Autobiografia
(...e deliri...)
di Max Manfredi
Mi
chiamo Massimo Manfredi, certi mi chiamano
Max. Se i miei concerti hanno della battaglia,
Max è il mio "nome di battaglia".
Sono nato di Dicembre (1956) ed uno dei
sigilli della mia lirica è l'inverno:
ci ho sempre scodinzolato attorno. Ho
cominciato a suonare la chitarra a sette
anni (da allora non ho mai imparato) e
a far canzoni da tredici (da allora non
ho smesso mai). Come scrittore, ho sempre
trescato con la musica: questo è
uno dei motivi chi mi spinge alla canzone
pur non essendo quel che si dice, in genere,
un "musicista". Lo studio della
monodia profana del medioevo (della quale
mi occupo tuttora) e del canto popolare
italiano incidono, credo, più sull'intenzione
che sulla sostanza del mio lavoro. Nella
giovinezza ho scialato i pochi talenti
che mi trovavo in tasca, come un ragazzetto
sciala nei flipper gli spiccioli della
paga: teatro del peggiore, libri mai pubblicati,
complessini rock, musica d'improvvisazione;
in breve, ostinati tentativi di rianimare
una città che pare condannata,
quanto più si sbraca a muoversi,
a ruminarsi sfilate di zombi che leccano
il già accaduto, celebrano il già
esistente, bestemmiano il non-nato; a
Genova ogni movimento culturale è
danse macabre, seppur meno romanticamente
pittoresco. (Genova è una necropoli
turistica ed industriale nei pressi di
Luni). Ho scritto una lunga novella, "Trita
Provincia", che NON descrive questa
situazione.
Nella fedeltà della canzone "doc"
a me, non vorrei ravvisare nulla di patetico,
tipo "gli sforzi vengono premiati"
etc. Certa miopia critica l'ha data per
spacciata (mentre semmai si trattava di
esaurimento commerciale), una simmetrica
presbiopia vorrebbe incrociarla nell'effimero
ritorno di un revival, quasi dotandola
dell'aura d'una lingua-cultura semiestinta.
Ma, non mi stanco di ripeterlo, la canzone
"doc", lungi dall'essere un'invenzione
degli anni '50 e '60 volta ad appesantire
di significati la musica delle "leggere",
è una delle prime forme della poesia:
lì va ricercata la sempre sfuggente
"origine": nel canto etnico,
nel "melos" greco, nelle musiche
perdute o fossili o tuttora vive nella
loro isola, nel liuto strimpellato dal
Petrarca, nella poesia nera dei blues-men,
nelle mistiche performance di William
Blake, altro che festival di Sanremo.
Voglio dire che, se di qualcosa la canzone
"doc" non ha bisogno, è
di un pedigree. Tanto peggio per i "poeti"
affamati di specificità; sordi
ai confini, cercano i distinguo: la settorialità
professionale li condanna alla giusta
sanzione d'un non-ascolto a loro sgradito,
d'un circolo vizioso e viziato che li
cita come "poeti", chissà
perchè , sulla scorta di inesauste
trafile burocratiche, senza neanche il
cretinismo sublime delle Accademie. Torniamo
piuttosto a polemizzare con me stesso.
Dispongo d'un pugno di canzoni che mi
diverte cantare. La canzone è forse
la forma più clandestina e cialtrona
di esecuzione della propria scrittura:
quella "mediazione immediata"
fra l'autore e il suo lavoro che tanto
mi prende: non più un alfabeto
depositato su una tabula a mia rappresentanza;
ma io stesso lì, e tanto peggio
per la mia faccia, e tanto peggio se "le
prossime" s'intristiscono tiepidamente
delle tristezze MIE. Vuoi cantare con
una big band? Benissimo, pigliati la tua
chitarra e inventatela, la big band, se
ti riesce! T'ossessionano i suoni perduti,
i plettri di Ninive, i flauti e i cori
delle sirene? Fanne a meno - impara piuttosto
le posizioni sulla chitarra elettrica,
abitane il suono pieno e dimesso; oppure,
non appena sei ricco, sprecati nel collezionismo.
E, come diceva Baudelaire: "Et hue,
donc! Bourrique! Sue, donc, esclave! Vis
donc, damnè!" Oppure: "Allez-vous
bientòt manger votre soupe, sacrè
bougre de merchand de nuages!" O
ancora (Lacan): "Mangia il tuo Dasein,
che si raffredda." Non ricco, i miei
concerti li faccio da solo o con l'accompagnamento
di ottimi strumentisti. Non sono dotato
del talento dell'organizzatore-capobranco:
son troppo pigro per plagiare na intera
band senza pagarla. Dicono, d'altronde,
che l'impatto coi miei testi assorbe già
l'attenzione, senza bisogno di sviarla
con allettamenti sonori che rischiano
di proiettare chi ascolta "in un
altro film", come dice "Eldorado"
de Angelis. Perché, sia detto senza
falsa modestia, le mie canzoni rappresentano
uno dei risultati più alti della
moderna cinematografia italiana. N.B.
Questa "delirante" (ma lucidissima)
auto-presentazione la scrissi decenni
fa, per un Pino De grassi (di cui ancora
ignoravo i deliri). o
Max
Manfredi
De
André
Come ci siamo conosciuti
Da "La gazzetta del lunedì"
del 23 giugno 1997: "De André
torna a casa", di Monica di Carlo.
"Eppure a Genova ci sono le radici.
C'è anche il cantautore che De
André definisce il più bravo:
Max Manfredi".
Nel 1993 (forse) Vanni
Pierini, organizzatore del Premio Città
di Recanati, si recò a far visita
a Fabrizio De André in Sardegna.
Fabrizio faceva allora parte della giuria
Premio Città di Recanati. Vanni
gli portò una mia cassetta e gliela
fece sentire. Conteneva una serie di inediti
ed era una registrazione casalinga. Fabrizio
ne fu molto colpito e telefonò
a Vanni proponendogli una cosa che poi
non si fece per motivi di tournée:
Fabrizio avrebbe dovuto accompagnarmi
alla chitarra, senza avvertire prima i
giornalisti, durante la successiva edizione
del Premio Città di Recanati. In
seguito si decise di cantare insieme una
canzone nel CD (Max) che doveva uscire
di lì a pochi mesi. E così
abbiamo fatto.
Abbiamo registrato la canzone "La
fiera della Maddalena" nello studio
"Il Mulino" di Acquapendente,
in tre giorni. A Fabrizio piaceva perché
la riteneva, per così dire, di
origine colta e di intenzione popolare,
come "La baronessa di Carini"
(una vecchia famosa canzone popolare siciliana).
>>
LA FIERA DELLA MADDALENA (clicca qui)
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Qualche
dato...
1989
Ha vinto il premio Città di Recanti
con la canzone "Via G. Byron Poeta".
1990
Ha ricevuto la Targa Tenco per la miglior
"Opera prima" con il CD "Le
parole del Gatto".
1994
Ha pubblicato il "Libro de Limerick"
(Dominio Vallardi) a testimonianza della
sua versatilità di giocoliere della
parola.
1994
E' uscito il secondo CD "MAX"
(BMG AIROLA/Cantare in italiano) con la
partecipazione di Fabrizio De Andrè.
Da questo CD "La fiera della Maddalena"
è scelta dai registi Bigoni e Giuffrida
per la scena finale del film "Faber".
1997
Ha ricevuto il premio regionale ligure
come "Capostipite della nuova generazione
dei cantautori genovesi".
1999
Ha messo in scena lo spettacolo concerto
"La leggenda del Santo Cantautore"
su testi di Giampiero Alloisio al Teatro
Modena di Genova riscuotendo gran successo.
2000
Al Festival Internazione di Poesia
svoltosi al Plazzo Ducale di Genova nell'esate
del 2000 al quale hanno partecipato tra
gli altri Roberto Vecchioni, Dacia Maraini,
Paco Ibanez, Il premio Nobel Derek Walcott,
Max in coppia col noto chansonnier dissidente
alternando l'esecuzione dei suoi brani
alla lettura delle sue composizioni poetiche.
2001
Concerti di canzoni d'autore e musica
antica. Attività didattico-musicale.
Pubblica, dopo sette anni, il nuovo CD
"L'intagliatore di santi".
IL
LIBRO
Trita Provincia
di Max Manfredi
Editore
Liberodiscrivere
Anno 2002 - Pagine 112
Euro 12
Della
sterminata legione di angioli e diaboli
che compongono lo spirito e la mente di
Manfredi, ce ne sono due, Max e Massimo,
che più degli altri sono inquieti
e tendono a uscire da lui: il primo attraverso
i pori e la gola durante i suoi concerti,
il secondo, più sottile e proveniente
da abissi più profondi, cercando
di trasformarsi in inchiostro e facendosi
portar lontano da tappeti volanti di pagine
manoscritte.
Del secondo vorrei narrarvi, essendo al
cospetto del primo romanzo, pardon, novella
discreta.
Massimo Manfredi è conosciuto anche
per un tascabile edito da Vallardi sui
limericks. Nei limericks, componimenti
poetici regolati da leggi ben precise,
il primo verso deve contenere l'indicazione
di un luogo che quasi sempre, per doveri
di rima e/o di effetto straniante e comico,
in italiano risulta essere un paesino
di qualche remota landa persa tra campi,
ciminiere, pollai polverosi o taverne
dalle grosse risa e piccole ore.
Orbene, Trita provincia è il primo
verso di un limerick che, anziché
voler continuare verso il basso della
pagina, scappa via in orizzontale, come
un granchio anarchico, fuggendo dal foglio,
dal tavolo, dalla casa, dal paese, perfino
dal tempo.
Massimo Manfredi fa parte di quella schiera
d'artisti atemporali che camminando a
fianco dei corsi e ricorsi vichiani sono
stati via via all'ombra delle cattedrali
delle grandi città del Medioevo,
a consumare occhi e candele consultando
antichi testi e scrivendo zibaldoni nell'Ottocento,
a immaginare e disegnare nuove metropoli
e ferrovie nei primi anni del XX°
secolo, infine a scrivere, cantare o dipingere
mondi altri nascosti nelle intercapedini
del quotidiano che pendono stanchi dopo
essere stati dentro di noi come il "trapezista
molle" delle prime, bellissime pagine
del libro.
Il diabolo Massimo di Manfredi s'è
divertito con i suoi alambicchi pieni
di parole e ci ha regalato quest'opera
piena di calembours, assonanze, ossimori,
riferimenti colti, vere e proprie metanarrazioni
che fanno entrare e uscire il lettore
dalla novella con la porta girevole dei
cambi di ritmo e di piani spaziali e temporali.
Cesellatore della lingua e intagliatore
di immagini, Manfredi ci conduce dentro
un labirinto narrativo pieno di intuizioni
felici, come la visione nelle biblioteche
del terzo capitolo, o la storia dell'inchiostro
odoroso nel dialogo tra Goffredo e Ermengarda
oppure la passeggiata notturna di Manrico
e quella di Duncano o la parte del Solstizio
d'inverno: "Accompagnami al margine
del sabba (
), ai fuochi, alle grolle,
alle danza col fiatone; abbiamo già
bevuto troppo dalle brocche amiche, tutto
è triste come un ballo militare,
tutto sembra compiersi nell'orlo smagliante
tra stasera e l'addìo. Ma abitare
l'addìo è come non andarsene
mai."
Certamente questi sono solo miei gusti
personali, in quanto la novella discreta
del diabolo Massimo presenta tanti e tali
spunti per fughe mentali che ognuno può
smontarla, rimontarla e mutarla nella
sua testa come crede, sia per tentare
di trovare l'uscita del labirinto, sia
per perdersi ancor di più, sia
per tentare di trovare il Minotauro e
pagargli un Centerbe in qualche bettola
dell'angiporto.
Se posso dare dei vaghi e personalissimi
punti di riferimento per la navigazione
in questo mare dal procelloso inchiostro,
potrei citare Les chants de Maldoror di
Lautremont o le Nourritures Terrestres
di Gide, ma senza la cattiveria e i conti
da regolare del primo e il tono da invettiva
del secondo. Quello di Massimo Manfredi
è infatti uno scrivere discreto,
nel quale i microcambiamenti della natura
e i particolari e le piccole vicende dei
protagonisti si intrecciano con le Grandi
Questioni e con l'Orizzonte, quasi a voler
concretizzare gli enunciati della Tabula
Smaragdina, citata nelle prime pagine,
nella quale Ermete Trismegisto compara
ciò che è in alto a ciò
che è in basso e, quindi, l'infinitamente
grande all'infinitamente piccolo.
E così, alla fine della lettura
del libro o anche solo di una parte (un
aspetto importante è che ogni brano
della novella può essere autoconclusivo),
in fondo all'alambicco della nostra anima,
dentro il quale pagina dopo pagina avevamo
messo a cuocere porti notturni, ronzìi
di vecchie radio, antichi volumi, cinema
nebbiosi, ubriachi che dormono, libri
sigillati negli abissi marini, chiese
e vicoli lerci, rimane una polvere di
proiezione con la quale poter almeno pulire
i vetri con i quali vediamo fuori e lucidare
le scarpe che accompagneranno i nostri
nuovi passi e che daranno calci a "sassolini
che affondano, affondano tutti".
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