di volta in volta l’espressione e la palestra. Dal decadentismo (Convito, 1895 – Il Marzocco (1896)), al Futurismo (Italia Futurista (1916-1918)- Il regno (1903-1905)), al Socialismo (Cultura Sociale (1898-1906), Energie Nove di Pietro Gobetti(1918-1920)). Tutte le correnti letterarie e politiche (le due cose sono difficilmente scindibili in tempi difficili) hanno avuto in una rivista letteraria la loro espressione.

Tenere il conto è pressoché impossibile. Ci si prova Benedetto Croce con la sua “Critica Letteraria”, rivista (appunto) da lui fondata (1902), diretta e in gran parte scritta che, super partes o quasi, continuerà a raccontare l’evoluzione della scena letteraria italiana, tra polemiche e attacchi, per quasi un cinquantennio (l’ultimo numero è del 1951).

L’arrivo del fascismo complica le cose, dato che le riviste letterarie finiscono col dividersi in tre gruppi: quelle a favore (Gerarchia 1920-1940, Critica fascista 1923-1943), quelle contro (poche... e maltrattate) e quelle che, barcamenandosi come possono, cercano di parlare solo di letteratura.

Poi fu la guerra. E, dopo la guerra, la presa di coscienza, drammatica, della nostra miseria. Sono anni difficili, con un paese a pezzi da ricostruire, questo non impedisce però la nascita di riviste letterarie come Il Politecnico. Uno tra i più famosi settimanali che uscirono nell'immediato dopoguerra e nei primi anni della ricostruzione. Il primo numero apparve il 29 settembre 1945 a Milano, edito da Einaudi e il suo fondatore fu Elio Vittorini.
Ogni numero, che nei primi tempi veniva incollato sui muri di Milano come “giornale murale”, presentava accanto ad articoli di politica, storia, economia, critica d'arte, filosofia, inchieste e “provocazioni culturali” anche testi poetici e narrativi sia italiani che stranieri con le nuove traduzioni da Hemingway, Majakovskij, Boris Pasternak, Bertold Brecht, Block, Wright.

Altra rivista “di neoavanguardia” degli anni ’50 è Il Verri. Rivista letteraria trimestrale fondata a Milano nel 1956 da Luciano Anceschi. Tra i suoi collaboratori Nanni Balestrini, Antonio Porta, Giuseppe Pontiggia e altri giovani intellettuali che erano soliti incontrarsi al caffè "Verri" a Milano.

Gli anni che seguono sono tutto un proliferare di riviste letterarie, le riviste d’avanguardia degli anni ’60, quelle di contestazione del ’68 (esattamente come centoventi anni prima, nel 1848!), quelle dedicate alla cultura pop e alla musica negli anni ’70. La catalogazione è quasi impossibile3, anche limitandosi a quelle che sono le riviste “vere”, quelle cioè stampate e distribuite in non meno di qualche centinaio di copie. Se poi ci si addentra nei meandri delle pubblicazioni amatoriali o semi-amatoriali, giù fino alle fanzine, l’operazione diventa irragionevole.
Del resto, “Rimangono bensì memorande alcune riviste (...) ma esse tutte consumarono con vorace fiammata, in un anno o poco oltre, la loro vita, o , semmai la proseguirono oltre, serbarono il primitivo titolo ma non il primitivo carattere”, per citare Benedetto Croce.
Come a dire che le riviste letterarie nascono spontaneamente sotto la spinta di un bisogno di espressione che si esaurisce quando mutano i tempi o quando gli autori che hanno dato loro vita trovano altri canali d’espressione.

Oggi... oggi, da più parti, si sente dire che le riviste letterarie non hanno più ragione d’esistere.
Mancano le motivazioni “programmatiche”, dicono. Cioè non esistono più riviste che siano portavoce di una corrente letteraria (forse non esistono più le correnti letterarie...). Mancano i lettori, nonostante l’alfabetizzazione prossima al cento per cento, il numero assoluto di lettori continua a diminuire e non sono rari, per nulla, gli adulti che si vantano di non aver mai letto in vita loro un libro. Intendiamoci, anche in un mondo reso paradossalmente sordo dall’eccesso di informazione, l’arte di raccontare storie è più viva che mai. Quello che è cambiato è il modo di farlo. Le poesie diventano canzoni, i romanzi pellicole cinematografiche, fumetti... o videogiochi. Niente di male, anche la fotografia, affiancandosi alla pittura, ha stroncato la carriera dei ritrattisti ma non ha cancellato l’arte di dipingere.

E poi, le riviste letterarie non vendono. Le edicole sono sovraffollate, le librerie disertate, gli abbonamenti postali inaffidabili e costosi.

Siamo giunti alla fine di un’epoca, quindi?
Dopo tre secoli di storia gloriosa, dobbiamo rinunciare alle riviste letterarie, forse per sempre?

Nulla di tutto questo!

Ho tentato un piccolo censimento delle riviste letterarie attualmente in circolazione in Italia, ne ho contate una settantina. Limitandomi a quelle “professionali”, registrate in tribunale, stampate in tirature discrete e con cadenza regolare ed escludendo le pubblicazioni amatoriali e quelle (sempre più diffuse) esclusivamente “on line” (dove pure, a volte, si trova materiale sorprendentemente buono). Ed è certamente, una stima per difetto.

La domanda sorge spontanea, a cosa servono oggi le riviste letterarie?

Antonio Pascale, nel suo libro “Best Off Il meglio delle riviste letterarie italiane” (MinimumFax 2005) suggerisce questa divertente risposta:

a)Le riviste letterarie sono formate da persone che amano la letteratura e vorrebbero vedere pubblicate solo le cose che come lettori amano leggere;
b)Sono formate da persone non sempre sane di mente, perse dietro la letteratura peggio dei cinefili (...);
c)Sono formate da persone che è bene che facciano i direttori di riviste perché quando provano a scrivere non gli viene tanto bene. Però sono bravi a scoprire talenti;(...)
d)Sono formate da persone che dopo qualche anno formano un gruppo di riferimento e diventano autoreferenziali;
e)Conseguente alla d)... Sono formate da persone che non leggono le altre riviste neanche sotto tortura;

Sono osservazioni molto interessanti, oltrechè spiritose, cui però io premetterei una divisione in tre grandi gruppi:

Riviste “storiche”, cioè quelle serissime e accademiche la cui attività prosegue da mezzo secolo o giù di lì. Appannaggio esclusivo degli accademici. Ora, gli accademici sono purtroppo un po’ sdegnosi e come tale, incapaci di vedere quel che sta succedendo sotto al loro naso. In genere si accorgono dei cambiamenti solo quando qualcuno, che con la letteratura non c’entra nulla, va a dirglielo in un orecchio.
Riviste subordinate all’attività di un editore/agenzia letteraria (a loro volta divisibili in grandi e piccoli editori). E parliamo di riviste cone Prospektiva, R-notes dell’editore Rubbettino o, ancora, Il segnalibro dell’agenzia letteraria omonima o la defunta “F” di Feltrinelli. Sono in genere buone riviste, con il solo difetto (relativamente parlando) di pubblicare quasi esclusivamente i lavori del proprio parco autori.
Riviste “indipendenti”.

Nel terzo gruppo, cui si applicano perfettamente le definizioni date da Pascale, si nascondono le sorprese più interessanti. Sono quasi sempre riviste fondate da appassionati. A volte nascono dietro iniziativa di un singolo, a volte di un gruppo. Il primo problema con cui devono confrontarsi è quello economico, e non è un ostacolo da poco, poi ci sono la difficoltà di farsi notare, quella di mantenere costante il livello del materiale presentato e l’inevitabile scoramento che prende quando infine ci si rende conto di quale sproporzione ci sia tra la fatica e la ricompensa. Se, per una fortunata serie di coincidenze, vuoi per l’abilità del direttore o dell’editore, per l’apporto costante di nuove energie o per l’affiancamento alla rivista di una attività editoriale che sia in grado di sostenerla economicamente, questi problemi vengono superati, ecco che siamo in presenza di una rivista che, in qualche modo, lascerà il segno.

Intendiamoci, resteranno in ogni caso prodotti “marginali”, su cui nessun grande editore, pur osservandole incuriosito, investirebbe una lira.
Eppure, proprio al loro essere fuori, inteso come “fuori dalle logiche del marketing e del mercato”, queste riviste devono la loro assoluta libertà d’espressione. Libertà che si trasferisce agli autori i quali, proprio perché liberi, riescono a dare il meglio di sé, producendo saggi, articoli, racconti che non avrebbero altra possibilità di essere pubblicati ma che la pubblicazione la meriterebbero. Eccome.
D’altra parte i grandi quotidiani (che sono, dopo i libri, l’altro macro contenitore della cultura letteraria, anche se la terza pagina ormai l’hanno spostata vicino ai necrologi... un segno dei tempi?) sono per la natura del loro pubblico costretti a fornire una biblioteca di base, mentre chi pubblica e chi legge le riviste letterarie può concedersi il lusso di dissentire, polemizzare. Pensare.
E’ una sorta di zona franca dove prendono forma i talenti dei giovani scrittori. Non ci credete? Provate a chiedere a uno scrittore famoso come ha incominciato. a uno qualsiasi. Sono certo che vi dirà “pubblicando su una rivista letteraria!”.

Allora, proviamo a citarne alcune. Così, come se fosse un gioco: io le elenco e voi provate a cercarle in librerie e biblioteche. E non vogliatemene se, inevitabilmente, per mia ignoranza, mancherò di citarne alcune degnissime e, magari, mi soffermerò su altre che a voi piacciono poco o nulla.

Partiamo da Prospektiva, robusta rivista arrivata al sesto anno di attività e diretta da Andrea Giannasi, nonchè organo ufficiale della Prospettiva Editrice. Il materiale è sempre ben curato, ben rifinito, discretamente editato. La presentazione è essenziale e senza fronzoli, una scelta editoriale precisa anche se, a volte, un po’ autolimitante. Qualcosa sta cambiando, però, e l’arrivo in redazione del bravo Piergiorgio Leaci non mancherà di portare novità. Se da Civitavecchia risaliamo la costa fino a Piombino, incontriamo Il Foglio Letterario, fondato e diretto da Gordiano Lupi, scrittore e polemista (o, forse, polemico scrittore...). Il foglio, all’opposto de Prospektiva, ha l’abitudine di cambiare spesso graficamente e contenutisticamente. L’anno scorso, dopo la fusione con Lo specchio di Medusa aveva inaugurato una nuova linea editoriale, decisamente horror-trash (nell’accezione positiva, cioè non spregiativa, del termine!) e una nuova veste grafica in grande formato veramente accattivante. Anche se l’ultimo numero ha ripreso il meno appariscente formato “libro”, rimane comunque una rivista molto interessante, per gli appassionati del genere, soprattutto per l’estrema libertà di cui godono gli autori e la loro capacità di sperimentare e stupire.
Molto più raffinata (ed un po’ elitaria) Ellin Selae di Franco Del Moro, bonaria ma compita Fernandel, diretta da Cristina Ventrucci e Giorgio Pozzi. Anche Fernandel esce ormai da otto anni e ha affiancato alla rivista una buona produzione editoriale, selezionata e ben curata.
Maltese Narrazioni, diretta da Marcello Baraghini , è una eccezione. La rivista è sì interessante, ma non eccessivamente originale, eppure (grazie anche al sito internet) è riuscita a raccogliere attorno a sé un gruppo attivissimo di lettori fedeli e costanti che danno vita a dibattiti spesso di notevole spessore.

Mostro (Direttore Editoriale Marzio Fatucchi) è un’altra cosa. Al di là dei testi che pubblica (che sono sempre di elevata qualità), Mostro è... bella. E’ una piccola opera d’arte grafica, dalla copertina all’ultima pagina, dove letteratura e arte visiva si compenetrano e si integrano.

Ne citiamo qualche altra? C’è la Biblioteca di Babele, Caffè Michelangelo, Il foglio clandestino (che pubblica “ogni notizia che possa contribuire a sviluppare la conoscenza del mondo letterario” ), Il laboratorio del segnalibro (organo ufficiale dell’agenzia letteraria omonima).

Poi ci sono Inchiostro, di Gianpiero Dalle Molle, che è una buona rivista tagliata, decisamente, sull’intrattenimento e Strane storie di Paolo Canfora che ha un’impostazione simile ma orientata verso il macabro e il fantastico.

Paginazero diretta da Ilaria Prati e Mauro Daltin è, al contrario, un appuntamento trimestrale con il giornalismo letterario vecchio stile. Con un occhio sempre rivolto alla letteratura istriana e slava (la collocazione geografica lo impone), presenta regolarmente interventi di ottimi scrittori tra cui Tullio Avoledo.

Futuro Europa, invece, è un anacronismo. Forse l’ultima delle grandi riviste di fantascienza italiana, diretta e fondata da Ugo Malaguti, continua cocciutamente ad uscire – trimestralmente ed in formato libro - per i tipi della Perseo Editore, nonostante le gravi difficoltà economiche in cui si trova.

Sempre in tema di fantascienza, non è possibile non citare Robot, storica rivista degli anni settanta (per molti la migliore mai pubblicata) oggi risorta per volontà di Delos Books. La continuità con la vecchia serie è assoluta, non solo alla guida della rivista troviamo ancora Vittorio Curtoni ma neppure la numerazione è stata interrotta ed il numero 41, uscito nel Gennaio 2003, segue idealmente il numero 40 del 1979.

Altre riviste, da cercare e da leggere sono senz’altro TAM TAM, Accattone, Il caffè illustrato, Nuovi Argomenti e Una città, ciascuna peculiare e fortemente caratterizzata.

Noi, però, chiudiamo qui la nostra breve rassegna. E la chiudiamo con Poesia, rivista nata dalla passione di Nicola Crocetti, che esce in edicola ogni mese da ormai sedici anni, diffondendo inediti, nuove traduzioni e novità editoriali di autori famosi nel mondo.

Ah, sì, che distratto... fra tante ne ho dimenticata una: WMI. Ma se l’avete tra le mani, sono certo che ne sapete già più di me. e in caso contrario, non voglio gustarvi la sorpresa di leggervela con calma(1).

Mi sia concesso solo un commento finale: è molto interessante notare come tutte le riviste citate (e quelle dimenticate) siano in genere acquistabili solo per abbonamento o in libreria. Nessuna, a parte “Poesia”, che io sappia, arriva su quell’immenso palcoscenico costituito dalle trentacinquemila edicole italiane. Non ci sono riusciti neppure Alfredo Castelli e Pier Carpi quando nel 2004, a trentadue anni di distanza dalla prima fondazione, hanno tentato di resuscitare Horror, altra storica rivista degli anni ’70, con un numero zero rimasto purtroppo privo di seguito per lo scarsissimo esito economico.
Peccato. Viene da chiedersi se, mettendo in copertina il falso titolo de “Il grande fratello”, si potrebbe riprovare con maggior successo.
E chissà se qualcuno riconoscerebbe la citazione.

(c) Marco R. Capelli
marco_roberto_capelli@progettobabele.it

 

(1) Nota, questo articolo è stato pubblicato per la prima volta su WRITERS MAGAZINE ITALIA N.4

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