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Dodici racconti orfani
di Marco R. Capelli (2021)


Prefazione


Dodici racconti orfani

Questo libro è, in un certo senso, un atto dovuto. Dovuto a me stesso. Superata abbondantemente la mezzeria della vita (Dante, al mio confronto, è un giovanotto) si fa strada, subdolamente, il desiderio di terminare le tante cose inevitabilmente lasciate in sospeso. Non è necessario scomodare Freud (o Jung che, personalmente, preferisco) per capire che questo desiderio è figlio legittimo della consapevolezza – non paura – che il tempo che resta da sprecare è diventato improvvisamente assai meno di quello che già si è sprecato. Uno stato d’animo, per capirci, assai diverso da quello di chi s’appresta a varcare lalinea d’ombra: non si tratta più di prepararsi a remare, la sfida è tirare i remi in barca con ordine e dignità. E’ con questo spirito che ho, finalmente, deciso di affrontare questi dodici racconti orfani (mi si passi, come debolezza senile, l’ardire della parafrasi).
Se ne stavano da un pezzo in una cartella (virtuale), alcuni avevano già visto in qualche modo la luce, su carta o in formato elettronico, altri erano stati – per differenti motivi – temporaneamente abbandonati. (Tutti quelli che scrivono, o dipingono o compongono, sanno che non si termina mai davvero un lavoro, al più, un giorno, lo si abbandona, o lo si pubblica, o lo si vende.)
L’idea di raccoglierli assieme non era nuova, tuttavia mi erano sempre parsi, in un certo senso, troppo disomogenei, distanti per tematiche e ambientazioni. Mi sono, invece, reso conto, rileggendoli oggi che anche io tiro qualche somma (come alcuni personaggi del libro) che un filo conduttore non solo esiste, ma è solido e resistente e tiene assieme – sia pure quando è appena visibile – l’intera raccolta. Tutti i personaggi del libro, vittime e carnefici, sono legati da un vago senso di insoddisfazione, sempre presente anche quando non sfocia nella rivolta aperta, anche quando si trasforma in resa (apparente), anche quando fuggono, senza rendersene conto. Perchè, se fuggono, non è per paura. E’ solo che sognano, non possono evitarlo. Sognano sempre, sognano un mondo diverso. Se non proprio migliore, almeno a misura d’uomo. Sognano anche (e soprattutto) quando sanno che sognare non è permesso, o non è possibile, o tutte e due le cose assieme. Sognano sempre e comunque, così che, a volte, i loro sogni li portano lontano – dove non è importante - altre volte li fanno impazzire. Non fa molta differenza in un universo (narrativo) in cui la verità - sì - esiste e può essere percepita ma, in nessun modo, raggiunta.

Qualcuno ha scritto che tutti i libri, dall’alba dei tempi non fanno altro che ripetere (ancora ed ancora) la stessa storia, che non possono che raccontare “il coraggio degli uomini e la bellezza delle donne”. Può darsi benissimo che fra qualche anno le parti si invertano - cambierebbe poco - ma io appartengo, anagraficamente e culturalmente alla mia generazione.
Quel giorno non lo vedrò, e se dovessi vederlo, non lo capirei. Non me ne dolgo, non me ne vanto, ognuno è figlio del proprio tempo e va bene così. Se avete seguito il mio consiglio e letto i racconti prima di questa introduzione già saprete che non mi ritengo neppure particolarmente politically correct. Lo ripeto comunque,por si a caso, a scanso di equivoci.

Ma sto divagando e quando divago, come ben sa mia moglie, divento noioso.
Per venire al dunque: in questo libretto troverete dodici finestre aperte su altrettante stagioni e paesaggi di un mondo immaginario eppure, a suo modo, coerente. Un teatrino popolato da personaggi sperduti, testardi, a volte brutali, mossi dalla consapevolezza di una mancanza, di un vuoto al quale non sanno dare un nome ma che sognano confusamente di colmare. E questa necessità li spinge a viaggiare, a cercare, a rovesciare il tavolo, a cambiare tutte le carte della mano. Perché, o si trova una scala reale, o non ha senso giocare. E tanti saluti a chi si contenta di vincere con una doppia coppia. Siano essi geniali (e molto distratti) ingegneri, brutali e giganteschi barbari imprigionati in un mondo a metà fra Howard e Lord Dunsany, ombre nel deserto, impiegati non del tutto disposti a piegarsi, vecchi e bellicosi contadini toscani o fantasmi, a modo loro, piuttosto concreti.

Completano il tutto un paio di divagazioni giovanili, che ho incluso più che altro per nostalgia, come fossero quei pezzi che si trovano a volte nei musei, quelli che nessuno sa davvero cosa fossero o a cosa servissero ma sembra brutto lasciarli in una cassa sul retro. Così li si espone con una avvertenza in caratteri piccoli: ritrovamento non catalogato, uso incerto. Agitare con prudenza.

Invecchiando si diventa al tempo stesso critici e indulgenti. E molte altre cose, tutte contraddittorie.
Lo dico nel caso (improbabile) che qualche giovane stesse leggendo queste righe: non si deve mai credere a quel che è stato scritto da altri, va tutto verificato. Vivendo. Così che, quando finalmente tutto è chiaro, sia già tardi per farne uso.

Nota: Ho dovuto resistere, rileggendo questi racconti, alla tentazione, a tratti forte, di apportare modifiche sostanziali di trama o di stile. Tuttavia, mi sono trattenuto, limitandomi alla correzione dei refusi (se qualcosa ho dimenticato, chiedo scusa) ed a qualche ritocco (minore ed insignificante) qua e là. Al più, ho smussato qualche angolo, limato qualche asperità. Principalmente, ho resistito per rispetto al me stesso di allora, quello che ha redatto la prima stesura, che ha tentato di fissare sulla carta quel cinque per cento di inspiration che costituisce l’elemento originale e caratterizzante di ogni storia. Lo ricordo bene e credo di sapere chi fosse, conosco quasi tutti i suoi difetti ed ho memoria di quasi tutti i suoi errori ma ho, oggi, una sensibilità ed una capacità di emozionarmi e sognare alquanto diverse dalle sue.
Non inferiori, non superiori, semplicemente diverse. Per questo sarebbe stato irrispettoso (e superbo) da parte mia interferire troppo con il suo lavoro.

L'autore




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