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Mi
piacque fin dal primo momento in cui la vidi.
Un vero colpo di fulmine.
- È eccezionale. È bella davvero.
Ti farà felice. - João sapeva
dire le cose. Come riusciva a convincere le
persone con poche parole! Per questo gli affari
gli andavano a gonfie vele. Del resto non c'era
poi tanto bisogno di parole. Era da mozzare
il fiato. Grande, azzurra, rifiniture cromate,
aria condizionata, rivestimento interno lussuosissimo.
È vero che l'ultimo proprietario doveva
averla alquanto trascurata. Il sedile un po'
sdrucito, cosa peraltro quasi impercettibile,
e con alcuni buchini lasciati da cicche maldestre.
- Se vuoi, puoi fare come me, io compero solo
questi modelli fuori moda, li metto perfettamente
in regola, pago l'assicurazione più cara
che ci sia, li mando a ripulire per benino,
ci passo addirittura la cera da me, insomma,
li rimetto su nuovi fiammanti, poi li porto
a Corumbà e li vendo ai boliviani a metà
prezzo. Me ne torno in treno e sporgo la denuncia
per furto. Sapessi quanti ce n'è di furfanti
che fanno i soldi a palate...
- No, no, per me va benissimo così. E
poi penso di farne un regalo. Sai, una bella
donna si merita qualcosa di principesco come
questo. - Beato te. Da parte mia penso proprio
che, dopo tutto, devo accontentarmi di quel
che ci ricavo. Non si può aver tutto
dalla vita... Beh, alcuni dei generosi consigli
di João li ho ascoltati. La "Landau"
se lo meritava, era la regina delle Ford. Il
fatto che non producessero più quel modello
era un ottimo motivo per tenersela cara e conservarla
bene. La cappotta nera, sotto l'amoroso massaggio
al silicone, venne fuori austera e brillante
come doveva essere, nuova di zecca, appena uscita
dai capannoni di Santo André. L'azzurro
della scultorea carrozzeria germogliava vivido
e scintillante al sole compiacente del dicembre
ormai inoltrato. La cera morbida e trasparente
ne aveva accarezzato a lungo le curve generose
e gli spigoli, già smussati apposta fin
dalla catena di montaggio, per conformarsi all'insistente
andirivieni della flanella. Ne ribalti il cofano
gigantesco e ti trovi davanti il monumentale
motore da otto cilindri che ti fissa con la
prosopopea d'un lord inglese. Le ruote si pavoneggiano
con le gomme tronfie, a stento contenute dai
cerchioni lucidati a specchio... L'ammirai a
lungo mentre i manovali l'alloggiavano sul treno,
con le trepidanti occhiate delle nonne che cedono
il neonato all'infermiera per il primo bagnetto.
O con gli sguardi gelosi dell'innamorato che
permette alla sua ragazza di ballare con altri,
facendo buon viso a cattivo gioco. Sguardi lubrici,
forse, ma lunghi e impotenti perché non
riescono a controllare i movimenti delle mani
altrui e la forza del pensiero, d'altronde,
non potrebbe giammai sostituire la sicurezza
del contatto diretto. Salii sullo stesso treno.
La cabina non ricordava neanche lontanamente
un "Orient Express", ma era sufficientemente
comoda. Lo scartamento ridotto della ferrovia
installata dagli inglesi sessant'anni prima,
però, rendeva un vero incubo le dieci
ore di furibondo sballottamento che tagliava
alla cieca il buio pesto della notte brasiliana.
La luna era eccezionalmente assente dal suo
posto consueto d'impietoso chiarore. Dietro
una spessa coltre di nubi forse dormiva anch'essa,
come tutti a quell'ora, o forse, insonne, scommetteva
sul momento in cui sarebbe scoppiata l'inevitabile
tempesta. Ma l'aria greve reggeva. E così
per tutta la notte. Anche se confinati nel lettino
frullatore, i pensieri, tra i brevi e ingarbugliati
sogni, facevano la spola fra Eleuteria, obiettivo
e meta di quella folle impresa, e il grande
gioiello che portavo dietro quieto e silenzioso,
incatenato nell'ultimo vagone. Le piacerà?
Sicuramente. E come potrebbe non piacerle? E
che succederà dopo? Mille domande. Mille
fantasticherie...
La discesa dalla rampa fu solenne e trepidante
come quella d'una miss, con manto e corona,
lungo la scalinata imperiale montata ai piedi
del recente trono. Sbrigai immediatamente le
pratiche dello sdoganamento e m'infiltrai pazientemente
fra un nugolo di piccoli venditori di chiclet,
pamogna, choclo, pollo arrosto, sopa paraguaya,
archi e frecce, cocar d'indiani..., che prendevano
d'assalto i passeggeri in arrivo o in partenza,
i loro parenti, i ferrovieri, i facchini e persino
le guardie che si accingevano a timbrare i passaporti
di chi stava nella speranza di poter varcare
la frontiera. L'aria condizionata leniva i nervi
tesi da quella lentezza forzata e dall'ansietà
dovuta al pericolo di graffi o ammaccature sull'immacolata
carrozzeria. La tempesta mi colse sulla strada
di Puerto Suarez. Ero arrivato alla frontiera
come un importante diplomatico, o sia pure,
come uno dei suoi autisti. I documenti in perfetta
regola. Avanti, adagio. Il torrente Concepción
e siamo in Bolivia.
- Buenas tardes, Señor. Documenti? -
Il soldatino sparisce nell'ufficio-capanna di
legno. Che staranno confabulando là dentro?
Di sicuro cercano un modo di spillarmi dei soldi.
- Los documentos rimangono con noi. Circolare.
- Lo stesso sguardo di pietra, fisso e sperduto
insieme.
- E come faccio a circolare? Devo ancora imbarcare
la macchina sul treno per Cochabamba e correre
all'aeroporto per il volo delle diciassette.
- Arregla?
- Arreglo. - Non esiste niente al mondo che
una buona mancia non possa "arreglar".
Ancora un bel po' di strada polverosa e piena
di buche e poi, finalmente, l'asfalto. Ma anche
il diluvio. Senza preavviso, senza vento, senza
tuoni né lampi. Una cascata per alcuni
chilometri quadrati che lascia presto ai margini
della "carretera" molti di quei pezzi
da museo che varcano ogni giorno il confine
fra i due paesi. Il mio bel colosso, invece,
procede imperterrito con i fari a fendere il
buio improvviso e la cortina d'acqua che gli
precipita ininterrottamente attorno indisturbata.
All'entrata di Puerto Suarez, pero', il mio
splendido anfibio si blocca all'improvviso.
Con tanti cavalli, il motore silenzioso e contenuto,
non s'imbizzarrisce e non scalpita. Semplicemente
tace del tutto e si ferma. Lo scroscio prosegue
senza cambiare tono. Dovrei girare a sinistra
per la stazioncina di Quijarro, lassù,
a poche decine di metri. Sono costretto invece
a scendere verso destra per imbroccare il lungo
rettilineo che da anni viene preparato per l'asfaltatura.
Mi sobbarco dunque l'ingrata incombenza di uscire
dal confortevole rifugio per cercare di spingere
il colosso. Giro la chiave e niente: il gigante
non si smuove neppure di un millimetro. Sotto
il diluvio, trovo ancora un volenteroso Noè
disposto ad aiutarmi a varare la mia "arca",
naturalmente dietro lo sgancio d'una manciata
di pesos (inzuppati anch'essi). Invogliato dalla
discesa, il motore si sveglia, come se niente
fosse successo. Mi fermo però, mio malgrado,
sul limitare del ponte - crollato pochi minuti
prima - sul Desaguadero, affluente boliviano
del torrente Concepción che adesso assomiglia
troppo alle rapide del fiume Niagara, prima
di sfociare nelle famose cascate. Faccio l'impossibile
per non far morire il motore bilanciando magistralmente
tra freno e frizione che boccheggiano in tant'acqua
come mai in vita loro. Ma, naturalmente, non
è tanto la vita della macchina che m'importa,
quanto quella dell'autista. Marcia indietro
e su, verso la "carretera" d'asfalto.
Inutile andare alla stazione, devo trovare il
modo di entrare in città e passarvi la
notte.
L'aereo pernotterà anch'esso nell'aeroporto
vicino. Trovo, più avanti, un viottolo
tra la vegetazione che invade fitta tutto il
bacino del Rio Paraguay. Mi accodo a una jeep
che mi fa strada su di una poltiglia di erbe,
di radici e di fango, aggirando il torrente
fino all'entrata nord della cittadina. Mi accomodo
alla bene meglio in un alberghetto della mala
morte, senza andare troppo per il sottile quanto
al colore delle lenzuola e del bagno. Mi accontento
del ventilatore che rimane a girare tutta la
notte nell'ingenuo quanto inutile tentativo
di spaventare le zanzare, micidiali e beffarde,
sprezzanti di quante barriere m'accanisca a
frapporre: lenzuola, calzini, vestiti, berretti.
Mi addormento, a dispetto dello stillicidio
del loro ronzio sommato a quello del ventilatore,
più rumore che vento, del sudore profuso
dai panni e dall'ambiente umido e surriscaldato,
nonché dell'incertezza dell'immediato
futuro. Mi sveglio madido di sudore e assillato
dall'impegno principale della giornata. Il sole
domina la baia e la vegetazione lussureggiante
sfoggia quel verde aggressivo, ora ripulito
per benino dall'acquazzone. Nessuno si sarebbe
neanche più ricordato della tempesta
recente se non fossero rimaste macerie e detriti
da tutte le parti. La ferrovia aveva sofferto
gravi danni in vari punti dei suoi 650 chilometri
di percorso ed era assolutamente impraticabile.
Dovetti perciò rassegnarmi a lasciare
la macchina presso un conoscente, dove sarebbe
rimasta fino al momento di poterla rimettere
sul treno. Così presi l'aereo e un'ora
dopo ero da Eleuteria. Lei m'accolse con una
felicità contagiosa. Ci amammo come pazzi
furiosi e, nell'acme degli spasimi orgasmici,
riuscii a raccontarle, a spizzichi, l'avventura
che avevo dovuto passare per portarle il regalo,
rimasto appresso.
- Che regalo?
- Una Landau.
- Una Landau? E che me ne faccio d'una portaerei.
Ne avrei preferito una piccola ed economica.
Me ne tornai via senza proteste né lacrime.
L'amore per Eleuteria finì di colpo.
Il ritorno fu più avventuroso e pieno
di imprevisti dell'andata e meriterebbe un altro
racconto, ma lasciamolo per un'altra volta e
solo se ci tenete davvero. Fatto sta che adesso
mi è passata da tempo la rabbia e lo
scorno. Pensandoci bene, anzi, non è
poi stato un gran disastro. Infatti, la mia
Landau è sempre con me, azzurra e luminosa
come non mai. Ho rimodernato i sedili, ho cambiato
i freni e la frizione, ho rettificato i cilindri
e la testata, ho fatto smerigliare le valvole
e le candele, ho cambiato persino il girabacchino,
con bielle e pistoni quasi nuovi. L'aria condizionata
è ancora in forma: basta cambiarle ogni
tanto il gas. E così posso portarmi a
spasso tutte le ragazze che voglio (e che lo
vogliano). E il motore non s'inceppa più.
Ammenocché qualche bel pezzo di figliola
non ne giustifichi un'improvvisa panne, apparentemente
casuale, da provocare in un posto tranquillo
e sicuro.
Un ménage-a-trois, insomma: lei, io e
la Landau.
(c) Giuseppe Butera
butera@ucdb.br
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