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Giuseppe Butera

Un viaggio in Landau
da PB10


Mi piacque fin dal primo momento in cui la vidi. Un vero colpo di fulmine.
- È eccezionale. È bella davvero. Ti farà felice. - João sapeva dire le cose. Come riusciva a convincere le persone con poche parole! Per questo gli affari gli andavano a gonfie vele. Del resto non c'era poi tanto bisogno di parole. Era da mozzare il fiato. Grande, azzurra, rifiniture cromate, aria condizionata, rivestimento interno lussuosissimo. È vero che l'ultimo proprietario doveva averla alquanto trascurata. Il sedile un po' sdrucito, cosa peraltro quasi impercettibile, e con alcuni buchini lasciati da cicche maldestre.
- Se vuoi, puoi fare come me, io compero solo questi modelli fuori moda, li metto perfettamente in regola, pago l'assicurazione più cara che ci sia, li mando a ripulire per benino, ci passo addirittura la cera da me, insomma, li rimetto su nuovi fiammanti, poi li porto a Corumbà e li vendo ai boliviani a metà prezzo. Me ne torno in treno e sporgo la denuncia per furto. Sapessi quanti ce n'è di furfanti che fanno i soldi a palate...
- No, no, per me va benissimo così. E poi penso di farne un regalo. Sai, una bella donna si merita qualcosa di principesco come questo. - Beato te. Da parte mia penso proprio che, dopo tutto, devo accontentarmi di quel che ci ricavo. Non si può aver tutto dalla vita... Beh, alcuni dei generosi consigli di João li ho ascoltati. La "Landau" se lo meritava, era la regina delle Ford. Il fatto che non producessero più quel modello era un ottimo motivo per tenersela cara e conservarla bene. La cappotta nera, sotto l'amoroso massaggio al silicone, venne fuori austera e brillante come doveva essere, nuova di zecca, appena uscita dai capannoni di Santo André. L'azzurro della scultorea carrozzeria germogliava vivido e scintillante al sole compiacente del dicembre ormai inoltrato. La cera morbida e trasparente ne aveva accarezzato a lungo le curve generose e gli spigoli, già smussati apposta fin dalla catena di montaggio, per conformarsi all'insistente andirivieni della flanella. Ne ribalti il cofano gigantesco e ti trovi davanti il monumentale motore da otto cilindri che ti fissa con la prosopopea d'un lord inglese. Le ruote si pavoneggiano con le gomme tronfie, a stento contenute dai cerchioni lucidati a specchio... L'ammirai a lungo mentre i manovali l'alloggiavano sul treno, con le trepidanti occhiate delle nonne che cedono il neonato all'infermiera per il primo bagnetto. O con gli sguardi gelosi dell'innamorato che permette alla sua ragazza di ballare con altri, facendo buon viso a cattivo gioco. Sguardi lubrici, forse, ma lunghi e impotenti perché non riescono a controllare i movimenti delle mani altrui e la forza del pensiero, d'altronde, non potrebbe giammai sostituire la sicurezza del contatto diretto. Salii sullo stesso treno. La cabina non ricordava neanche lontanamente un "Orient Express", ma era sufficientemente comoda. Lo scartamento ridotto della ferrovia installata dagli inglesi sessant'anni prima, però, rendeva un vero incubo le dieci ore di furibondo sballottamento che tagliava alla cieca il buio pesto della notte brasiliana. La luna era eccezionalmente assente dal suo posto consueto d'impietoso chiarore. Dietro una spessa coltre di nubi forse dormiva anch'essa, come tutti a quell'ora, o forse, insonne, scommetteva sul momento in cui sarebbe scoppiata l'inevitabile tempesta. Ma l'aria greve reggeva. E così per tutta la notte. Anche se confinati nel lettino frullatore, i pensieri, tra i brevi e ingarbugliati sogni, facevano la spola fra Eleuteria, obiettivo e meta di quella folle impresa, e il grande gioiello che portavo dietro quieto e silenzioso, incatenato nell'ultimo vagone. Le piacerà? Sicuramente. E come potrebbe non piacerle? E che succederà dopo? Mille domande. Mille fantasticherie...
La discesa dalla rampa fu solenne e trepidante come quella d'una miss, con manto e corona, lungo la scalinata imperiale montata ai piedi del recente trono. Sbrigai immediatamente le pratiche dello sdoganamento e m'infiltrai pazientemente fra un nugolo di piccoli venditori di chiclet, pamogna, choclo, pollo arrosto, sopa paraguaya, archi e frecce, cocar d'indiani..., che prendevano d'assalto i passeggeri in arrivo o in partenza, i loro parenti, i ferrovieri, i facchini e persino le guardie che si accingevano a timbrare i passaporti di chi stava nella speranza di poter varcare la frontiera. L'aria condizionata leniva i nervi tesi da quella lentezza forzata e dall'ansietà dovuta al pericolo di graffi o ammaccature sull'immacolata carrozzeria. La tempesta mi colse sulla strada di Puerto Suarez. Ero arrivato alla frontiera come un importante diplomatico, o sia pure, come uno dei suoi autisti. I documenti in perfetta regola. Avanti, adagio. Il torrente Concepción e siamo in Bolivia.
- Buenas tardes, Señor. Documenti? - Il soldatino sparisce nell'ufficio-capanna di legno. Che staranno confabulando là dentro? Di sicuro cercano un modo di spillarmi dei soldi.
- Los documentos rimangono con noi. Circolare. - Lo stesso sguardo di pietra, fisso e sperduto insieme.
- E come faccio a circolare? Devo ancora imbarcare la macchina sul treno per Cochabamba e correre all'aeroporto per il volo delle diciassette.
- Arregla?
- Arreglo. - Non esiste niente al mondo che una buona mancia non possa "arreglar". Ancora un bel po' di strada polverosa e piena di buche e poi, finalmente, l'asfalto. Ma anche il diluvio. Senza preavviso, senza vento, senza tuoni né lampi. Una cascata per alcuni chilometri quadrati che lascia presto ai margini della "carretera" molti di quei pezzi da museo che varcano ogni giorno il confine fra i due paesi. Il mio bel colosso, invece, procede imperterrito con i fari a fendere il buio improvviso e la cortina d'acqua che gli precipita ininterrottamente attorno indisturbata. All'entrata di Puerto Suarez, pero', il mio splendido anfibio si blocca all'improvviso. Con tanti cavalli, il motore silenzioso e contenuto, non s'imbizzarrisce e non scalpita. Semplicemente tace del tutto e si ferma. Lo scroscio prosegue senza cambiare tono. Dovrei girare a sinistra per la stazioncina di Quijarro, lassù, a poche decine di metri. Sono costretto invece a scendere verso destra per imbroccare il lungo rettilineo che da anni viene preparato per l'asfaltatura. Mi sobbarco dunque l'ingrata incombenza di uscire dal confortevole rifugio per cercare di spingere il colosso. Giro la chiave e niente: il gigante non si smuove neppure di un millimetro. Sotto il diluvio, trovo ancora un volenteroso Noè disposto ad aiutarmi a varare la mia "arca", naturalmente dietro lo sgancio d'una manciata di pesos (inzuppati anch'essi). Invogliato dalla discesa, il motore si sveglia, come se niente fosse successo. Mi fermo però, mio malgrado, sul limitare del ponte - crollato pochi minuti prima - sul Desaguadero, affluente boliviano del torrente Concepción che adesso assomiglia troppo alle rapide del fiume Niagara, prima di sfociare nelle famose cascate. Faccio l'impossibile per non far morire il motore bilanciando magistralmente tra freno e frizione che boccheggiano in tant'acqua come mai in vita loro. Ma, naturalmente, non è tanto la vita della macchina che m'importa, quanto quella dell'autista. Marcia indietro e su, verso la "carretera" d'asfalto. Inutile andare alla stazione, devo trovare il modo di entrare in città e passarvi la notte.
L'aereo pernotterà anch'esso nell'aeroporto vicino. Trovo, più avanti, un viottolo tra la vegetazione che invade fitta tutto il bacino del Rio Paraguay. Mi accodo a una jeep che mi fa strada su di una poltiglia di erbe, di radici e di fango, aggirando il torrente fino all'entrata nord della cittadina. Mi accomodo alla bene meglio in un alberghetto della mala morte, senza andare troppo per il sottile quanto al colore delle lenzuola e del bagno. Mi accontento del ventilatore che rimane a girare tutta la notte nell'ingenuo quanto inutile tentativo di spaventare le zanzare, micidiali e beffarde, sprezzanti di quante barriere m'accanisca a frapporre: lenzuola, calzini, vestiti, berretti. Mi addormento, a dispetto dello stillicidio del loro ronzio sommato a quello del ventilatore, più rumore che vento, del sudore profuso dai panni e dall'ambiente umido e surriscaldato, nonché dell'incertezza dell'immediato futuro. Mi sveglio madido di sudore e assillato dall'impegno principale della giornata. Il sole domina la baia e la vegetazione lussureggiante sfoggia quel verde aggressivo, ora ripulito per benino dall'acquazzone. Nessuno si sarebbe neanche più ricordato della tempesta recente se non fossero rimaste macerie e detriti da tutte le parti. La ferrovia aveva sofferto gravi danni in vari punti dei suoi 650 chilometri di percorso ed era assolutamente impraticabile. Dovetti perciò rassegnarmi a lasciare la macchina presso un conoscente, dove sarebbe rimasta fino al momento di poterla rimettere sul treno. Così presi l'aereo e un'ora dopo ero da Eleuteria. Lei m'accolse con una felicità contagiosa. Ci amammo come pazzi furiosi e, nell'acme degli spasimi orgasmici, riuscii a raccontarle, a spizzichi, l'avventura che avevo dovuto passare per portarle il regalo, rimasto appresso.
- Che regalo?
- Una Landau.
- Una Landau? E che me ne faccio d'una portaerei. Ne avrei preferito una piccola ed economica.
Me ne tornai via senza proteste né lacrime. L'amore per Eleuteria finì di colpo. Il ritorno fu più avventuroso e pieno di imprevisti dell'andata e meriterebbe un altro racconto, ma lasciamolo per un'altra volta e solo se ci tenete davvero. Fatto sta che adesso mi è passata da tempo la rabbia e lo scorno. Pensandoci bene, anzi, non è poi stato un gran disastro. Infatti, la mia Landau è sempre con me, azzurra e luminosa come non mai. Ho rimodernato i sedili, ho cambiato i freni e la frizione, ho rettificato i cilindri e la testata, ho fatto smerigliare le valvole e le candele, ho cambiato persino il girabacchino, con bielle e pistoni quasi nuovi. L'aria condizionata è ancora in forma: basta cambiarle ogni tanto il gas. E così posso portarmi a spasso tutte le ragazze che voglio (e che lo vogliano). E il motore non s'inceppa più. Ammenocché qualche bel pezzo di figliola non ne giustifichi un'improvvisa panne, apparentemente casuale, da provocare in un posto tranquillo e sicuro.
Un ménage-a-trois, insomma: lei, io e la Landau.

(c) Giuseppe Butera
butera@ucdb.br

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