L' «Orecchio»(1) di Cardarelli
Cardarelli, oltre che un poeta fu un professore. Amante della lingua elegante, mal sopportava il basso livello della lingua italiana dei tempi suoi. Responsabili del fallimento della lingua italiana erano in parecchi, dal Da Sanctis ai Futuristi, passando attraverso il Romanticismo, i puristi, e poi Croce, con la sua indifferenza verso gli strumenti dell'arte. Tutti quindi messi sotto accusa, tutti responsabili del «deficit» ormai ben visibile in cui versava la lingua di Dante. Il pessimo gusto, la mancanza di criteri critici certi, l'aver voluto esaltare il Trecento deprimendo invece il Cinquecento, secolo in cui i maggiori letterati e artisti si dettero a forgiare una lingua comune, sono altri aspetti negativi della nostra lingua letteraria (2). Neppure i poeti si salvano: a eccezione di Leopardi, gli altri, a partire da Pascoli, sono altrettanto responsabili del mal gusto imperante. Pascoli non è, all' «orecchio» di Cardarelli un grande poeta, bensì uno «stornellatore» (3), sia pure colto. Il gusto classico-elitario di Cardarelli remava però contro una tendenza inarrestabile della nostra lingua letteraria e non, per cui, rispetto ai tempi, la sua proposta risultava, alla resa dei conti, anacronistica. Di ciò si era accorto molto acutamente Luciano Anceschi, che, ripercorrendo le idee linguistiche di Cardarelli, scriveva che lo scrittore di Viterbo «...intese fermare con un gesto imperioso la parola in una sua dimensione storica anticamente moderna, e fu gesto definitivo e irrevocabile, quasi un lucido delirio di lotta contro il tempo...» (4). L' «orecchio» di Cardarelli s'era quindi irrevocabilmente soffermato tra il Cinquecento e Leopardi: ma questo «blocco storico», questa «sordità» del suo orecchio all'indirizzo moderno della lingua italiana è indice del fatto che Cardarelli, al di là del gusto molto personale, aveva semplicemente sottovalutato la portata storica di alcuni fatti, di alcune «spie», soprattutto sintattiche, che si erano manifestate già a partire dal Settecento e nel primo Ottocento in ambienti prestigiosi e molto influenti sulla Repubblica delle Lettere, ovvero a Milano e Venezia, capitali intellettuali nell'Italia fra Sette e Ottocento. Che cosa era successo in quegli anni alla lingua italiana? A livello sintattico era accaduto un fatto fondamentale, ovvero che il periodo si era estremamente semplificato, cosicché all'ampio periodare boccaccesco si sostituivano frasi brevi e snelle, mentre le subordinate tendevano a ridursi alle sole relative. Per le ipotetiche, sottolinea Giulio Herczeg (5) , ci si limita al solo «se», mentre per le temporali si usa quasi esclusivamente «quando», scartando di proposito ogni altra congiunzione subordinativa che avesse il sapore di una ricercata classicità. Un esempio di periodo a frasi brevissime di Pietro Verri:
«... Molto egli fece per mantenere e introdurre l'ordine sociale nel dominio.| Ei preservò Milano dalla peste l'anno 1348.| Egli non volle proteggere veruna fazione.|...»
La realtà settecentesca era profondamente mutata rispetto ai secoli precedenti. Anche in Italia si leggevano ormai i giornali, le «gazzette», come si diceva allora; e attraverso di essi si stava via via formando quella che oggi chiamiamo «opinione pubblica». In tempi di grande rivoluzione culturale e sociale, gli scrittori del Settecento si rendono conto che occorreva re-inventarsi una lingua per riuscire a entrare in contatto con un pubblico vasto. Prospettiva che faceva dire a Ludovico Antonio Muratori: «... Certo egli è legge non dirò del dilicato gusto, ma della stessa natura che, chi scrive ad altri, scriva per farsi intendere, e debba ingegnarsi di farsi intendere per quanto può...» [Corsivo mio]. Così, sul versante lessicale si coniano termini e campi semantici che sono oggi patrimonio di tutti: «giornalismo», «giornalista», «opinione pubblica», «industriale», «finanziario», «produzione», «distribuzione», «consumo», «pubblicità», «progettista», «punto di vista», «mano d'opera», e altre centinaia di termini che sembrano coniati oggi (6). La lotta contro la classicità toscana del Trecento fu dura e aspra. Come scrisse acutamente il nostro grande Alfredo Schiaffini, grazie alla provvidenziale «crisi linguistica» del Settecento, «...si trasformarono la nostra sintassi, il nostro stile e il nostro lessico - perché il contatto con lo stile e la lingua della letteratura francese ( meglio, la ricezione del pensiero francese) ci fa abbandonare il gusto della toscanità, vale a dire dell'italianità, trecentesca e cinquecentesca...» (7). Cardarelli, che pure era uomo coltissimo, non volle porgere il suo «orecchio» a siffatte argomentazioni, ma fu essenzialmente concentrato sul concetto di «italianità della lingua», una politica linguistica fortemente sostenuta dal fascismo, e che investì gran parte dei nostri intellettuali. Però, mentre il «Neopurismo» degli anni '30, di cui furono promotori i nostri linguisti di punta attraverso la rivista «Lingua Nostra», da Bruno Migliorini ad Alfredo Schiaffini al Devoto, per non citare che i più noti, si soffermò, con qualche successo di rilievo occorre dire, esclusivamente sul versante lessicale, tentando di espungere dalla nostra lingua i termini stranieri (8), Cardarelli si mostrò decisamente retro, nel senso che egli pensava non tanto, o non solo, al lessico, ma a un recupero delle strutture sintattiche particolarmente elaborate fissatesi nella prosa del Cinquecento. «...Tutta la grandezza della nostra letteratura - scriveva -non è, se si guarda bene, che una grandezza quasi esclusivamente formale...» (9). Cardarelli quindi vagheggiava le ampie architetture sintattiche che seppero costruire i nostri grandi scrittori fra il Trecento e Cinquecento, secolo quest'ultimo a parer suo non particolarmente apprezzato, e che andò a completare il grande lavorio sul periodo iniziato dal Boccaccio. «Architettura» è termine ricorrente in Cardarelli, a qualificare appunto la maestosità dell'eloquio dei nostri classici.
«...Fra il Trecento e il Cinquecento non c'è conflitto, anzi storica concordia e fecondissime relazioni, se è vero che air uno scrivente in lingua toscana, spetta la gloria della poesia, all'altro quella d' aver formato la lingua italiana comune e condotto la nostra prosa a quell'estremo limite di perfezione che, per la sua universalità, non fu soltanto artistica, ma civile...» (10).
E perché Pascoli al suo orecchio è un semplice «stornellatore»? Perché il suo periodo, al suo orecchio, è asfittico, breve, troppo breve: una scrittura distruttrice e corruttrice dei grandiosi quadri sintattici dei nostri Cinquecentisti.
«...Io non ho da fare a Pascoli altra obbiezione se non questa: cioè ch'egli è più uno stornellatore, un verseggiatore elaborato, colto, fino quanto si vuole, che un poeta. Come dire più discretamente quanto poca individualità di linguaggio e di forme metriche (ho detto, senz' altro, i due elementi costitutivi dell' arte lirica) si riscontri nella poesia del Pascoli? Chi sa che cosa significa mettere un pensiero, una sensazione, un' immagine, in forma di discorso lirico non di maniera, dare alle parole un tono non indifferente, sa pure (se è lecito parlare colla nostra autorità di lettori, dimenticando di
essere anche noi gente che s'arrisica a fare poesia) che cosa io voglio dire. Dal Pascoli non ci si può aspettare che qualche malizia grammaticale. Troppo poco per paragonarlo, in qualunque caso, ai nostri grandi poeti di lingua...» (11).
Mentre ordunque il Pascoli è asfittico, la vera italianità della lingua la «...si ritrova nel (giudizio e nella fantasia di Tacito, in Dante, in Machiavelli, in Leonardo, in Leopardi, nella letteratura del Cinquecento e nella familiarità principesca di quel tempo...». Pascoli, invece? Un minuscolo «grammatico»: solo «grammatica elementare» la sua.
«...Quei suoi piccoli espedienti sintattici, quello stare attento alle virgole con una sofisticheria estrema, quel modo di atomizzare il verso in minuscole particelle, riducendone 1' architettura a una specie di tremolìo gelatinoso, lo hanno fatto sembrare un innovatore, un artista pieno di segreti di laboratorio, uno di quei chimici di genio che di quando in quando vengono a salvare l'arte francese, quest'arte melanconica e bella che non riesce quasi mai a toccare la luce delle grandi stagioni senza cadere nel pericolo, sempre incombente, di freddarsi o di degenerare. E non era che grammatica elementare!...» (12).
E il nostro Ottocento? Si salvano solo in due: Manzoni e Leopardi: gli altri sono da buttare. E all' «orecchio» di Cardarelli non poteva essere che così. Infatti, la caratteristica sintattica del nostro primo Ottocento continua a seguire le orme del Settecento. Osserva ancora Herczeg: «...Nella prosa del primo ‘800 è conservata la costruzione a periodi brevi, di corto respiro, con una articolazione semplice in cui predominano le subordinate relative e si nota una certa avversione alle varie congiunzioni...». Quindi Herczeg fa un'affermazione che Cardarelli avrebbe sottoscritto e condannato senza appello alcuno:
«...Lo scrittore non vuole spiegare le sue idee con una forte disciplina logica, consueta... allo... stampo classicheggiante...» (13). Quindi, al di fuori di Manzoni e Leopardi, il nulla. Ma la storia, nel suo avanzare, ha decretato lo scacco netto, senza riserve, di tutte quelle teorie che si fondavano su un'ottica essenzialmente linguistico-statica, sorda ai mutamenti socio-economici. L' «orecchio» di Cardarelli si chiuse pressoché totalmente alla modernità, e oggi, a distanza di tanto tempo, e con gli esempi attuali del processo evolutivo della lingua italiana, che da anni è avviata, sempre di più, verso la "semplificazione" sintattica, con una preponderanza della paratassi sull'ipotassi, possiamo senz'altro affermare, senza tema di smentita, che la proposta tutto sommato «neopuristica assoluta» del professor Cardarelli si è rivelata del tutto perdente.
Note
1) Il titolo del saggio di rifà alle considerazioni linguistiche di Vincenzo Cardarelli contenute in un libro ormai raro, Parole all'orecchio, Lanciano, Giuseppe Barabba Editore, 1929.
2) Ivi, pp. 31 sgg.
3) Ibidem, pp. 79 sgg.
4) L. Anceschi, Le poetiche del Novecento in Italia, Venezia, Marsilio, 1990, p. 219.
5) G. Herczeg, La struttura del periodo nel ‘700, in Saggi linguistici e stilistici, Firenze, Olschki, 1972, p. 281.
6) G. Folena, Il rinnovamento linguistico del Settecento italiano, in L'Italiano in Europa, Torino, Einaudi, 1983, pp. 5-66.
7) A. Schiaffini, Aspetti della crisi linguistica italiana nel Settecento, in Italiano antico e moderno, Milano-Napoli, Ricciardi, 1975, p. 129.
8) G. Klein, L' ‘Italianità della lingua' e l'Accademia d'Italia. Sulla politica linguistica fascista, in Quaderni storici, 1981, 47, pp. 639-675.
9) V. Cardarelli, Parole all'orecchio, cit. p. 34.
11) Ivi, p. 79.
12) Ibidem, pg 86.
13) G. Herczeg, Appunti per la struttura del periodo nell'epoca romantica, in Saggi linguistici e stilistici, Firenze, Olschki, 1972, p. 307.