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Il vecchio della montagna
Capitolo 03
di Grazia Deledda
Pubblicato su SITO


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Capitolo 03

Melchiorre attraversò a passi rapidi ed agili la radura, fermandosi nel sentiero accanto alla chiesa, dietro un tronco d'elce biforcuto che gli permetteva di assistere, non veduto, come da un finestrino, alla scena che gli si svolgeva davanti.

Un gran fuoco rischiarava il bosco: quasi tutti i novenanti stavano là attorno aggruppati e ridevano. Un cagnolino nero, il cui collare di ottone scintillava al riflesso del fuoco, abbaiò dietro Melchiorre, facendo atto di slanciarglisi contro, senza osarlo.

Egli si volse; disse piano piano, con disprezzo:

«Aspetta, marrano!», e accennò a corrergli appresso. La bestiola scappò: una voce nasale gridò:

«Te', Leone!».

«Leone! Te'», disse fra sé Melchiorre; e raschiò e sputò al di là del tronco; ma la sua sfida sprezzante più che al cagnolino pauroso era rivolta a tutta quell'allegra gente.

Dall'ombra egli vedeva un quadro fantastico. Il gran fuoco di tronchi e di rami crepitanti, le cui fronde si cangiavano in brage, mandava in alto lunghe fiamme rosse, illuminando a sprazzi la parte inferiore degli alberi e gli scorci di figure aggruppate qua e là, per terra, sulle pietre, a ridosso dei tronchi.

Il bosco pareva una fantastica e mostruosa costruzione sorretta da nodose colonne e i cui intercolunni, le vôlte e gli sfondi si perdevano in un vuoto oscuro. Nel circolo rosso descritto dalla luce della fiamma passavano correndo e traendosi dietro le loro lunghe ombre ragazzi che attizzavano il fuoco con bastoni e rami: altri stavano appollaiati sugli alberi, con le gambe ignude penzoloni.

Melchiorre riconobbe il fanciullo delle cavallette, che emetteva stridi acuti trascinando un ramo le cui fronde lasciavano intorno al fuoco una traccia di terreno spazzato. Risate allegre, cantilene, voci, grida, si univano al crepitar della fiamma.

Sulle prime Melchiorre attratto dal bizzarro spettacolo provò un gusto quasi fanciullesco a contemplarlo. Il leggero vento che passava stormendo fra gli alberi gli batteva alle spalle, mentre al viso gli giungeva il calore del fuoco.

Un gruppo di signore, col capo avvolto da fazzoletti di seta e da scialletti di lana, sedeva sopra un tronco rovesciato: alcune ridevano, coi denti scintillanti: una, con le gambe accavalcate e le mani strette intorno al ginocchio, sonnecchiava abbassando e rialzando la testa; un'altra pareva sognasse, col viso sollevato e la gola illuminata dal fuoco. Sedevano per terra, e su pietre, e addossate ai tronchi, paesane con bimbi in grembo; e alcuni uomini stavano sdraiati a pancia a terra, col volto eretto e il mento appoggiato alle mani intrecciate. Ritto, accanto al fuoco, un giovinotto accordava un flauto la cui canna sembrava di corallo e mandava il suo riflesso sulle mascelle gonfie e sulle mani del suonatore.

Dopo aver fissato il bimbo delle cavallette e il ramo che spazzava il terreno intorno al falò, Melchiorre mise attenzione agli striduli accordi del flauto, seguendo con gli occhi i movimenti delle mani rosse del suonatore. E provava un impulso d'ira e di sdegno ricordando la melodia lontana udita al meriggio, e l'impressione di gelosia che ne aveva provato. Era costui che allora suonava? Questo giovanotto basso e scarno, dai capelli così rasi che lasciavano scorger la cute del cranio, dalle orecchie enormi e dalla scarsa barbetta rossa irta sul mento? E costui, col ridicolo gonfiar delle scarne guancie, era stato capace di attoscargli il cuore per tutta la sera?

«Dov'è Paska?», ruggì il suo cuore. E i suoi occhi s'accesero, e lo sguardo vagò dall'una all'altra delle paesane sedute per terra e sulle pietre, e più su sulle panchine addossate al muro della chiesa.

Paska non c'era: ed egli ne provò sollievo, ma non si mosse dal suo posto d'osservazione.

«Efisio», gridò la voce nasale che aveva chiamato il cagnolino, finiscila con quel ramo, e buttalo sul fuoco.

Ma il bambino continuò a correre, e per giunta il cagnolino andò dietro al ramo abbaiando.

«Che polvere!», si lamentò una signorina.

«Efisiooo! Leoneee!» La voce nasale s'alzò così minacciosa che il cagnolino scappò e il bimbo cessò di correre.

I monelli appollaiati sui rami cominciarono a fischiare e a sputare dall'alto.

«Figli d'un capricorno, finitela!», gridò il suonatore di flauto, che sentiva qualche cosa d'umido sul collo.

«Finiscila tu, corno di capra!...»

Tutti ricominciarono a ridere e la signora che sonnecchiava si svegliò.

«Efisio, getta quel ramo sul fuoco!»

Il bimbo obbedì: la fiamma s'abbassò divampando poscia più alta e più crepitante. Insultati e presi di mira con pietruzze dal basso, i monelli fischiavano e sputavano con maggior violenza.

Le paesane gridavano vituperi e imprecavano, col viso rivolto in su.

«Al diavolo che vi ha mandato là sopra! Vuoi finirla mendicante?»

«Mendicante sei tu!»

«Pieno di pidocchi...»

«Pieno di pidocchi sei tu!»

«La questione viene spostata!», gridò la voce nasale. «Vediamo se si può definirla altrimenti.»

Melchiorre vide un grosso uomo giallo e calvo, dalla lunga barba nera, ergersi gigantesco e minaccioso.

«La finisca lei, prima di tutto!», disse volgendosi al suonatore. «Faccia un po' il piacere!»

Ma il giovinotto continuò a solfeggiare e i monelli fischiavano e gridavano imitando la voce nasale del grosso signore.

Paska non si vedeva: che fosse scesa a Nuoro anche quella sera?

Melchiorre cominciò a stancarsi: provava un senso di disprezzo per tutta quella gente che passava così scioccamente il tempo e pensava di andarsene, quando la scena mutò. Una signorina aveva gridato a un giovinotto che fumava tranquillamente la sua pipa di creta:

«È arrivato un bastimento carico di...».

Nel ricever il molle proiettile il giovinotto trasalì comicamente, destando nuovi scoppi di riso, ma ebbe la prontezza di spirito di lanciarlo a sua volta sulla gola della signorina che sognava.

«Di impertinenti!», rispose. «È arrivato un bastimento carico di...»

La sognatrice si scosse, raccolse il fazzoletto e non seppe subito rispondere: ma il gioco banale era cominciato, e il fazzoletto continuò a volare da un punto all'altro, destando risate e malumori per la difficoltà dei carichi in I. In breve tutti presero parte al gioco; anche i monelli si gettavano manate di foglie gridando arrivi di bastimenti carichi di impertinenze.

«Impossibile!», gridò il signore dalla voce nasale, raccogliendo con le mani sul petto la palla bianca. «Io sono fuori di giuoco.»

«Penitenza! Penitenza!»

«Cambiamo la lettera. Con l'I non si trovano vocaboli adatti.»

«Penitenza! Penitenza! Mi dia quell'anellino che ha, lei.»

«Ch'io possa un giorno darglielo ai piedi dell'altare!», disse galantemente il giovine suonatore, traendosi con due dita l'anello, fatto con un chiodo, e mettendolo sulla palma della rosea mano aperta verso di lui.

«Cambiamo questo stupido I. Mettiamo il P

«Pulcini, pulcini!», insolentirono i monelli.

«Porchetti... porchetti...»

«Pasque! Pasqueee! Viva! Viva! Arrivato un bastimento carica di Pasque! Viva Pasqua, viva!...»

Melchiorre sollevò gli occhi ardenti. Paska era finalmente apparsa, e dritta davanti al fuoco, piccola e snella, con le maniche della camicia rimboccate e le cocche del fazzoletto nero rigettate sulla sommità del capo, cercava con gli occhi un posto ove sedersi.

«Vieni qui, vieni qui, agnella mia», la invitò il suonatore. «Vieni e siediti al mio fianco.»

«Al suo fianco il coltello!», ella rispose; ma la sua voce era così dolce, il suo riso così sonoro, che a Melchiorre parve di sentir davvero un coltello al fianco; e si portò il pugno alle labbra in atto di mordere.

«Cosa mi tiene, cosa mi tiene, anima maledetta, che hai il miele in bocca e in cuore un serpente!...»

Ella si guardava sempre attorno sorridendo a tutti con civetteria: il ciuffo dei suoi lucidi capelli castanei, rialzato sulla breve fronte bianca che splendeva come l'avorio, aveva riflessi di rame dorato; e riverberi rossastri sfioravano il suo corsetto aperto sul davanti, e il petto della sua camicia dalle pieghe inamidate e sapientemente disposte.

Quando ebbe scelto il posto, attraversò con baldanza di giovine gazzella dai fianchi ondeggianti tutto lo spiazzo illuminato dal fuoco, e balzò felinamente su una sporgenza di roccia. Di là dominò la scena col fulgore dei suoi limpidi occhi castanei dalle lunghe ciglia. Le fu subito gittato il fazzoletto sul seno, e uno studente si sdraiò supino ai suoi piedi e cominciò a stuzzicarla con un bastoncino.

«Stia secco, lei», ella disse, raccogliendosi le sottane intorno alle gambe; e gli scaraventò il fazzoletto sul volto.

«Penitenza!», urlarono d'ogni parte.

«Io non gioco! Non è vero che non gioco, padrone?», gridò Paska.

«No, tu fai davvero!», rispose la voce nasale.

«È colui il suo padrone?», si domandò Melchiorre: e capì subito l'istintiva antipatia che il fanciullo delle cavallette, il cagnolino e la voce nasale gli avevano destato.

«No, ella non gioca; ella fa davvero!», ripeté fra sé amaramente.

Di momento in momento egli sentiva crescere la sua collera rabbiosa: le orecchie gli tinnivano e gli ardevano, e gli pareva che la fiamma e il calore del fuoco gli serpeggiassero nelle vene.

«Dov'è il falco?», domandò Efisio, aggrappandosi alle gambe di Paska, col viso sollevato.

«Non lo so: va e cercalo!», ella rispose con impertinenza, pur tenendo presso di sé il bambino per salvarsi dai proiettili che dall'alto i monelli, e dal basso i giovinotti le lanciavano.

Il gioco proseguì. Quando tutti, compresa lei, ebbero dato un pegno, si formò un comitato di ragazze e di giovanotti per le penitenze: Paska fu invitata a prendervi parte, ma ella disse:

«Sto bene qui, non mi muovo! Vengano qui se mi vogliono!».

Il comitato le si avvicinò, e i giovanotti la circondarono strettamente.

Ella rideva, emettendo piccoli stridi di gazza in amore: Melchiorre vedeva le paesane curve l'una su l'altra mormorare e ridere fra loro, certo per il contegno sconveniente di Paska; e fremeva e a momenti stringeva i pugni fino a conficcarsi le unghie nelle palme delle mani.

Furono lasciati in grembo a Paska i pegni del gioco, e le persone del comitato si disposero in fila.

«Di chi è questo pegno?», ella domandò, sollevando e sventolando un fazzolettino bianco con la cifra rossa.

«È mio», rispose una voce sottile.

«Vuol riaverlo?»

«Sfido, se è mio!...»

«Allora bisogna che ella si alzi e vada a dar un bacio al mio padrone.»

«Quello puoi farlo tu!»

«Brava, bravaaa!», gridarono molte voci; e tutti risero sguaiatamente.

«Bravissima!», pensò anche Melchiorre, ma la sua collera crebbe.

«Se me lo impongono, lo faccio!», rispose Paska arditamente.

«Ma fatelo tutte; si può far benissimo!», esclamò la voce nasale.

«Per penitenza!», rispose il suonatore.

«Che puzza di spirito; via, finiamola!», disse una signora, seccata che si desse tanta attenzione ad una serva. «Non usciamo dai limiti del galateo!»

«Cominci lei!», rispose una voce.

Gli animi s'inasprirono; ma il comitato si riunì di nuovo, e chi più chi meno volentieri tutti eseguirono le banali penitenze.

Al suonatore toccò di ballare con la scopa, e se la cavò allegramente: gli venne restituito il flauto, ed egli credeva finita la sua parte, quando Paska gridò:

«Di chi è questa?», e agitò in alto, tenendola con due dita per il corto picciuolo, una grossa pera verde e lucente.

«Diavolo!», esclamò il suonatore, battendosi le mani sulle tasche della giacca. «Quella è mia! Me l'avete rubata!»

«Come? Lei ha di queste provviste in saccoccia? Che altro ha? Altre frutta? Pane? Formaggio? Faccia vedere!... Con tutta la sua poesia!...»

«È mia! È mia! Non è vero che è sua! Dalla a me, Paska Carta, dalla a me», gridavano i monelli.

Il suonatore arrossì, ma per puntiglio e per riaver la pera si sottomise alla penitenza della lettera.

Fu fatto stupidamente inginocchiare, e un giovane lungo e scarno, in maniche di camicia nonostante il fresco della notte, gli scrisse sulle spalle alcune righe insultanti, e per virgole e punti somministravagli pugni sonori.

«Se ci arrivassi io!», pensò Melchiorre. «Ma perché quella bestia si lascia picchiare così! Ed è di uno scemo simile che quella sciocca è innamorata? Ma non è più bello il mio caprone? E le mie capre non hanno più serietà di tutta questa torma di matti?»

«La pera sia restituita al padrone», sentenziò Paska, quando il giovine si sollevò scuotendo le spalle indolenzite.

Ma la pera se l'erano divisa e mangiata due ragazze del comitato, e fra sonori sghignazzamenti furono restituiti al suonatore solo la buccia e il picciuolo.

Egli non protestò, ma riprese a suonare il flauto e non la smise più.

«Di chi è questo ditale?»

Un ditale d'alluminio scintillò sulla punta del mignolo del giovine in maniche di camicia.

«È mio!», disse Paska.

«È mio!», pensò Melchiorre, riconoscendo con tristezza l'ultimo suo regaluccio alla fanciulla. E cominciò ad agitarsi, punto dai ricordi, umiliato nel veder il suo dono fra le mani di coloro che lo rendevano infelice.

«Se vuoi riaverlo, Paska di rose, raccontaci una novella.»

«Una novella? Quale?», diss'ella, come fra sé, sollevando le braccia per accomodarsi il fazzoletto: in quell'atto il suo busto svelto e pieno apparve stupendamente modellato dalla camicia e dal corsetto di velluto rosso, e Melchiorre, alle amare angoscie che lo tormentavano, sentì mescersi lo struggente desiderio di quel corpo flessuoso che tante volte aveva sentito palpitare fra le sue braccia.

Chi adesso li divideva? Chi gl'impediva di saltare al di là del tronco e di correre e sentir ancora, col dolce abbandono antico, il lieto cuore di Paska palpitar contro il suo, e la fresca bocca di lei rider contro le sue labbra? Chi li aveva divisi? Quella gente ridicola e sciocca che si aggirava intorno al fuoco come le farfalle attorno al lume! Egli si sentiva la forza e il coraggio di passare attraverso tutta quella gente e di urtarla, spingerla, gettarla sulla fiamma; e farne un fuoco alto alla cui luce restar soli lui e Paska, e rivolgersi a lei urlando: «E adesso?».

«Racconta la storia della gallina», disse Efisio, tirando le sottane della ragazza.

«No, quella del gallo», gridarono i monelli.

«Quella della gallina che aveva fatto l'uovo...»

«No, quella del gallo che non aveva fatto l'uovo...»

«Chicchirichì...»

«No», disse Paska dominando il chiasso con la sua bella voce sonora, «racconterò la storia del magro» (voleva dire del mago).

«No, quella del grasso, quella del grasso!» Si ricominciò a ridere e a fischiare. Un ragazzo batteva una fronda sul fuoco e la fiamma percossa si divideva, sollevandosi ed abbassandosi rossa sanguinante.

La scena cangiavasi in tregenda: le figure apparivano e sparivano fra sprazzi di luce sanguigna, e i portici e gl'intercolonni del bosco si sprofondavano in antri misteriosi e in caverne scure.

Paska cominciò la fiaba.

«Dicono che una volta c'era un ragazzo chiamato...»

«Antoneddu...», disse la caustica voce del padrone.

«No, non così, ma...»

«Mel...chi...or....reee...?», gridò una voce vibrante.

Melchiorre vibrò assieme con la voce che pronunziava il suo nome. Chi lo pronunziava? Chi lo derideva? Chi lo provocava?

La voce era come salita dal suolo: e per quanto guardasse, Melchiorre non riuscì a distinguere il suo provocatore.

«Ebbe'? Sì, Melchiorre!», disse Paska guardandosi attorno con uno sguardo di sfida. «Egli un giorno andò a portare legna dal monte...»

«Oh come? Non era un pastore?», chiese la voce vibrante.

«Ma che pastore d'Egitto! Era un ragazzo, un contadino. E incontrò zia Orca. Dunque, quando incontrò zia Orca, il ragazzo si spaventò...»

«Sfido io!»

«Com'era fatta l'Orca?», domandò sommessamente Efisio, che ascoltava stringendosi alle gambe della ragazza. «Denti ne portava?»

«Altro che denti! Aveva spiedi per denti, e le ciglia così lunghe che se le rialzava con due stanghe...»

«Povero Melchiorre!»

«Il cuore mi dice che in questa storia si parla di chiavi», disse la voce nasale.

Il flauto suonava sempre.

«"Dove vai, agnellino mio?", domandò zia Orca. "Se vieni con me e mi vendi questa legna, ti do un canestro pieno di pane che per quanto ne togli resta sempre pieno." Il ragazzo, che aveva sempre fame, si lasciò tentare e le andò dietro, curvo sotto il fascio di legna. Zia Orca trottava avanti, spazzando il terreno con le ciglia... Finiscila tu, con questa fronda, che il diavolo ti metta ad affumicare; non vedi che mi viene tutto il fumo in viso?», gridò Paska, chiudendo gli occhi e torcendo la testa.

«Il fumo va verso le belle e le giuste...», disse il padrone.

«Giuste... in direzione del fumo!», osservò la voce vibrante.

E il flauto suonava sempre una nota acuta e lamentosa che saliva, saliva fra gli alberi oscuri, sperdendosi in alto, nel vuoto infinito del cielo nero.

Melchiorre guardava e ascoltava; ma vedeva rosso e sentiva come un rombo lontano.

Qualcuno afferrò il ragazzo che batteva la fronda sul fuoco e lo spinse lontano: la fiamma si riunì, corta e violacea, e il fumo salì dritto come una colonna nera.

Paska riprese la sua storiella.

«Dunque zia Orca trottava avanti, spazzando il terreno con le sue ciglia. E cammina cammina dicono che arrivò a casa sua: prese il ragazzo e lo chiuse entro una cassa. Voleva farlo ingrassare per poi mangiarselo; ma lui ogni giorno, quando l'Orca gli diceva di mostrare il mignolo per un bucherellino, mostrava la coda d'un topo che aveva trovato entro la cassa.»

«Ma... e come mangiava?», domandò piano piano Efisio, tirando la sottana di Paska. «E l'Orca non poteva vederlo quando apriva la cassa?»

«Lasciami stare, non lo so! Dunque, quando mostrava la coda del topo, dicono che zia Orca, vedendo che non ingrassava mai, lo tirò fuori dalla cassa e lo mise a fare il servo. Dicono che gli consegnò cento e una chiave...»

Il padrone cominciò a ridere di un riso nasale rumoroso.

«L'ho detto io che c'entravano chiavi...»

«La finisca lei, signor padrone! Dunque gli consegnò cento e una chiave, e gli disse: "Vedi queste cento e una chiave? Apri tutte le porte che s'aprono con queste cento chiavi, ma guai se apri quella che s'apre con...".»

«Quella cento e una! Che cosa s'apriva con quella cento e una?», gridarono da ogni parte, e ricominciarono a fischiare, a ridere, e dire impertinenze e peggio. «Oh, povero Melchiorre... povero disgraziato!»

Melchiorre socchiuse gli occhi per fissar meglio Paska, e gli parve di vederla arrossire, forse perché arrossiva lui. E sentì la gola stretta da un'ira feroce contro coloro che, credendolo lontano, vigliaccamente lo sbeffeggiavano, e contro Paska che tanto permetteva.

«Non la finisci la tua stupida storia?», gemeva fra sé. «Te la farò finir io stanotte, scimmia, rana, vipera!»

«...Dunque dicono che il ragazzo pigliò le chiavi, e non apriva mai quella porta. Però pensava sempre a quello che doveva esserci là dentro, e di giorno in giorno cresceva la sua curiosità. Un giorno non seppe resistere e aprì; ma fuggì via inorridito perché vide la camera piena di cristiani rosicchiati dall'Orca. In fondo c'era un diavoletto che pestava le ossa entro un mortaio di pietra...»

«Diavolo!», disse il giovine in maniche di camicia. «Le utilizzavano anche!»

«L'avranno poi venduta, questa polvere, per mischiarla allo zucchero e alla farina dei maccheroni...»

Il piccolo Efisio aprì le labbra, ma non poté parlare, non meno inorridito del giovine servo dell'Orca.

Il flauto suonava sempre.

«...Dunque, quando il ragazzo fuggì inorridito, il diavoletto fece la spia a zia Orca, dicendole come il servetto era penetrato nella stanza. Zia Orca allora prese il ragazzo e voleva ucciderlo; poi lo lasciò vivo a questo patto: che ogni notte le cuocesse per cena un cristiano. E come fare? Il ragazzo...»

«Ma come lo voleva? Allo spiedo, lessato o al tegame, Paska o Paska?»

«Cotto, cotto; semplicemente cotto come lei», ella gridò, destando nuove risate. «Il ragazzo non sapeva come fare. Pensatelo voi! preparare ogni notte la cena con un cristiano, dopo averlo anche ammazzato, non è cosa molto facile, tanto più per un ragazzo. Zia Orca se ne andò fuori dicendo: "Guai se non trovo la cena pronta!". E l'altro a piangere, a piangere. Veniva la notte, intanto, le stelle spuntavano...»

«Cosa c'entrano le stelle?»

«Ma proprio! Cosa c'entrano le stelle quando viene la notte?», diss'ella, ironica. «...Il cielo sembrava un vaglio, così tutto bucherellato di stelle...»

«Originalissimo paragone...»

«...Infine era notte, e il ragazzo non sapeva come fare. Quando si sente un rumore.»

«Sarà stato il rumore del mortaio.»

«...No, era un uomo che passava cantando. Cosa fa il ragazzo? Prende una stanga e si mette in agguato dietro un albero.»

Qui Paska fece pausa, quasi per indicare l'ansiosa attesa del ragazzo appiattato: s'udiva intorno solo l'incessante fischio del flauto, per cui l'ironica voce nasale domandò:

«Ma dimmi un po', Paska, il malcapitato che passava, cantava o suonava? Suonava, vero?».

«Sì, suonava. Suonava il flauto!», rispose la voce vibrante. «Sta attento dietro l'albero, Melchiorre!»

Melchiorre si tirò istintivamente indietro.

Impassibile, il suonatore raddoppiò le note acute, che si slanciavano su come razzi.

«...Dunque, quando l'uomo passò, il ragazzo balzò fuori e gli ruppe la stanga sulla testa. L'altro cadde a terra morto...»

«Bel colpo!»

«Non c'è male, per un ragazzo di quell'età! Ma già, abitando con chi abitava...»

«...L'altro cessò di cantare...»

«Sfido! Anche un suonatore avrebbe smesso di suonare!»

«...Cessò di cantare. Allora il ragazzo tutt'allegro...»

«Bell'allegria! Si vede che zia Orca gli dava una buona educazione!»

«Da delinquente! Che ne dice, cavaliere?»

«...Tutt'allegro cominciò a tirare, a tirare...», proseguì Paska, stringendo i denti e facendo atto di chi con grave sforzo trascina un peso.

Col bianco visino spaurito, Efisio, sempre aggrappato alle sottane di lei, ne seguiva con gli occhi spalancati tutti i movimenti delle mani e della bocca: gli pareva di vedere il ragazzo a trascinare l'uomo morto per metterlo a cuocere, e il suo terrore aumentava.

Anche il cagnolino, posato colle zampine anteriori tese in avanti, sollevava la testa fissando su Paska gli occhietti rossastri entro cui il riflesso del fuoco accendeva una favilla d'oro.

«...Dunque, tira che ti tiro, il ragazzo riuscì a trascinare dentro l'uomo che cantava...»

«Cioè, che non cantava più.»

«...Accese il fuoco, mise su un gran paiuolo colmo d'acqua e gettò dentro l'uomo morto...»

«Con le vesti e con tutto, vero?»

«E anche le scarpe?»

«Bel brodo doveva riuscire...»

«Non aveva bisogno d'altro condimento!»

«...Quando zia Orca tornò, trovò la cena pronta. Mangiò tutta contenta, poi andarono a letto. Ma ecco sul più bello dun dun alla porta.

"Chi è?"

"Il Re!"

Era la moglie dell'uomo morto che veniva coi carabinieri per vedere se era stata l'Orca ad ammazzare il viandante. L'Orca prese gli avanzi della cena...»

«Forse le scarpe cotte, ma non abbastanza per essere masticate, vero?»

«...Gli avanzi della cena e li gettò in un profondo pozzo nero: poi gettò lì un caprone. Poi aprì la porta. Entrò tutta la Giustizia, entrò la donna che piangeva e si tirava i capelli. Guardarono dappertutto, e non trovarono nulla...»

«E le cento e una stanza? Perché la perquisizione non fu regolare?»

«Forse l'Orca aveva protettori fra i giustizieri: anche allora la Giustizia non funzionava molto bene...»

«Per i farabutti!», disse la voce nasale, con mal celato dispetto.

«Già, c'è lei; scusi, cavaliere!»

«Prego!»

«...Basta, non trovando nulla stavano per andarsene, quando la donna, uscita nel cortile, gridò: "E questo pozzo? In questo pozzo guardate". "È vero", disse il pretore: e comandò ai soldati di scendere nel pozzo, ma nessuno obbedì.»

«Lo dicevo io che si andava male!»

«...Allora presero il ragazzo, gli legarono una corda alla vita e lo costrinsero a scendere nel pozzo. Quando fu sceso gli gridarono: "Che c'è?". Egli rispose: "Un cadavere!". La donna allora cominciò a piangere, a piangere, a strapparsi i capelli e le vesti, e ad urlare. Ne aveva ben ragione, poveretta. Allora il pretore gridò al ragazzo di dire i connotati della vittima; il ragazzo gridò alla donna:

"Tuo marito quanti occhi aveva?".

"Mio marito aveva due occhi."

"Anche questo ne ha due. Tuo marito quante orecchie aveva?"

"Mio marito aveva due orecchie."

"Anche questo ne ha due. Tuo marito quanti nasi aveva?"

"Mio marito aveva un naso."

"Anche questo ne ha uno. Tuo marito quanti piedi aveva?"

"Mio marito aveva due piedi."

"E questo ne ha quattro! Tuo marito vello aveva?"

"Mio marito vello non aveva."

"E questo ha il vello! Tuo marito corna aveva?"

Tutta la Giustizia cominciò a ridere, a ridere: il pretore si gettò pancia a terra per non scoppiare.»

Anche gli ascoltatori della graziosa narratrice fecero eco alle risate delle poco serie e poco accorte Autorità della storiella. I monelli ora ascoltavano attenti, sporgendo i visi rossi fra i rami oscuri. All'improvviso scoppio di riso degli astanti, il cagnolino abbaiò, volgendo qua e là la testina; ed Efisio ebbe un pallido sorriso sul visetto smorto.

Solo il suonatore rimase impassibile, e le note del suo strumento continuarono a salire come zampilli cristallini su per il cielo nero.

Paska riprese:

«"Mio marito corna non ne aveva!", cominciò a gridar la donna, imprecando e battendosi i pugni sul volto. "Mio marito non ne aveva corna: tu le avrai, non mio marito, le avrai tu..."

"E questo ha le corna..."».

Le risate raddoppiarono: la voce vibrante disse:

«Sfacciato quel Melchiorre!».

«Povero Melchiorre! Che stupido!»

«Paska di rose, levalo fuori dal pozzo...»

«Paska e rosas, affogalo, se lo merita...»

Ella capì le allusioni, e ridendo e gettando un po' indietro la testa in modo che si vedeva la sua bianca gola gonfiata dal riso, disse sfacciatamente:

«L'ho già affogato!».

Allora Melchiorre credette di impazzire: gli parve di saltare al di là del tronco; di piombare sul fuoco e di scottarsi una mano. Aveva schiaffeggiato a sangue la bella Paska: aveva percorso lo spazio che li divideva e le era balzato addosso prima che alcuno degli astanti, sorpresi, si movesse. Ella si portò le mani al viso, tirandosi indietro e gridando: «Aiuto! Aiuto!», e il bambino anziché abbandonarla, parve volesse difenderla agitando le piccole mani e gridando anche lui: «Aiuto! Aiuto!».

Melchiorre si vide circondato da volti feroci, e sentì sulle spalle grossi pugni che risuonavano sul duro cuoio della sua giacca.

«Vigliacco!... Miserabile!...»

«Bestia!»

«Infame!»

Paska si mise a piangere di dolore e di terrore: e il bambino cominciò anche lui a strillare, mentre il cagnolino abbaiava ferocemente, facendo atto di slanciarsi nella mischia, senza osarlo.

«Vigliacchi siete voi!», gridò Melchiorre con voce rauca, divincolandosi. «Lasciatemi andare, altrimenti stanotte finite male il divertimento.»

«Mascalzone!» Un poderoso pugno gli cadde come una pietra sulla nuca. Egli si divincolò, furioso, con gli occhi splendenti; con uno slancio felino si gettò ancora su Paska e la schiaffeggiò con violenza, poi ebbe di nuovo l'impressione d'un salto, d'una fuga pazza, e si trovò fra le roccie al di là della radura. La sua persona vibrava tutta, le orecchie gli ardevano, le labbra frementi pronunziavano vituperi ed imprecazioni. Provava uno spasimo senza nome: avrebbe voluto gittarsi per terra, morder le pietre, sbatter la fronte al suolo, spaccarsela e morire.

Nell'oscurità che lo circondava, distinse la massa nera del bosco; e gli pareva di veder ancora il lontano barlume del fuoco, di sentir ancora lo strillo del bimbo, l'abbaiare del cagnolino e il singulto spezzato di Paska. Ma il flauto maledetto taceva: ed egli si rimise a correre, fra il monotono sussurro del vento che ogni altro rumore dominava.

© Grazia Deledda







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