Discussione fra una profia e due giovani appassionati bukoskiani.
In Piemonte è valso l’uso di chiamare “profia” la professoressa d’italiano. È un termine talmente consolidato che le profie lo attribuiscono a se stesse. Come ogni alunno ben sa, la profia è tale a vita. La professoralità è una categoria morale, un’idea, di potenza pari alla zitellaggine che imbeve colei che la porta, come il rum imbeve il babà, al punto che profie lo si è a vita. La profia discute, argomenta, (non dialoga), e usa la sua arma preferita: la citazione. Meglio la citazione colta, rara, che spiazza l’alunno, poiché di fronte alla profia siamo tutti alunni, sempre, a vita. Ecco una profia sicura di sé, supponente, un po’ perbenista (anche se si atteggia a progressista) che discute con i suoi figli di Bukowski.
Vincenzo:
Non si può capire Bukowski se non si tiene conto della sua scarsa fortuna negli Stati Uniti. Lui è veramente la sua opera, anzi la sua opera è la chiave per arrivare a capire lui. Dunque se vuoi indagare e comprendere la sua opera devi cercare di capire perché è stato rifiutato dall’établissement statunitense e accettato come autore cult in Europa, soprattutto in Germania e in Italia.
La profia:
Un’indagine di questo tipo potrà dirci parecchio sulla cultura americana contemporanea e della seconda metà del novecento, quando Bukowski pubblicò le sue opere, e potrebbe essere oggetto di una ricerca storica- sociologica ma, forse, è un approccio piuttosto vecchio per arrivare a comprendere un autore. A me interessa come ha scritto e perché ha scritto quello che ha scritto, piuttosto del motivo che gli ha impedito di avere successo negli Stati Uniti.
Vincenzo:
Ma non capisci? Non vuoi capire? Tu sbagli, tu ritieni sempre che l’opera sia più importante dell’autore mentre alla fine dell’opera, anzi alla sua sorgente c’è l’uomo, c’è Bukowski.
La profia:
Ho studiato in un’epoca che aveva ripudiato lo studio romantico della letteratura, per dirla in soldoni quel tipo d’indagine che riteneva che “I Canti” di Leopardi fossero direttamente sgorgati dalla sua infelicità e dalla sua gobba. Il nostro critico di riferimento era Lukasc e la critica strutturalistica che privilegia l’analisi del testo.
Vincenzo:
È diverso: non è tanto ciò che Bukowsi scrive che nasce dalla sua esperienza di vita quanto la sua esperienza di vita che diventa la sua opera, come se Leopardi avesse cantato la sua gobba. Anche Beniamino Placido, nel giudizio critico apparso su Repubblica, dice: “… Bukowski fa irruzione con una cosa nuova. La cosa nuova è lui stesso, Charles Bukowski… “(1)
La profia:
Ho letto l’intervista di Fernanda Pivano “Charles Bukowski“ Quello che importa è grattarmi sotto le ascelle” (2) e mi è piaciuta, mi interessano i suoi giudizi, ma, sinceramente, mi interessa molto di più quello che ha scritto. Credo, che se fossi capace, se fossi brava, potrei capire perché la sua opera sia così potente, perché un autore che, in fondo, non racconta che di sé, sia così efficace.
Azzardo un’ipotesi: mi sembra che lui ben rappresenti lo spostamento della linea di demarcazione fra sfera pubblica e sfera privata che è avvenuta nel Novecento nel mondo occidentale. Jurgen Habermas in “Storia e critica dell’opinione pubblica”, 1974, Editori Laterza, Roma Bari, osserva che ogni epoca elabora una propria concezione di ciò che si debba ritenere privato (e di conseguenza indicibile) e di quanto si consideri pubblico. È significativo il romanzo “Panino al prosciutto”, 2002, Guanda editore, Parma. È l’autobiografia di Bukowski. Suo padre, che era un tedesco emigrato negli Stati Uniti quando Charles aveva due anni, nascondeva la propria condizione di disoccupato durante la Grande Depressione, fingendo di recarsi al lavoro ogni giorno, mentre il figlio racconterà la propria senza alcuna vergogna.
Francesco:
È un libro vecchio.
La profia:
Il libro di Habermas? Sì. È uscito in Germania nel 1962 ma è un grande libro. Non voglio dire che nessun altro prima di Bukowski non abbia trattato gli stessi temi. Sono gli stessi di “Chiedi alla polvere” di John Fante, la cui lettura convinse Bukowski che era possibile scrivere, e che, probabilmente, gli suggerì l’invenzione di un alter ego. Fante crea Arturo Bandini, Bukowski crea Henry Chinaski. Direi che è l’intensità ad essere diversa e anche il grado di sovraesposizione, d’iperrealismo. Il dipinto di Edward Hopper, Nighhawks (Nottambuli )del 1942 ben rappresentaquesto stile, la straordinaria, maniacale precisione di Bukowski, la cura nel tentare e ritentare di descrivere lo stesso ambiente, gli stessi personaggi per avvicinarsi, quanto più possibile alla sua realtà. (3)
Vincenzo:
Su Bukowski c’è un equivoco: molti lo hanno assimilato, pensando che ne faccia parte, al gruppo beat e, nello specifico, a William Burroughs, quello de “Il pasto nudo” e altri. Intendo Jack Kerouac, Allen Ginsberg, Gregory Corso, ma soprattutto Burroughs, mentre lui non c’entra niente con costoro. In realtà erano di un’altra classe sociale, erano colti, potevano scegliere il lavoro. Scelgono la strada, l’acool e la droga, come rivolta contro la società borghese. Vogliono sperimentare. Kerouac va a vivere nel capanno fra i boschi di Ferlinghetti per scrivere “Big Sur” per sperimentare la vita naturale come Walt Whitman, come gli impressionisti andavano nei dintorni di Parigi per sperimentare la vita all’aria aperta restando profondamente cittadini, intellettuali e borghesi. Bukowski invece non sceglie la vita e i mestieri del sottoproletario. Non riesce ad uscirne, non può farne a meno. Sente tutto l’orrore dei lavori a tempo e soprattutto l’intollerabilità della truffa della promessa americana. È questo che i lettori americani non gli perdonano.
La profia:
Non penso sia solamente un problema di autenticità. Sarebbe veramente riduttivo pensare a questo.
Vincenzo:
Sicuramente.
La profia:
È ancora il vecchio equivoco per cui diciamo che un testo è più potente perché rappresenta il vero mentre è meno potente perché è inventato. Vero e verosimile. Un fatto, un evento storico può apparire inverosimile nel racconto e viceversa. Come acutamente osserva Walter Benjamin in “Angelus Novus” (4) è il sorgere e l’affermarsi dell’epoca dell’Informazione che ha scalzato la Narrazione ad aver fatto diventare essenziale la veridicità di quanto narrato. Il narratore antico cercava piuttosto il meraviglioso.
Vincenzo:
Ma la ragione dell’insuccesso di Bukowski negli Stati Uniti è legata alla sua autenticità. Non gli perdonano d’essere quello che è, di fregarsene del patriottismo, di aver scritto:
“La differenza tra Democrazia e Dittatura è che in Democrazia prima si vota e poi si prendono ordini; in una Dittatura non c’è bisogno di sprecare il tempo andando a votare." (5)
C’è ancora molto astio nei suoi confronti e odio verso noi europei che lo consideriamo un grande. Non ci perdonano di apprezzare uno scrittore che ha fatto a pezzi il patriottismo, che considera una truffa il sogno americano. Non gli perdonano d’essere americano.
La profia:
Solo un americano, della nazione più potente del mondo, da quella posizione, poteva scrivere così.
È molto forte in lui la sensazione di essere stato truffato. Lui è all’interno del meccanismo. Non nasconde di sé i lati peggiori, non li addolcisce. Non dice: “Non ho un buon lavoro perché non sono stato alle regole”, oppure “Per avere un buon lavoro occorre diventare schiavi, vendere se stessi”. Allora l’America ti darà un lavoro sicuro, forse. In “Post Office” dice il contrario: riporta il regolamento e segue le statistiche di tutti quelli che erano stati assunti con lui alle Poste. Pochissimi sono rimasti in servizio. Per questo il servizio postale continua ad assumere tutti quelli che fanno domanda.
“Quegli undici anni mi passarono nel cervello in un lampo. Avevo visto uomini distrutti da quel lavoro. Si erano liquefatti. C’era stato Jmmy Potts della Dorsey Station. Quando ero arrivato io, Jmmy era un tipo robusto in maglietta bianca. Ora era finito. Abbassava lo sgabello più che poteva e si teneva con i piedi per non cadere. Era troppo stanco per farsi tagliare i capelli e portava lo stesso paio di pantaloni da 3 anni. Cambiava la camicia due volte alla settimana e camminava molto piano. Ancora 7 prima della pensione.
“Non ce la farò mai”, mi aveva detto.
O si liquefacevano o diventavano grassi, enormi, mettevano su certi culi, e certe pance. Era lo sgabello, e sempre gli stessi movimenti e sempre le stesse chiacchiere." (6)
Francesco:
Avete letto il racconto dei due scrittori falliti? Ah, ah, ah, è troppo divertente:
“Beh, Harold, l’ho visto, quel figlio di puttana. Mi ha concesso un incontro.”
Harold sollevò la tazza a mezza strada verso la bocca, e si fermò.
“Fottowski?” chiese.
Era così che loro chiamavano quel certo scrittore.
“Già.”
Harold prese un sorso di caffè e posò la tazza.
“Pensavo che non vedesse più nessuno, no?”
Stai scherzando? Vede praticamente tutte le donne che gli scrivono o che gli telefonano. Cerca di farle ubriacare, fa un sacco di promesse, dice bugie. Gli salta addosso e se quelle non ci stanno le stupra.”
“E lui, come lo giustifica tutto questo?”
“Sostiene che ha bisogno di qualcosa su cui scrivere.”
“Brutto vecchio porco cazzone.”
Per un poco, rimasero a pensare al vecchio porco cazzone. (7)
Ah, ah, ah!
Il racconto s’intitola “Scrittori”. Bukowski mette alla berlina due scribacchini falliti prendendo in giro ferocemente se stesso, usando le peggiori calunnie che circolavano sul suo conto.
Sentite:
“Non ha un cazzo di classe.”
“Neanche un pizzico.”
Di nuovo osservarono un momentaneo silenzio.
Poi Harold sospirò:
“Non sa scrivere, Nelson.”
“Ed è anche un ignorante, Harold.”
“Maleducato e ignorante, Nelson.”
“Un cazzaro. Proprio un cazzaro. Lo odio." (8)
È molto spiritoso. I due scrittori falliti e supponenti che si fanno mantenere dalle madri o dalle fidanzate, piagnucolosi e indulgenti verso se stessi, sono irresistibili.
Vincenzo:
I personaggi di Bukowski hanno la forza che nasce dall’assenza di sottigliezze psicologiche.(9)
Prendete ad esempio il racconto: “Il demonio” (10) . Il tema è quello affrontato nel nono capitolo dei “Demoni” di Dostojiewski, ciò dell’adulto che violenta una bambina. Bukowshi era un grande ammiratore di Dostojiewski che leggeva e rileggeva. Il progetto è ambizioso: mentre nel nono capitolo dei “Demoni” il principe racconta il suo delitto al santo monaco, qui Bukowski lo rappresenta mentre avviene e lo fa commentare da due ragazzini che vi assistono. Mentre Stavrògin commette il suo delitto per noia, Bukowski non cerca un motivo. Il suo protagonista Martin Blanchard agisce spinto da una forza irresistibile che improvvisamente lo abbandona, lasciandolo solo e inerme ad aspettare la polizia.
Francesco:
È uno dei primi racconti quando ancora scriveva per le riviste underground e sfornava cose strane, demenziali. Io preferisco i racconti scritti quando aveva già avuto successo. Il benessere gli aveva fatto bene: Bukowski acquista fluidità mentre resta intatta l’autoironia. Non diventa mai sciatto. Non avrebbe approvato le vostre letture critiche: pensava che parlare di letteratura per ore fosse da pazzi e da sfigati.
La profia:
Un po’ si atteggiava. Sosteneva che a parte Dreiser, Thomas Wolfe fosse proprio il peggiore scrittore mai nato in America. Studiava Dostoevskij e ascoltava Mahler. Riteneva che Faulkner fosse uno zero. Ammetteva di amare Hemingway anche se sosteneva di essere un’altra cosa.
Francesco:
Per me il suo libro migliore resta “Post Office”. Descrive una società in cui il posto di lavoro non è mai sicuro, in cui si può lavorare per dodici anni per la stessa azienda senza mai essere assunti dalla stessa. Il romanzo è del 1971 e a rileggerlo suona profetico. Tu non lo avresti mai letto se noi non avessimo insistito. Hai tenuto “Pulp” sul comodino per mesi.
La profia:
Quando ho aperto “Post Office”me ne sono innamorata. L’incipit è il memorandum 742 del 1 gennaio 1970 delle Poste degli Stati Uniti di Los Angeles, California che riguarda le regole di comportamento dei dipendenti. Mi ha fatto ricordare le “Grida” manzoniane, cioè gli editti secenteschi emanati per eliminare i bravi e la cui promulgazione periodica ne testimonia invece la presenza.
Note
1 “Rispetto alla tradizione americana si sente che Bukowski realizza uno scarto, ed è uno scarto significativo. In questa scrittura molto “letteraria”, ripetitiva, sostanzialmente prevedibile, Bukowski fa irruzione con una cosa nuova. La cosa nuova è lui stesso, Charles Bukowski. Lui che ha cinquant’anni (al tempo in cui scrive questi racconti, attorno al ’70), le tasche vuote, lo stomaco devastato, il sesso perennemente in furore, lui che soffre di emorragie e di insonnia, lui che ama il vecchio Hemingway, lui che passa le giornate cercando di racimolare qualche vincita alle corse dei cavalli; lui che ci sta per salutare adesso perché ha visto una gonna sollevarsi sulle gambe di una donna, lì su quella panchina del parco… Lui, Charles Bukowski, ‘forse un genio, forse un barbone.’ Anzi, io Charles Bukowski, detto gambe di elefante, il fallito, ‘perché questi racconti sono sempre, rigorosamente, in prima persona. E in presa diretta“
2 Beniamino Placido nel giudizio critico apparso su Repubblica e riportato nella quarta di copertina dell’edizione del 1994 di “Storie di ordinaria follia” dell’Universale Economica Ferltrinelli.
3 Fernanda Pivano “Charles Bukowski “Quello che importa è grattarmi sotto le ascelle” Universale Economica Ferltrinelli, Milano 2003
4 “E il significato della vita è giusto il centro intorno a cui ruota il romanzo. Ma la ricerca di questo significato non è che l’espressione immediata dello smarrimento con cui il lettore si vede inserito in questa vita determinata.” .” Da Walter Benjamin “Angelus Novus” Einaudi tascabili, Torino 1995, pag. 264
5 Walter Benjamin in “Angelus Novus” Einaudi tascabili, Torino 1995, pag. 247 e seguenti nel saggio “Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov”
6 Charles Bukowski “Compagno di sbronze” Universale Economica Feltrinelli, Milano 2004, pag.54
7 Da Charles Bukowski “Post Office” Roma, 2002 pag.171
8 Charles Bukowski “Niente canzoni d’amore”Tascabili degli editori associati ,Milano 2004, pag.133
9 ibidem, pag.137
10 “Non c’è nulla che assicuri più efficacemente le storie alla memoria di quella casta concisione che le sottrae all’analisi psicologica: E quanto più naturale in chi le narra la rinuncia al chiaroscuro psicologico, tanto maggiore il loro diritto a un posto nella memoria di chi le ascolta; tanto più completamente si assimilano alla sua esperienza; tanto più volentieri, infine, tornerà egli stesso a raccontarle, un giorno vicino o lontano.” .” Da Walter Benjamin “Angelus Novus” Einaudi tascabili, Torino 1995, pag. 255
11 Charles Bukowski “Compagno di sbronze”Universale Economica Feltrinelli, Milano 2004 pag. 67