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E’ vero, ero uno dei passeggeri del famoso volo 331 Parigi Roma… Se ne sono dette tante… Lei si chiederà come mai i sopravvissuti siano restii a raccontare ancora la loro storia, lo capirà, si, lo capirà dopo aver saputo come si sono svolti i fatti. Non posso dargli torto. Ai primi resoconti ci hanno considerati matti, vittime di allucinazioni o, peggio ancora, autori di chissà quali misfatti. Le posso assicurare che è stata un esperienza terribile e se avrà modo di interpellarli con il dovuto rispetto non sentirà parole molto dissimili dalle mie. Perché ho accettato di raccontarle la mia storia? Non lo so, lei mi ispira fiducia, credo di leggere nei suoi occhi una comprensione per le miserie umane che raramente ho riscontrato in altri; o forse solo perché è passato tanto tempo e, invecchiando, si tende a parlare troppo. Spero di non sbagliarmi sul suo conto e neanche sul mio. Non mi fraintenda. Non sono di quelle persone che vanno in giro cianciando ad alta voce pur di attirare l’attenzione del prossimo. Credo, immodestamente, di sapere qual è il mio posto in questo mondo, senza sopravvalutarmi. Tutt’altro. Il mio posto nel mondo non differisce da quello di ogni altro essere umano. Parlo solo del mio posto, badi bene, perché il ruolo è un’altra cosa. Del ruolo che mi è stato assegnato non ho la più pallida idea, per quanto mi sia sforzato non sono riuscito a trovare una risposta credibile. Anche in questo sono ormai sicuro di non essere molto differente dagli altri uomini. Alcuni sono convinti di conoscere la risposta, ma è come un telo davanti ai loro occhi, un telo sul quale si proietta un film, e credono si tratti della realtà. A volte, con il passare degli anni, capita che si squarci rivelando la sua vera essenza. E’ un bene o un male? Dal mio punto di vista dovrebbe sembrare un bene: finalmente si rendono conto di quanto li circonda, dovrei essere contento che la mia visione si confermi. Invece, in tutta franchezza, mi dispiace per loro, lo sconcerto e le sofferenze cui sono sottoposti non hanno alcun senso e non migliorano di un millimetro la situazione. Ma perché le sto dicendo tutto questo? Sicuramente non le interessano queste trite considerazioni. La ringrazio, si, la ringrazio molto delle sue parole… credo che sia il caso di tralasciare ulteriori voli pindarici per tornare all’argomento della nostra conversazione. Quella sera ero a bordo del volo decollato da Parigi con destinazione Roma Fiumicino. Il viaggio si era svolto tranquillamente e l’atterraggio era previsto per le 23 e 25 locali, pochi minuti di ritardo. Non ho mai avuto paura di volare, anzi trovo piacevole la sensazione di sospensione che ne deriva, mi risulta però difficile trattenere una leggera emozione quando l’aereo inizia a scendere verso terra. Sarà che la maggior parte degli incidenti capitano al decollo o all’atterraggio, lo sanno tutti… Sotto l’aereo sfilava il consueto presepio: Bracciano, le luci delle case, i fari delle autovetture, l’autostrada Roma Civitavecchia, l’illuminazione pubblica, poi dal finestrino vidi le luci della pista. L’aereo toccò terra con un lieve sobbalzo e il velivolo rallentò la sua corsa. L’atterraggio, ci faccia caso, è un momento magico, i passeggeri si risvegliano da uno stato di torpore e si preparano con piccoli gesti a riprendere le normali attività. Mi stiracchiai anch’io pensando al prossimo fine settimana. Avevo promesso ai miei figli di portarli al luna park ma l’idea non mi sorrideva affatto. Le luci soffuse furono riportate alla brillantezza abituale poi l’aereo rallentò ancora fino a fermarsi. I soliti intoppi, pensai, sembra quasi più complicato riuscire a scendere dall’aereo una volta atterrati, che compiere l’intero tragitto da Parigi a Roma. In volo si va, senza far nulla, senza incombenze, perché non succede la stessa cosa anche a terra? Un cicalino precedette la voce dell’assistente di volo che informava i gentili passeggeri che per motivi di congestione aeroportuale l’arrivo all’area di sbarco sarebbe stato ritardato. Scuse per l’inconveniente, eccetera, eccetera, grazie. Una vera scocciatura. Si arriva in orario ed ecco l’intoppo. Come dice? La legge di Murphy, si, la conosco. Una stupida traduzione nell’arido linguaggio moderno di verità note fin dall’antichità. Era quasi mezzanotte, che congestione poteva mai esserci a quell’ora? Guardai fuori dal finestrino senza scorgere altro che oscurità. Strano, pensai, in genere si vedono luci, gli edifici dell’aeroporto, altri aerei… che ci sia stato un black-out? Va a finire che qui ci passiamo la notte… Ancora non sapevo quanto ero nel giusto …
Come potrà facilmente immaginare, dopo qualche minuto di attesa i passeggeri iniziarono a dare segni di nervosismo ed alcuni apostrofarono l’equipaggio in malo modo. Stimati professionisti declamavano ad alta voce cariche onorifiche e aziendali atte a rendere più pressante la loro protesta. Sembra convinzione diffusa che dare lettura di alcune caselle di un organigramma possa aiutare a rimuovere banali impedimenti o gravi guasti tecnici. Sarà una moderna forma di esorcismo? Forse la formula magica “Sono l’Amministratore Delegato della Società Tal dei Tali” è in grado di provocare l’improvvisa eliminazione di un corto circuito o la riparazione istantanea di un tubo idraulico rotto… Alcuni lo credono. Sicuro effetto della formula è quello di esaltare lo stato di irritazione generale. A questo aggiunga le lagnanze dei Lamentosi e le spiegazioni dei Saccenti, altre due categorie da evitare con cura, insomma un disastro. La frustrazione generale era acuita dal fatto che, dopo numerosi tentativi, era ormai assodato che nessun telefono cellulare risultava funzionante per totale assenza di campo. Privato del succhiotto il bambino strepitava ancora di più. A un certo punto apparve nel corridoio il Comandante dell’aereo. No, non venne aggredito come lei ragionevolmente suppone. Fu sufficiente vedere la sua espressione per ammutolire: uno strano miscuglio di perplessa serietà. Non trovo le parole per descrivere come si accoppiassero in lui la professionalità del pilota e l’imbarazzo del bambino che ha appena visto l’incredibile. Era accaduto qualcosa di speciale, e di fronte a questa nuova consapevolezza non vi fu altro che silenzio. Il Comandante ci informò che dall’esterno non giungeva alcun segno di vita. Per quanti tentativi avesse fatto non era riuscito ad entrare in contatto con nessuno. Taceva la torre di controllo, tacevano gli altri settori operativi dell’aeroporto. La radio funzionava ma era completamente muta su tutte le frequenze ed anche gli altri strumenti di bordo fornivano informazioni inaffidabili e incoerenti. Perfino le luci della pista sulla quale eravamo appena atterrati si erano spente. Ci disse anche che non vi era nessun pericolo e che aveva deciso di scendere a terra per rendersi conto personalmente dell’accaduto. Forse ci invitò a non allontanarci dall’aereo in sua assenza ma non ne sono certo.
Abbassarono la scaletta anteriore dell’aereo e il Comandante scese con uno steward equipaggiato di torce elettriche. Durante l’attesa, malgrado le raccomandazioni e l’opposizione dell’equipaggio, alcuni passeggeri vollero scendere a loro volta dall’aereo e si allontanarono nel buio. Dopo circa mezz’ora i due esploratori fecero ritorno con notizie per nulla confortanti: avevano camminato verso sud giungendo in breve alla fine della pista, quindi avevano invertito la marcia. Anche in quella direzione erano arrivati rapidamente al termine della striscia di asfalto. Dal tempo impiegato per completare il tragitto il Comandante dedusse che, oltre a tutto il resto, anche buona parte della pista non esisteva più. Non era rimasto altro che un pezzo di campagna pavimentata, l’aereo e noi stessi. Capisco la sua incredulità, qui, seduti in questo bar con un boccale di birra davanti. Guardi attraverso la vetrata: si vedono passare persone, macchine, la vita insomma. Immagini adesso che là fuori non vi sia che brulla campagna a perdita d’occhio, nient'altro. Non ci riesce? E’ normale, certe situazioni non si immaginano, si vivono; o niente. Qualcuno dice che quando ci si trova di fronte a eventi incomprensibili scattano meccanismi interpretativi fuori dal normale. Le posso assicurare che non è vero, non scatta proprio nulla, si rimane semplicemente sospesi, in attesa. Ricordo perfettamente le parole surreali che furono pronunciate in quel frangente: una hostess mormorò “E’ scomparso tutto?”. “Già” si limitò a dire il Comandante. “Magari siamo morti…” proseguì la ragazza. “Non dire cretinate”, ribatté l’altro, “l’aereo è tutto intero, noi pure, e se ti tiro uno schiaffo lo senti, eccome”. “E tu che ne sai com’è? Sei mai morto prima?” fu l’ultima battuta della ragazza. Il Comandante preferì non rispondere. Non restava altro che aspettare l’alba per decidere il da farsi. Nel corso della notte i pochi passeggeri che si erano allontanati rientrarono, non avevano incontrato anima viva né manufatti di alcun genere. Può immaginare con quale ansia aspettassimo il sorgere del sole, alle prime luci dell’alba eravamo tutti in osservazione della campagna circostante. Mano a mano che la luce si diffondeva risultò chiarissimo che, fin dove poteva spingersi lo sguardo, non vi era altro se non erba, cespugli, alberi. Le posso assicurare che quello fu un brutto momento… il momento in cui ci rendemmo conto che non si trattava solo di un sogno… di uno scherzo… la conferma che era avvenuto qualcosa di irreparabile. Malgrado qualsiasi sforzo o ragionamento, nessuno era riuscito a trovare una motivazione logica all’accaduto. Le uniche spiegazioni plausibili erano un salto in un universo parallelo, una distorsione del tempo, l’intervento misterioso di improbabili alieni… Sorride? Ha proprio ragione, si figuri quanto queste ipotesi potessero essere consolatorie per degli uomini del XXI secolo! Per non parlare poi dei pensieri che ognuno di noi aveva rivolto fin dall’inizio ai propri cari. Ovunque fossero erano sicuramente in pensiero. Se ancora esistevano, certo.
Mi chiede cosa era successo? Ora! Un racconto va ascoltato senza saltare alle conclusioni e a questo punto della storia che importanza ha? Non lo sapevamo noi, non lo deve sapere neanche lei, altrimenti che senso avrebbero il mio racconto e il suo interessamento? Credevo che… Per carità! Non si scusi… E’ colpa mia… Dopo quello che ho passato tendo ad essere un po’ brusco di tanto in tanto e la sua curiosità è più che comprensibile. La ringrazio ancora per la premura che dimostra nei miei confronti, le assicuro che è sempre un piacere parlare con persone che dimostrano tanta sensibilità. Come le stavo dicendo, la situazione non si era per nulla chiarita con il sorgere del sole. Tutte le nostre perplessità rimanevano intatte. D’ora in poi, con il suo permesso, ometterò di tornare su questo aspetto che, come di certo comprenderà, ha continuato a tormentarci nel corso dell’intera vicenda. I semplici fatti saranno più che sufficienti a rivelare quanto ognuno di noi potesse provare in quei momenti. Accettammo la proposta del Comandante, parve ragionevole a tutti che un gruppetto di noi andasse in cerca di aiuto mentre gli altri rimanevano presso l’aereo nel caso qualcuno fosse venuto a soccorrerci. I dieci uomini che dovevano partire per l’esplorazione si equipaggiarono alla meno peggio con alcuni attrezzi reperiti sul velivolo e si allontanarono guidati dal secondo pilota con l’intesa di far ritorno entro il calare del sole. Nel frattempo, noi che eravamo rimasti, avremmo scaricato la stiva del velivolo per fare un inventario di quanto, tra i bagagli e la dotazione di bordo, potesse essere utile per affrontare la situazione. Fortunatamente si trattava di un aereo di media dimensione, non fu particolarmente accedere alla stiva e alcune signore si cambiarono con indumenti più comodi contenuti nelle loro valigie. Esaminammo anche la piccola scorta di viveri e bevande costituita dal catering di bordo, con un minimo di attenzione avrebbe potuto bastare per un paio di giorni. In quel momento ci parve un’ottima notizia: credevamo ancora che in capo a poche ore saremmo tornati alla più completa normalità. Prima di mezzogiorno avevamo terminato di radunare l’attrezzatura e il resto della giornata passò inoperoso. Tentammo di nuovo di captare qualche segnale con la radio, senza successo. Verso sera rientrò la squadra inviata in esplorazione. Dopo aver raggiunto la costa si erano diretti verso sud, fino alla foce del Tevere, senza incontrare alcun segno di presenza umana. Dove sorgeva il paese di Fiumicino non vi erano altro che arbusti e macchia mediterranea. La spiaggia correva libera e pulita per tutto il tratto che avevano percorso. Solo lungo il fiume alcuni blocchi di pietra potevano sembrare squadrati da mano umana. Fu deciso di tentare, il giorno dopo, una sortita verso nord. Già avrà intuito l’esito di questa seconda iniziativa… La squadra però non fece ritorno come previsto la sera successiva destando generale preoccupazione. I viveri si assottigliavano ed alcuni volenterosi si diedero da fare per raccogliere frutti dagli alberi presenti nei dintorni. Erano selvatici ma commestibili e saporiti. Non potevamo restare ancora a lungo fermi in quel luogo. Era chiaro che nessuno sarebbe venuto a prelevarci in tempi brevi e dovevamo tentare di raggiungere al più presto un centro abitato. Il tratto di pista residuo non consentiva all’aereo di ripartire e quindi dovevamo allontanarci a piedi. Alcuni paventavano che l’intera terra fosse rimasta colpita dallo strano fenomeno. Prima di rassegnarci ad una simile eventualità dovevamo scoprire se effettivamente la situazione fosse generalizzata o se eravamo capitati in una limitata area anomala. L’indomani radunammo i nostri averi ed i pochi viveri residui; avevamo realizzato numerosi zaini di fortuna ed ognuno si caricò quanto più peso poteva trasportare. Sull’aereo lasciammo un messaggio con indicazioni utili ad eventuali soccorritori per seguire le nostre tracce. Qualcuno osservò che smontando il velivolo avremmo potuto ricavarne pezzi da usare come utensili, ma nessuno ebbe voglia di impegnarsi nell’impresa. Raggiunta la spiaggia ci dirigemmo verso nord con la speranza di incontrare i compagni che ci avevano preceduto. Così ebbe inizio la nostra avventura.
No, certo, ha ragione… non è che prima non fosse successo nulla. Capisco che è opportuno precisare meglio la mia affermazione: finora le ho esposto le circostanze che ci avevano portati a metterci in cammino. Per quanto strane, erano solo circostanze, una specie di prologo, una soglia di ingresso ad un altro livello degli eventi. Varcammo quella soglia nel momento in cui ci allontanammo dall’aereo, dall’ultimo elemento di contatto con il mondo così come lo conoscevamo. In quel frangente si verificò un cambiamento radicale: l’equipaggio ed i passeggeri cessarono di essere un gruppo indistinto, emersero le individualità, i pensieri, le volontà, i meccanismi sociali. Non è cosa da poco. Fino a pochi attimi prima ritenevamo di essere transitoriamente accomunati da una brutta esperienza. Adesso, senza ancora rendercene conto in modo consapevole, intuivamo che quella sarebbe stata la nostra vita per un significativo lasso di tempo. E non è la stessa cosa. La solidarietà occasionale che si dimostra nei confronti di un estraneo è molto più spontanea rispetto a quella che concediamo a coloro con i quali dobbiamo confrontarci quotidianamente. Si può donare disinteressatamente solo agli sconosciuti. Con i familiari e gli amici siamo molto più esigenti. Pretendiamo, ah, quanto pretendiamo! Beneficiamo le persone che ci interessano solo per metterle alla prova e giudicarle. Per questo le convivenze sono difficili, se non impossibili. Si può tollerare quasi tutto per un tempo limitato ma la durata no, con la durata si supera qualsiasi limite. La vedo pensieroso, forse non si era mai soffermato a pensare a queste cose… Eppure questo accadde su quella spiaggia, senza rendersene conto ognuno di noi costruì uno steccato invisibile attorno a sé. Più o meno ampio, più o meno alto, a seconda della propria indole. Destinato a consolidarsi sempre di più. Inevitabilmente. La soglia era stata attraversata ed i risultati non avrebbero tardato a manifestarsi.
La marcia non procedeva spedita, occorreva regolare il passo sui più lenti. Fortunatamente non vi erano bambini piccoli, il passeggero più giovane aveva circa quattordici anni, in compenso vi erano alcune persone anziane ed altre due con problemi motori che rallentavano l’andatura anche quando decidemmo di sollevarli dal compito di portare il piccolo carico che gli era stato inizialmente affidato. Per migliorare la disponibilità di viveri trovammo conveniente alternare giornate di marcia a giornate di sosta in luoghi favorevoli per pescare, raccogliere molluschi o frutti selvatici. Certi giorni, spingendoci verso l’interno, con un po’ di fortuna all’inizio e sempre maggiore abilità in seguito, riuscivamo anche a catturare piccoli animali e uccelli. Più tardi eravamo diventati così bravi da riuscire ad abbattere con lance artigianali, sassi e bastoni anche animali di maggiori dimensioni come daini o cinghiali. Prima di ripartire impacchettavamo le scorte alimentari e consumavamo i pasti nel corso di brevi soste. Non soffrivamo di particolari carenze di cibo, né tanto meno di sete. L’entroterra era sufficientemente ben fornito di ruscelli, laghetti o altre fonti di approvvigionamento di acqua di qualità accettabile. Per la notte avevamo coperte e teli impermeabili con i quali approntavamo un campo di emergenza. La stagione era ancora favorevole e, almeno in una prima fase, non fummo sottoposti a particolari intemperie. Le fornisco adesso queste informazioni per non dilungarmi su questi dettagli in seguito, così può farsi un quadro d’insieme delle nostre condizioni di vita ed evitare che la curiosità per notizie del tutto marginali la distragga dagli eventi principali.
Come detto ci avviammo verso nord seguendo la costa. Era sembrata la soluzione più ragionevole, ritenevamo che lungo la spiaggia avremmo incontrato minori ostacoli ed avremmo avuto maggiori possibilità di ricongiungerci con i compagni che ci avevano preceduto. Infatti, due giorni dopo, dai cespugli che sormontavano le basse dune sulla nostra destra sbucò uno di loro. Avevano calcolato male i tempi e le difficoltà del percorso, all’imbrunire si erano avventurati verso l’interno per essere più spediti nel ritornare all’aereo. Purtroppo un membro della spedizione era caduto in un burrone ferendosi gravemente. Data la conformazione molto angusta del crepaccio non erano riusciti, nonostante numerosi tentativi, a tirarlo fuori con i pochi mezzi a disposizione. Uno di loro si era calato nel burrone per assistere il malcapitato ed era rimasto a sua volta bloccato all’interno della fenditura nella roccia. Ci recammo sul posto per constatare quanto fosse insidiosa l’operazione di salvataggio. Solo dopo una intera giornata di lavoro riuscimmo ad imbracare il ferito ed estrarlo dal crepaccio a forza di braccia. Nella caduta, oltre alla evidente frattura di una gamba, all’altezza della tibia, il poveretto aveva anche battuto violentemente il capo ed un fianco. A tratti perdeva conoscenza ed era affetto da tremiti e sbandamenti. Questi sintomi ci fecero supporre che avesse riportato gravi lesioni interne. Non avevamo alcuno strumento, oltre alla logica, per verificare i nostri timori. Il caso aveva fatto sì che tra i passeggeri vi fosse un’infermiera, così affidammo il ferito alle sue cure ed alla piccola provvista di medicinali della cassetta di pronto soccorso dell’aereo. Dotazione che si rivelò del tutto insufficiente per un caso così grave e, successivamente, per un così nutrito gruppo di persone. Non credo di averle detto finora che, tra passeggeri ed equipaggio, eravamo in centoventisette. Centoventisette persone che si stavano rendendo conto di quante cose dessero per scontate in precedenza: la disponibilità di medici e attrezzature sanitarie, un tetto sotto il quale ripararsi, un negozio per acquistare cibi, un rubinetto per l’acqua, un interruttore per la luce e così via. Per trasportare il ferito fabbricammo una rudimentale barella intrecciando canne, rami e un telo. L’indomani di buon ora ci rimettemmo in cammino. Per quanto ci alternassimo nel trasporto della barella, la marcia ne fu ulteriormente rallentata. I più prestanti sopravanzavano il resto del gruppo di un bel tratto, oppure si spingevano all’interno approfittando del tempo disponibile per rimediare qualcosa da mangiare o riposarsi. Nel frattempo i più lenti, il ferito ed i suoi portatori procedevano senza sosta accumulando fatica su fatica. Le condizioni del malcapitato peggioravano di ora in ora, durante i rari momenti di coscienza non faceva altro che vaneggiare, era ormai chiaro che non avrebbe retto ancora per molto. Decidemmo di fermarci in attesa della fine che non tardò a sopraggiungere. Tra la costernazione generale fu scavata una fossa e vi fu deposto il corpo inanimato. Il Comandante improvvisò una preghiera, sicuramente imperfetta in termini canonici ma quanto mai toccante, tant’è che molti di noi si trovarono con le lacrime agli occhi. Piangevamo, sissignore, piangevamo davvero; non mi chieda però quanto per quel poveretto e quanto per noi stessi. In silenzio qualcuno piantò sul misero tumulo una croce fatta con due pezzi di legno tenuti insieme da uno spago. Sopra, a stento, vi era stato inciso con un temperino un semplice nome: Saverio De Rossi.
I giorni successivi furono tutti uguali. Per una settimana intera continuammo ad avanzare senza alcun costrutto finché il nostro morale fu messo a dura prova da un secondo decesso: all’improvviso un uomo si accasciò a terra ed in breve spirò senza che si potesse fare nulla per lui. Dai sintomi fu evidente che si era trattato di un attacco cardiaco. Forse una predisposizione fisiologica aggravata dallo stress e dalle fatiche del viaggio. Anche lui fu sepolto come il primo, solo il nome sulla croce era diverso: Andrea Locatelli. Almeno credo… si mi sembra di ricordare che il nome fosse quello. Andrea di sicuro… Strana cosa la memoria, si pensa di aver vissuto esperienze indelebili, poi il tempo passa… L’evento ci fece riflettere sulle modalità di gestione della spedizione, era evidente che il gruppo era composto da due anime. La prima vigorosa e forte, la seconda più debole e lenta. La prima premeva per accelerare e disponeva di ingenti riserve di energia inutilizzata, la seconda invece si impegnava oltre i propri limiti giungendo ogni giorno più stremata alla fine del tragitto. L’avventura si andava prolungando oltre le nostre più cupe previsioni e non sarebbe stato possibile procedere con questi ritmi per molto tempo ancora. Alcuni tra i più deboli temevano di cedere alla fatica, come era già successo ad Andrea. Una sera si tenne un consiglio sull’argomento e fu deciso di dividersi in due gruppi. Una parte, che lei mi permetterà di chiamare per semplicità i Veloci, avrebbe proseguito in avanscoperta mentre gli altri, che chiamerò i Lenti, avrebbero proceduto più lentamente, accompagnati da alcuni abili cacciatori per assicurarne il sostentamento e le altre incombenze pesanti. Anche se il mio aspetto potrà indurla a dubitarne facevo parte del gruppo dei Veloci, che era composto da un ottantina di persone. L’intesa era che avremmo proceduto speditamente per una settimana per poi fermarci, predisporre un campo e attendere l’arrivo dei Lenti. Tutto questo nella speranza di entrare in contatto nel più breve tempo possibile con altri esseri umani e recuperare i Lenti senza sottoporli ad inutili tour de force.
Sarebbe noioso descrivere i sette giorni di marcia successivi, come stabilito dopo una settimana ci fermammo per costruire capanne e rifugi del campo base. Devo dire che il frutto del nostro lavoro si rivelò niente male, peccava certo di comfort ma era il massimo che si poteva ottenere date le circostanze. L’attesa dell’arrivo dei Lenti si protrasse per oltre dieci giorni, in parte occupati ad esplorare l’entroterra. L’attesa e l’inattività ci rendevano nervosi e irascibili. Iniziarono a manifestarsi i primi attriti tra di noi. Finché si è occupati in attività impegnative la mente si concentra su quelle, nell’ozio invece si attarda su dettagli insignificanti. Forse, come lei giustamente osserva, non ci si orienta su cose diverse a seconda del momento ma si affrontano gli ostacoli in ordine di priorità. L’attenzione sale di un livello per poi ridiscendere in funzione delle sollecitazioni esterne. Comunque sia, finalmente arrivarono i Lenti a porre momentaneamente fine ad ogni polemica. Passammo alcune ore a raccontarci i piccoli eventi che avevano caratterizzato i rispettivi tragitti e all’alba noi Veloci ripartimmo per ripetere quello schema di conquista graduale del territorio.
Altri tre giorni passarono senza note degne di rilievo finché, una notte, fummo svegliati da un urlo straziante. Come ogni sera ci eravamo accampati in ordine sparso, discosti dal mare, là dove finisce la spiaggia e inizia la vegetazione. Mi svegliai di botto cercando di capire cosa stava accadendo, la luna alta nel cielo illuminava a sufficienza la scena per scorgere alla mia sinistra, alla distanza di una ventina di metri, delle sagome in lotta che emettevano suoni inarticolati. Nello stesso istante percepii un tanfo terribile che mi stordì, vidi gli altri alzarsi ed avventarsi sulle sagome in colluttazione. Rimasi completamente immobile, pietrificato dallo spavento. Alcune ombre si allontanarono correndo nella macchia, altre rimasero assembrate nelle vicinanze. Poi qualcuno mi chiese se mi sentivo bene, meccanicamente assentii e mi alzai. Avvicinandomi vidi a terra un corpo dilaniato. Quale belva aveva provocato tanto scempio? Solo interrogandoci a vicenda riuscimmo a stabilire che la vittima era Michel De La Barre, un giovane belga, tra i più simpatici e disponibili del gruppo. I suoi miseri resti furono sepolti ancor prima dell’alba. Non scoprimmo mai di che animale si trattasse, anche chi l’aveva colpito con lance e bastoni non era riuscito a distinguerne le sembianze. Le descrizioni non collimavano, l'odore e le tracce che aveva lasciato dietro di sé ci erano del tutto sconosciuti. Solo grazie all’intervento dei miei compagni più pronti si erano potuti evitare altri danni e ancora oggi mi vergogno del mio comportamento in quel frangente. Nessuno me ne fece una colpa e non fui il solo a rimanere inebetito e immobile. Non si nasce tutti eroi, è vero, ma si può tentare.
Istituimmo fuochi e turni di guardia notturni, come non averci pensato prima… non vi furono altri assalti. Dopo altri due giorni di cammino arrivammo alla foce di un fiume immenso. Formava un largo estuario di cui si scorgeva a malapena l’altra riva. Bastava guardarlo per intuire la potenza delle correnti che lo animavano e, nel corso delle ore, ammirammo affascinati le interferenze tra la corrente del fiume e la marea nelle sue varie fasi. Impossibile passare in quel punto, il pericolo era troppo grande e imprevedibile. Iniziammo così a risalire il corso del fiume alla ricerca di acque meno infide. Procedere verso l’interno del paese fu una vera tortura, gli insetti ci tormentavano, incontrammo ostacoli di ogni sorta: rocce, vegetazione, terreni paludosi, umidità asfissiante. Più ci inoltravamo in quelle lande inospitali più cresceva la nostra frenesia e determinazione a sconfiggere quel nemico. Passare dall’altra parte ad ogni costo era l’unico dei nostri pensieri. Non parlavamo d’altro, esaminavamo i pro e i contro di ogni sistema che ci veniva in mente per sormontare l’ostacolo. Quando ripenso a quei momenti ancora non mi rendo conto di cosa ci avesse preso. A nostra discolpa ci siamo spesso confortati immaginando che una volontà esterna si fosse impadronita delle nostre menti, che in qualche modo quello fosse un paese incantato. Forse esiste qualche erba, un polline, un’esalazione, o che so io, che inibisce alcune funzioni cerebrali e ne lascia intatte altre. Non sa cosa dire? Neanch’io e nemmeno i miei compagni. Solo dopo ci rendemmo conto che era passata ben più di una settimana e che da un bel pezzo avremmo dovuto fermarci ad aspettare l’arrivo dei Lenti. In quel momento una forza irrefrenabile ci spinse a costruire con tronchi e liane delle rudimentali zattere per raggiungere l’unica cosa che ci interessava: l’altra sponda. Varate le nostre precarie imbarcazioni iniziammo la traversata. Anche in quel punto la corrente era molto forte e con i nostri remi di fortuna riuscivamo a dirigere le zattere con grande difficoltà. A forza di braccia fummo in breve più o meno a metà del percorso. Avevamo collegato tra loro le zattere con delle liane intrecciate per non disperderci ma ad un certo punto uno strattone più violento spezzò la catena in due tronconi. Il primo, sul quale mi trovavo, fu catturato da un vortice favorevole che ci aiutò non poco ad avvicinarci alla riva opposta dove giungemmo con pochi sforzi; l’altro, composto da due zattere con a bordo una ventina di persone, fu trascinato a valle a gran velocità. Vedevamo i nostri compagni agitarsi nel tentativo di governare, presto però scomparvero alla nostra vista. La riva sulla quale eravamo sbarcati era inospitale almeno quanto quella che avevamo appena lasciato. Per tornare sulla costa decidemmo di navigare lungo il bordo del fiume con grande attenzione, pronti a riguadagnare la riva al minimo sentore di pericolo. Lo sguardo era continuamente rivolto in avanti alla ricerca dei nostri sfortunati compagni. Li ritrovammo dopo un’ansa del corso d’acqua, bagnati fradici ma in buone condizioni. Non tutti purtroppo: tre di loro erano stati travolti dalla corrente. Là dove il fiume piegava a sinistra, la traiettoria seguita dalle zattere, che nel frattempo si andavano squassando, li aveva avvicinati alla sponda. Temendo di affrontare la foce del fiume su quelle fragili imbarcazioni in via di disfacimento, avevano deciso di buttarsi in acqua per tentare di raggiungere a nuoto la salvezza. Con grande fatica vi erano riusciti ma Gianni Rinaldi, Chiara Presutti e Roberto Loffredi non ce l’avevano fatta.
Riguadagnammo la costa. Le onde lambivano indifferenti la sabbia e solo allora ci rendemmo conto di quello che avevamo fatto: avevamo abbandonato al loro destino i nostri compagni di sventura. In preda a chissà quale demone avevamo osato attraversare il fiume, di certo non avremmo ripetuto l’impresa in senso inverso adesso che eravamo privi di quella spinta irrazionale. E a che scopo poi… i Lenti, anche volendo, non avrebbero potuto affrontare la traversata. Ricongiungersi voleva dire restare bloccati in una trappola: da una parte il fiume, dall’altra l’entroterra, impossibile da affrontare. Molto meglio proseguire, nella speranza di incontrare qualcuno e tornare a soccorrere i Lenti con mezzi idonei. Ha ragione, erano solo giustificazioni … Ma che altro potevamo fare? Ormai eravamo dall’altra parte. Dovevamo restare seduti e lasciarci morire? Se le fa piacere dirò come lei desidera, non è così lontano dalla verità e le parole in fondo non costano niente … Fu l’intento di salvare noi stessi a spingerci ad attraversare il fiume e proseguire il cammino, l’illusione di contribuire a salvare gli altri era solo una ignobile scusa per tacitare le nostre coscienze. Eppure ognuno in cuor suo covava l’amarezza di aver fatto la cosa sbagliata. Così è la vita… Sapevamo perfettamente e non osavamo ammettere che non li avremmo mai più rivisti, non avremmo mai più visto né sentito Marta Frigo che ci cantava le canzoni di Zucchero, Julien Clavel ineffabile francese, Giorgio Mastella assistente di bordo, Lina e i suoi piercing, Carlo Pinto informatico, Francesco, anziano gentiluomo pugliese, Dino dirigente d’azienda, Paola Tessari con i suoi piedi pieni di vesciche, Marcello, Nino, Valerio, Anna e tutti gli altri Lenti che erano rimasti sull’altra riva di quel maledetto fiume.
Ormai non tenevamo più il conto dei giorni che passavano, solo l’occasionale consultazione di apparecchi elettronici con le pile ancora efficienti ci ricordava che erano trascorsi oltre tre mesi da quando avevamo abbandonato l’aereo. Dopo l’attraversamento del fiume il gruppo si era diviso in due fazioni. Non fu una contrapposizione improvvisa; insensibilmente e senza dichiarazioni esplicite si venne a determinare una spaccatura insanabile. Da una parte chi non riusciva ad accettare il fatto di aver abbandonato i Lenti proponeva di inoltrarsi verso l’interno con la recondita speranza di trovare un varco per riuscire a recuperare i compagni lasciati indietro. Ancora quell’irragionevole illusione volta solo a lenire un senso di colpa. Dall’altra quelli che erano convinti che occorresse proseguire la marcia lungo la costa che offriva maggiori possibilità di successo. La contrapposizione delle due fazioni provocava attriti e rallentamenti.
E’ sempre interessante vedere le cose da un altro punto di vista. Sono pienamente d’accordo con lei quando afferma che ad ogni bivio resta sempre il dubbio, non verificabile, se si è imboccata o meno la strada migliore, così come quando dice che non esiste scelta giusta a priori ma ne esiste una diversa per ognuno di noi. Sto semplificando, m’intenda, lei lo ha espresso in termini più chiari e argomentati. Non riesco invece a condividere fino in fondo i suoi convincimenti sull’animo umano. Capisco che entrambi abbiamo approfondito il tema e riteniamo, a torto o a ragione, di esserne profondi conoscitori, eppure le nostre conclusioni sono quasi diametralmente opposte. La mia posizione è molto più disincantata della sua. Ho avuto modo di osservare in prima persona comportamenti tali da confutare in modo evidente le sue affermazioni. In un mondo ideale forse la gente farebbe quello che lei dice, la realtà è tutta un’altra cosa. Ma vedo che non riesco a scalfire la fiducia che lei ripone nell’uomo e nella sua possibilità di raggiungere, con la sola volontà, livelli di elevazione morale non indifferenti. Mi fa piacere che esistano idealisti come lei. Servono. Nelle situazioni però bisogna trovarcisi per sapere cosa si prova e come si reagisce… Le sue rimostranze mi fanno comprendere che sicuramente sto sbagliando il tono di voce. Non mi fraintenda, stavo solo accalorandomi nell’esprimere una mia opinione, ancora non ritengo di essere depositario di verità assolute anche se, nel caso specifico, non credo di esserne molto distante. Lo dimostra l’evidenza dei fatti. D’altronde è ancora da dimostrare se nell’uomo prevalga l’istinto di conservazione individuale o quello della specie, oppure in quali occasioni l’uno e in quali l’altro… Credo sia meglio tornare alla vicenda che le stavo raccontando prima della sua interruzione. Il tempo passava e i due schieramenti si delineavano in maniera sempre più evidente finché un giorno accadde l’irreparabile. In tutti i gruppi alcuni individui emergono, diventano punti di riferimento, interpreti di opinioni diffuse. Non voglio dilungarmi su dinamiche sociali che lei sicuramente conosce meglio di me. Una sera, tra i più riconosciuti esponenti delle due correnti di pensiero, si accese una animata discussione. In breve i toni divennero aspri e, non si seppe mai per quale motivo, uno di loro diede una violenta spinta al suo interlocutore. L’uomo cadde all’indietro in un piccolo avvallamento del terreno battendo la testa sulle rocce. Morto. Sul colpo. Capisce? Ucciso. Certo che fu una disgrazia, nessuno di noi ne dubitò mai, eppure determinò la definitiva spaccatura del gruppo. I presenti capirono subito la gravità dell’evento e il colpevole… no, il responsabile, è più corretto. Dicevo, il responsabile ne rimase annichilito. Non faceva altro che ripetere Non volevo… Non volevo… Non volevo… Per giorni non disse altro, non mangiò quasi nulla, rifiutò ogni contatto. Nel frattempo Diego Nasi giaceva a terra, con la testa bionda reclinata sulla destra, con il sangue che gocciava sulla roccia. Neanche molto. Lo seppellimmo in fretta. Nessuno si sentì di recitare una preghiera in suo onore. D’altronde non lo avevamo più fatto per nessuno. Due giorni dopo ci separammo. Una cinquantina di persone continuò lungo la costa mentre con altre trenta ci avviammo verso l’interno. Non le sto a descrivere le difficoltà ed i pericoli cui fummo sottoposti. Due di noi persero la vita in altrettanti incidenti: Renato, travolto da un cinghiale, spirò dopo due giorni di sofferenze; Marco, il fotografo, cadde in un burrone e fummo costretti a lasciare la sua salma alla mercé di intemperie, insetti ed altri animali. Dopo due settimane di marcia massacrante eravamo stremati. Fummo costretti ad ammettere che la nostra era stata una scelta infelice. La costa era veramente il percorso più agevole, inoltre quattro di noi erano feriti. A malincuore decidemmo di tornare verso il mare… Ha fatto bene a ricordarmelo. Ha proprio ragione: ce ne eravamo dimenticati e non è un dettaglio privo di significato. L’idea di ricongiungerci con i Lenti era completamente scomparsa dalla nostra mente. Come? Molto semplicemente: era svanita a fronte delle nostre sofferenze personali. Non c’era più, o meglio, non faceva più presa sulle nostre coscienze. E’ banale: nuove esigenze avevano superato e ricoperto le vecchie. Sarebbero riemerse solo in un secondo tempo, a tormentarci.
Il ritorno alla costa fu altrettanto penoso dell’andata anche se adottammo un percorso diverso. Arrivati al mare ci fermammo alcuni giorni a riprendere le forze prima di incamminarci nuovamente verso nord. Procedevamo meccanicamente, non so cosa ci spingesse ad andare avanti, quale automatismo induca le persone a resistere anche nelle più sconfortanti condizioni. Un giorno scorgemmo in lontananza una figura in movimento, era senz’altro un uomo! Si può figurare la nostra eccitazione: avanzammo con il cuore in tumulto verso quella persona che faceva ampi gesti con le braccia al nostro indirizzo. Avrà già immaginato che altri non era se non uno dei nostri compagni dai quali ci eravamo separati molti giorni prima. Non fu spiacevole incontrarsi anche se il nostro orgoglio subiva un duro colpo a dover ammettere pubblicamente la sconfitta. Fu un pensiero che durò poco. Si dissolse non appena raggiungemmo il loro accampamento. Davanti ai nostri occhi uno spettacolo da far stringere il cuore: ovunque giacevano corpi anneriti senza vita in parte coperti da una strana muffa giallastra. Gli arti di alcuni cadaveri erano talmente sottili da apparire semplici ossa coperte di pelle brunita, i pochi capelli ancora fissati al cranio dei malcapitati erano ritti e iridescenti. A stento riuscivamo a riconoscere i nostri compagni di un tempo in quelle terribili mummie. Con ulteriore sconcerto e orrore ci rendemmo conto che alcuni di quei miseri resti ancora si muovevano emettendo scricchiolii inarticolati. Non riuscivamo a trovare il coraggio di avvicinarci. E non solo il coraggio. La vista era talmente raccapricciante che una parte di noi fu colta da malori di vario genere. Ci allontanammo dal campo con uno dei superstiti che ci spiegò come l’intero gruppo, ad esclusione di cinque persone, fosse stato colpito da quella orribile malattia. Si manifestava con iniziali capogiri, seguiti da una febbre altissima che dopo due o tre giorni si abbassava senza scomparire del tutto. Nel frattempo si formavano macchie scure sulla pelle che lentamente si propagavano all’intero corpo provocando la caduta di capelli e unghie. Durante questo periodo il malato non presentava altri sintomi particolari, se non spossatezza ed un leggero calo dell’appetito. Escludendo, ovviamente, la sofferenza interiore derivante dalla osservazione del proprio inarrestabile degrado fisico. Il dolore compariva quando la pelle brunita cominciava a secernere la strana muffa che avevamo visto. A quel punto il disgraziato cessava di alimentarsi e cadeva in uno stato di quasi assoluta incoscienza scosso solo di tanto in tanto da brividi e lamenti, quindi subentrava la morte. Nel corso della malattia il corpo si incartapecoriva progressivamente fino a risultare quasi completamente disseccato. Nessuno era riuscito a scoprire l’origine del contagio ed i motivi per i quali alcuni ne erano rimasti immuni. Tutti avevano mangiato le stesse cose, bevuto la stessa acqua ed assistito insieme i primi infermi. Qualche forma di immunità congenita li aveva salvaguardati dall’attacco del morbo. In ventisei erano già morti: il Comandante, Teresa Fiasconaro, Giulio, Matteo, il giovane Bruno, Silvio Basso l’alpinista, James l’americano di Roma, Sandro… altri venti erano sulla stessa strada. L’orrore e la paura ci indussero a non soffermarci oltre in quel luogo di sofferenza. Non potevamo fare nulla se non cercare di salvare noi stessi e sperare che la breve permanenza tra i moribondi non fosse stata sufficiente al contagio. I cinque sopravvissuti si unirono a noi. Accettarono di buon grado di sottoporsi alle uniche misure profilattiche che potevamo imbastire in quelle circostanze. Si spogliarono dei loro stracci sostituendoli con altri di fortuna, passarono quasi un’intera giornata a bagno in mare e si impegnarono a non avvicinarsi agli altri componenti del gruppo. Per nulla tranquilli riprendemmo la marcia allontanandoci il più rapidamente possibile da quel triste accampamento.
A parte qualche promontorio roccioso da superare quel tratto di costa non presentava ostacoli particolari. Fu invece il tempo a farsi inclemente, una pioggia sottile cadeva quasi di continuo dal cielo plumbeo e la notte iniziava a farsi fredda. I nostri sonni divennero agitati e scoprimmo che molti tra noi facevano lo stesso inquietante sogno. Avevano l’impressione di svegliarsi improvvisamente nel mezzo della notte. Nell’oscurità scorgevano un bagliore arancione dietro gli alberi e si alzavano per andare a vedere di cosa si trattasse. Il tragitto sembrava non finire mai, non riuscivano a raggiungere la vegetazione che pure non era lontana. Molti per lo sforzo si ridestavano definitivamente, altri invece arrivavano con grande fatica agli alberi per scoprire una misteriosa flocculazione di batuffoli luminosi che, dopo essere emersi dal terreno, si libravano nell’aria a formare un lento vortice sospeso ad un paio di metri di altezza dal suolo. La visione era affascinante, al centro del vortice c’era qualcosa che non si riusciva a distinguere con chiarezza. Nel sogno sapevano esattamente di cosa si trattava e non ne avevano timore. Al risveglio però nessuno era in grado di ricordare cosa fosse. Poi un vento improvviso disperdeva i fiocchi e una sensazione di angoscia invadeva il sognatore che si risvegliava di botto in preda ad una grande agitazione. Nessuno aveva visto altre immagini dopo la dissoluzione della nube arancione. Non vi era nessuna spiegazione sul perché la sua dispersione suscitasse tanta angoscia, tutti però erano concordi nell’affermare che il vento era denso di perfidia e forze malefiche. Con il passare dei giorni le persone più sensibili iniziarono a temere il momento di coricarsi con la certezza di essere visitati da quella visione e alcuni non riuscivano più a percepire la differenza tra il primo ed il secondo risveglio. Era come se passassero senza soluzione di continuità attraverso diversi livelli di coscienza. A queste inquietudini si aggiunse la pessima notizia che tre di noi manifestavano i sintomi del terribile ed ignoto morbo che aveva già divorato buona parte dei nostri compagni. Con grande difficoltà riuscirono a seguirci a debita distanza per tre giorni, poi cedettero. Li abbandonammo senza scrupolo alcuno con una piccola provvista di cibo ed acqua. Più che sufficiente per il poco tempo che gli rimaneva.
No, non voglio descrivere il nostro stato d’animo, le difficoltà nell’incedere, le piaghe che ci tormentavano. Le scarpe, i vestiti e le altre suppellettili si andavano disfacendo assieme a noi. Mi mancano le parole. E’ un’impresa che va oltre le mie capacità. Già è difficile ripercorrere con la memoria i soli eventi... Mi deve perdonare per questo. Avrei orrore di me stesso nel descrivere in modo inadeguato la situazione. La stanchezza, la fatica, la progressiva decimazione del gruppo, le allucinazioni notturne, il morbo, la completa ignoranza di quanto poteva ancora capitare, i rimorsi, i sensi di colpa, il declino di ogni speranza… faccia un po’ lei. Lascio alla sua capacità di immedesimazione e comprensione il compito di figurarsi il nostro stato d’animo. Non facevamo più caso a nulla. Non ci stupì più di tanto scoprire alle prime luci di un’alba qualsiasi i corpi lividi di Luigi e Gianni impiccati ai rami di un albero, tra di loro era nata una vera amicizia. Non ci curammo nemmeno di tirarli giù, che senso avrebbe avuto? Né ci chiedemmo alcunché quando un’altra mattina ci rendemmo conto che quattro di noi mancavano all’appello. Dopo aver raccolto le nostre poche cose ci allontanammo senza provare neanche a chiamarli. Eravamo rimasti in meno di trenta, io e pochi altri ancora riuscivamo a mantenere una parvenza di controllo. Cercavamo per quanto possibile di provvedere alle necessità vitali minime, gli altri eseguivano quanto gli veniva detto in silenzio o borbottando frasi incomprensibili.
Non ho idea di quanto tempo fosse passato dall’inizio della nostra avventura. Nove mesi, un anno, o ancora di più. Morirono di stenti altre due persone, Marta, una delle tre donne rimaste nel gruppo, e Graziano. Morirono insieme poco prima della fine delle nostre sofferenze. Almeno di quelle fisiche… Vede com’è il destino… Solo tre giorni dopo avvistammo una strada e una casa. Una casa in muratura. Dice che può immaginare il nostro sollievo? No, non credo che possa… perché non ve ne fu alcuno. Avevamo già raggiunto la meta, molto prima di quella casa. Dove eravamo arrivati? All’indifferenza, ecco dove eravamo arrivati, all’indifferenza. Vedo con piacere che questo non la stupisce più di tanto, che non è così difficile da comprendere. Con altri due compagni precedemmo gli altri. Un cane abbaiò nella nostra direzione. Suonammo il campanello. Venne ad aprirci un uomo, normalissimo, in tuta e scarpe da ginnastica. Ci parlò in francese. Non so cos’altro ci aspettassimo, restammo lì a guardarlo quasi fosse un marziano, senza riuscire a spiccicare parola. Invece i marziani eravamo noi, senza saperlo, ma nella nostra mente è sempre l’altro ad essere alieno. Adesso mi rendo conto che non dovevamo essere uno spettacolo tranquillizzante, scarni, stracciati, macilenti e muti. La porta si richiuse a chiave e non venne più riaperta malgrado suonassimo il campanello almeno altre due volte. Ci sedemmo su un muretto di fronte alla casa. Non volevamo più occuparci di niente. Non volevamo più fare niente. Non in quel momento. Di lì a poco arrivò una pattuglia della polizia.
Ci portarono in questura e si occuparono di noi con grande gentilezza. Lungo il tragitto guardavamo stralunati la normalità. Il mondo com’era prima. Ma prima di cosa? Sembrava essere stato sempre così. Vi eravamo tornati così come ne eravamo usciti, senza motivo apparente, senza avvertimenti. Eravamo in Francia, presso il confine con l’Italia. Avevamo risalito la costa, da Roma fino alla Liguria, fino a quel piccolo paese. Quello che avvenne dopo non sto qui a ricordarglielo, lo avrà letto sui giornali. Prima ci scambiarono per immigrati clandestini, poi fu accertato che eravamo passeggeri del volo che si era schiantato mesi prima sulle Alpi con centoventisette persone a bordo. Il terribile incidente e l’incendio che ne seguì non permise di ricomporre le salme e fummo dichiarati tutti morti. Non era possibile pensare che qualcuno potesse essere scampato al disastro. Figuriamoci lo scalpore nel vedere ricomparire ben ventinove sopravvissuti. Scattarono immediate polemiche sull’efficienza delle operazioni di soccorso con palleggiamento di responsabilità da parte dei Governi italiano e francese. Numerose ipotesi circolarono su come ci eravamo salvati e dove fossimo stati per tutto quel tempo. Ovviamente i nostri racconti furono liquidati alla stregua di inverosimili allucinazioni conseguenti al trauma. D’altronde era evidente che negli ultimi mesi non erano scomparsi né l’aeroporto di Fiumicino, né tanto meno mezza Italia. Non aveva senso alcuno. Non saprei dar torto a tutti coloro che la pensano ancora così, anch’io farei lo stesso. Deponeva male anche il nostro stato confusionale. So per certo che alcuni di noi sono ancora ospiti di case di cura per malattie mentali. Non sono riusciti a superare l’impatto di quell’esperienza. Terminato il bailamme iniziale, la strana coerenza dei nostri racconti indusse alcuni giornalisti ad approfondire l’argomento. La notizia teneva banco e credevano che ne potesse uscire un buon servizio. Fummo invitati ad accompagnare una troupe televisiva lungo le coste del Tirreno. Accettammo in undici. Non riconoscemmo quasi nessun luogo, troppo diverso l’aspetto di un paesaggio colonizzato dall’uomo rispetto alle spiagge selvagge che avevamo percorso. Il fiume che avevamo attraversato con tante difficoltà non esisteva affatto e la nostra memoria era labile oltre che imprecisa. Solo vicino a Roma individuammo un'area che ci sembrava familiare, un luogo che ci riportò alla mente la cerimonia di sepoltura di Saverio De Rossi, la prima vittima. Scavando nei vari punti che indicavamo vennero trovate, tra l’eccitazione e la sorpresa generale, alcune ossa. Le analisi mostrarono trattarsi di resti umani. Impossibile stabilirne l’identità ma di certo non potevano appartenere ad un cadavere sepolto circa un anno prima. Questo almeno affermò la scienza ufficiale. Noi invece avevamo visto cose talmente fuori dall’ordinario che non avemmo alcuna difficoltà ad attribuire quei resti al nostro compagno di sventura.
No. Non ho più visto gli altri sopravvissuti né li voglio incontrare. Cosa avremmo da dirci? Non si è creato nessun legame tra noi e ho paura che incontrandoci proveremmo solo risentimento. Risentimento per quanto la vita ci ha riservato. Il ritorno a casa è stato un inferno. Impossibile affrontare una vita normale, il lavoro, la convivenza con mia moglie e i miei figli… Ci siamo separati quasi subito. Adesso lei vive con un altro uomo. Non mi fraintenda, ha fatto benissimo, non la posso biasimare. Ci sentiamo raramente, le ho affidato tutti i miei beni da amministrare e lei regolarmente mi manda i pochi soldi che mi servono per sopravvivere. Di comune accordo trattiene il resto per sé e per i nostri figli. Vengo spesso in questo locale a leggere il giornale o parlare con gli avventori. Si, mi faccio anche chiamare con un altro nome e cerco di astenermi dal raccontare la mia avventura. Preferisco non si sappia in giro. Che non se ne parli troppo. Con lei è diverso, come dicevo all’inizio di questa nostra chiacchierata, mi ispira fiducia. Le affido questo racconto, ne faccia quello che vuole, liberamente. Un tempo non mi sarei comportato così. Ero sempre io, ma, nel contempo, anche un’altra persona. Un giorno in un modo, l’indomani in un altro, le cose cambiano e non sappiamo neanche quanto durerà ogni periodo: giorni, anni, minuti, pochi secondi forse.
Adesso la devo salutare. Si è fatto tardi e non amo fare le ore piccole. Se ci incontreremo ancora? Non lo so. Lascio l’iniziativa al suo buon cuore. Per parlare d’altro, certo… Amici… difficile dirlo, è una parola grossa. Vuole sapere il mio vero nome? Sta scherzando, vero? Dopo aver ascoltato la mia storia non credo sia gentile da parte sua chiederlo. No, non gliene voglio assolutamente per questo ma adesso, mi scusi ancora, devo proprio andare.
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Francesco Maria Bologna
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