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Un amico da lontano
di Fabio Calabrese
Pubblicato su PBSA2008


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Quella mattina verso le otto, mi trovavo come al solito al bar di Joe davanti al bancone, intento a consumare la mia colazione: un toast e un bicchiere di caffè. Avevo preso quell’abitudine da quasi un anno, da quando Susan mi aveva lasciato, così come avevo quasi raddoppiato il mio consumo di sigarette. Durante il resto della mattinata e del pomeriggio, il lavoro era una buona distrazione, cenare e pranzare l'avevo sempre fatto nelle ore più strane e nei posti più strani, la notte dormivo; ma al mattino presto è deprimente svegliarsi in un letto a due piazze vuoto per metà, così, dopo essermi rasato e vestito in fretta, scappavo fuori di casa con la maggiore rapidità possibile.
Qualcuno alzò il volume della radio.
“...La zona, ampia un migliaio di ettari, si presenta coperta da detriti vetrificati, è stata transennata ed è sorvegliata da pattuglie della polizia. Per il momento, non risultano danni alle persone”, stava gracchiando uno speaker.
Tesi l’orecchio incuriosito, mi ero perso il resto della trasmissione. Io purtroppo la mattina mi sveglio intontito, e vago in stato di semi trance fino a quando non ho trangugiato un buon quarto di litro di caffè.
“Ehi, Tom”, disse Barnes, il giornalaio dell’edicola all’angolo, “Hai sentito che sono sbarcati i marziani?”
“No!”, risposi acido rivolgendogli uno sguardo io-mi-faccio-gli affari-miei-tu-perchè-non-ti-fai-gli-affari-tuoi.
Vedete, certe cose mi pungono sul vivo, io trovo che campare scrivendo racconti di fantascienza per le riviste popolari non sia un modo più deprecabile di un altro per tirare avanti, e certe punzecchiature non le sopporto. Poi guardai meglio Barnes e mi sentii come se una tribù di cubetti di ghiaccio avesse scelto la mia schiena per un’escursione alpinistica. Lo conosco da anni, e non stava affatto scherzando.
“Che diavolo è successo?”, chiesi.
“Ma come, Tom, non hai sentito la radio? Stanotte un coso è piombato giù dal cielo squassando mezza California”.
“Cosa sarebbe un coso?”, domandai.
“E che ne so io? Se non lo sanno quei testoni di scienziati! Di certo, è molto grosso”.
“Un meteorite”, dissi.
“Hanno detto che non è un meteorite, perché non c’è cratere, ma ha fatto un bel botto lo stesso”.
Altri tre o quattro avventori ci avevano sentiti parlare, e poiché avevano riconosciuto Thomas Jefferson Sykes, e poiché alla gente non riuscirai mai a levare dalla testa che uno scrittore di fantascienza sia mezzo scienziato, mezzo cacciatore di UFO, mezzo mago Merlino, ci circondarono, cominciando a tempestarci con le opinioni che si sarebbero voluti sentir dire da me.
No so come, scivolai fuori dalla calca, posai i soldi sul bancone ed uscii, rivolgendo una strizzata d’occhio a Janet, la mia cameriera preferita.
Dopo essermi comprato il giornale e le sigarette, rientrai a casa. Avevo voglia di mettermi a lavorare alla macchina da scrivere. Presi la macchina e ci cacciai dentro il solito sandwich composto di tre fogli di carta extra strong e due fogli di carta carbone, allineai i fogli, misi l’interlinea ed i margini, e rimasi qualche minuto a fissare il foglio bianco; non mi veniva voglia di mettermi a scrivere. Presi il giornale e cominciai a leggere. Saltai le notizie di politica, e mi misi a leggere dello strano meteorite: era caduto nel deserto del Mojave, in una zona disabitata, ma niente affatto lontana dal complesso Los Angeles-Hollywood-Glendale-Pasadena, e naturalmente Santa Monica.
Santa Monica: il fatto che fosse una delle più famose spiagge della California non me la rendeva certo un posto ideale per viverci, dannatamente cara d’estate e quasi vuota d’inverno, ma non mi sarebbe piaciuto che fosse andata a pezzi come una tazzina di porcellana con me dentro.
Stando al giornale, si trattava di un meteorite molto strano. C’era una fotografia aerea della zona colpita, che era stata scattata da un elicottero della polizia nelle prime ore del mattino. Non c’era traccia di cratere, ma la sabbia circostante era come coperta da una macchia più scura di forma rozzamente circolare. L’articolo precisava che quella macchia dall’ampiezza di un buon miglio quadrato non era altro che sabbia vetrificata dall’impatto di qualcosa che doveva aver avuto un’altissima temperatura. L’articolo diceva che ai margini della “macchia” vi erano zone più piccole di materia vetrificata, “schizzi” che denunciavano la violenza dell’impatto, erano state trovate anche formazioni simili a tektiti e frammenti metallici, ma pochi.
Lì per lì non trovai la cosa sensazionale: sapevo, avevo sentito dire, di altri casi di meteoriti che non avevano formato cratere, c’era ad esempio il bolide caduto nella foresta di Tunguska in Siberia nel 1908. Poi mi venne in mente tutta la ridda d’ipotesi che la meteora di Tunguska aveva causato. Un oggetto di antimateria? Un’astronave extraterrestre?
Lasciai perdere e cercai di tornare al lavoro, macché, ero ormai deconcentrato, non avevo nessuna ispirazione. Mi misi a ribattere un mio vecchio manoscritto che aveva bisogno di una buona revisione. Fatica sprecata, ero troppo distratto e nervoso, non facevo che affastellare errori di battuta uno sull’altro. Levai i fogli dalla macchina e rimisi tutto a posto.
Uscii per andare a fare compere in città e sfogare l’irrequietezza che sentivo con una bella passeggiata.
Nel pomeriggio, dopo essermi permesso un raffinato pranzo a base di zuppa di piselli Campbell (in scatola) e di hamburger (in scatola), balzai sulla mia potente vettura (una volkswagen trasformata in fuoristrada) e mi diressi verso nord-est, in direzione del deserto del Mojave, dove era caduta la meteora.
Sembrava che non fossi stato il solo ad aver avuto quell’idea, perché tutte le strade che uscivano da Santa Monica e da Los Angeles erano ingorgate in entrambi i sensi di marcia. Mi buttai fuori strada, cercando una stradetta secondaria, una mulattiera, un sentiero da capre, qualunque cosa che portasse verso il Mojave, ma c’erano macchine e veicoli di ogni genere dappertutto, che strisciavano in avanti a passo di lumaca.
“Qualcuno deve aver sparso la voce che giù dai Grandi Spazi è arrivato Babbo Natale”, pensai.
Era quasi il tramonto quando arrivai ai margini del gigantesco ingorgo-posteggio, e c’erano ancora centinaia di macchine che arrivavano strisciando dietro la mia. Scesi e dovetti ancora camminare per un chilometro, destreggiandomi tra i veicoli in sosta che il sole della giornata aveva reso bollenti.
Quasi a ridosso della zona cintata, qualcuno aveva eretto un improvvisato baracchino, dove era possibile acquistare hot dogs e coca cola. Poco più in là cominciava la zona recintata. Erano stati stesi spessi cavalli di Frisia e filo spinato, e non era più la polizia di Los Angeles che sorvegliava gli sbarramenti, ma i marines degli Stati Uniti. Le sentinelle erano state scaglionate una ogni cento metri, ed avevano l’elmetto in testa ed il mitra imbracciato, che ti puntavano addosso quando ti avvicinavi troppo. Tutto quello che riuscivo a vedere oltre la recinzione, erano soldati armati e veicoli militari, jeep e camion con la stella bianca.
“Chi si è svegliato, King Kong o Godzilla?”, chiese qualcuno ironico dietro di me.
Non c’era modo di andare oltre. Mi avvicinai al banchetto ed ordinai un hot dog ed un barattolo di coca cola che risultò fastidiosamente tiepida, e mi fermai a parlare un po’ con gli altri curiosi. Un tizio si era avvicinato al reticolato cerando di parlare con una sentinella, ma il marine aveva risposto unicamente puntandogli la canna del fucile contro il petto.
“Guardate che razza di spiegamento di forze”, disse un altro, “Deve essere davvero sbarcato un UFO”.
Gli dissi che probabilmente aveva visto troppe volte Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo.
“Certo che però deve essere un meteorite strano”, incalzò un altro ancora, “Magari è un satellite spia”.
“Od è tutta una trovata pubblicitaria per lanciare un nuovo film di fantascienza, non siamo mica tanto lontani da Hollywood qui”, aggiunse un altro ancora.
Io non volevo sbilanciarmi, anche se ero disposto ad ammettere che c’era qualcosa di strano in tutta quella faccenda. Ma fosse stato anche uno sbarco di UFO, non mi sentivo affatto Richard Dreyfuss, ed ero mille miglia lontano solo dal pensare di sfidare i mitra dei marines.
Ma quando tornai alla macchina, mi ronzavano nel cervello le ipotesi più strane, chissà, forse ci sarebbe scappato fuori qualcosa di buono per un racconto; mi sentivo in un certo senso disposto ad accogliere l’incredibile, ma ero molto lontano dall’immaginare che la cosa più incredibile di quella strana giornata l’avrei trovata al mio rientro, nel salotto di casa mia.
Anche se altri avevano già cominciato ad andarsene, svincolare il mio macinino dall’ingorgo non fu tanto facile, e la strada era intasata quasi come nel senso opposto nel pomeriggio. Quando arrivai a Santa Monica, era mezzanotte passata.

Le finestre del mio appartamento era no illuminate, e la porta era socchiusa, la spalancai e mi precipitai dentro.
In salotto, sulla mia poltrona, era seduta una ragazza: una bella bambola dai capelli biondo platinati e gli occhi azzurri sottolineati da un trucco sapiente; possedeva un bel paio di gambe snelle e slanciate, indossava un abito costoso ed olezzava di un profumo altrettanto costoso. Stava fumando una sigaretta (delle mie), ed aveva sul tavolinetto davanti a sé un bicchiere ed una bottiglia di brandy (delle mie) vuotata per metà.
Indubbiamente un tipino affascinante, ma fresco di divorzio com’ero, non mi sentivo particolarmente ben disposto nei confronti delle donne, e quell’intrusione improvvisa in casa mia m’indispettiva.
“Chi cavolo sei?”, gridai, “E che cavolo ci fai in casa mia?”
“Scusa”, disse lei con un tono come se ci fossimo conosciuti da quando portavamo i pannolini con gli spilli da balia, “Ma sono arrivata tardi, e a quest’ora non è facile trovare posto in albergo”.
“Ma chi cavolo sei?”, tornai a domandare.
“Sono Cheryl Arthur”.
Ne sapevo quanto prima.
“E come hai fatto a entrare?”
“Con la chiave sotto lo stuoino. L’hai detto tu che sei un gran distrattone, e tieni sempre una seconda chiave sotto lo stuoino, tre anni fa a Brighton”.
Tre anni prima in Inghilterra...Un vago barlume di comprensione cominciò a farsi strada nella mia mente obnubilata...Cheryl Arthur era la figlia di Clark C. Arthur, solo che tre anni prima era stata un’insignificante ragazzina di quindici anni, con il viso cosparso di efelidi, e due gambe lunghe e magre che spuntavano da sotto il vestito da collegiale, e sembravano quelle di una gru.
Tre anni prima avevo passato un irripetibile momento di floridezza economica, ed avevo deciso di assistere ad una convention europea, con grande noia di Susan, che detestava la fantascienza (una delle tante incomprensioni che avevano fatto sì che ognuno prendesse la sua strada). Nel complesso, erano stati soldi spesi male. Mentre Susan scorrazzava da sola per Londra facendo pazzi acquisti per Soho e Canaby street, io mi ero dovuto accorgere di quanto pedanti, prolissi, noiosi e pieni di autocompiacimento fossero gli europei anche il fatto di science fiction. Più che ad una delle nostre conventions, quella di Brighton somigliava ad un raduno di pastori metodisti. Così una sera mi ero trovato intento a compiangere le mie sventure insieme ad un altrettanto annoiato Clark C. Arthur, che era l’ospite d’onore, ed alla sua allora insignificante figlia.
“Senti”, dissi brusco a Cheryl, “Perché non hai tirato ancora un po’ più giù verso Hollywood, “C’é Forry Akermann che potrebbe trovarti un posto nel suo museo degli orrori”.
Cheryl non ne aveva certo colpa, ma il fatto è che non riuscivo a provare simpatia per Clark C. Arthur. Certamente c’entrava per qualcosa il fatto che io riuscivo a ricavare dai racconti che andavano sulle riviste appena qualche miserabile soldo, mentre quelli di suo padre diventavano regolarmente soggetti di film di successo, ed era una firma tanto famosa da poter vendere scarabocchi come lo stupidissimo Marea protonica, in cui l’unica reliquia di un incrociatore spaziale della marina americana era una chiave inglese, un soggetto talmente idiota che a me i direttori di riviste lo avrebbero buttato in faccia assieme ad un mucchio d’insulti, ma la sua favolosa villa alle Andamane non se l’era certo fatta scrivendo science fiction. Io ho un orgoglio professionale; in quel momento ero uno dei pochi al mondo che campavano scrivendo esclusivamente fantascienza (o meglio, non disponevo di un’altra occupazione, e i raccontini che pubblicavo mi aiutavano a dilazionare un pochino lo sperpero definitivo del mio conto in banca, accumulato facendo i lavori più strani e precari. Anche Susan aveva rinunciato a chiedermi gli alimenti, perché, come diceva il suo avvocato, “Non si può cavare sangue da una rapa”, e mi davano fastidio i tipi che quanto meno confondono le idee alla gente sulla science fiction, scrivendo libri e facendo trasmissioni televisive attinti allo sciocchezzaio che ha sempre attirato i gonzi di tutti i tempi, dagli UFO ai serpenti di mare, allo jeti, al mostro di Loch Ness, e via discorrendo, secondo i metodi già collaudati da Charles Fort.
Cheryl mi guardò con broncio infantile: “T. J. Sykes, non sei affatto un gentiluomo”.
“E tu non mi hai ancora detto cosa volete da me, tu e il tuo illustre papà”.
“Senti, T. J., qui è venuta giù una specie di meteora che ha scatenato il finimondo, una cosa che sembra proprio il bis di quella di Tunguska. Papà mi ha spedita qui ad indagare, mi serve soltanto una base qui”.
“Santi numi!”, esclamai, “Un altro Libro dei Dannati! Almeno Fort aveva la scusante che cinquant’anni fa la gente era più ingenua”.
Cheryl si portò le mani sui fianchi, atteggiandosi come una maestrina che rimprovera uno scolaretto (era carina da matti quando si arrabbiava).
“Oh, ma sentilo!”, sbottò, “Un altro convinto che nell’universo non ci sono più misteri. Il mondo è prosaico e banale, e riesce a stare tutto nel prosaico e banale cervellino di cartapesta di Thomas Jefferson Sykes”.
Guardai l’orologio, era quasi l’una.
“Avrò il cervellino di cartapesta”, dissi, “ma ho il cuoricino di pastafrolla, e non me la sento di rispedirti fuori nella notte nera in mezzo ai lupi. Rimandiamo la discussione a domani, adesso bisogna sistemarti in qualche modo per la notte; purtroppo, non ho la camera degli ospiti, e le poltrone del mio salotto andrebbero bene si e no per un gattino”.
“T. J. Sykes”, disse Cheryl serafica, “Non possiedi un letto a due piazze di cui una attualmente sfitta?”
Tutte le mie valvole scattarono su rosso, non avevo nessuna voglia di trovarmi impegolato in altri affarucci di cuore dopo una scottatura ancora recente, tanto più che, per quello che ne sapevo, Cheryl poteva essere ancora minorenne.
“Non se ne parla nemmeno”, dissi.
“Pazienza”, disse lei, “Vuol dire che stanotte dormirai per terra”:
“Cosa?”, scattai, “Dormire per terra in casa mia!”
“Tom Sykes”, replicò, “Proprio non sei affatto un gentiluomo”.
“Ti propongo un compromesso onorevole”, dissi, “Dormirai nel mio letto, ma non aspettarti
un téte a téte; il massimo che sono in grado di offrirti è un romantico téte a pieds”.
Sistemai il letto e misi il cuscino di Susan dalla parte opposta della testiera. Cheryl non si era portata molto guardaroba e, mi disse, aveva l’abitudine di dormire nuda, non so come riuscii a convincerla ad infilarsi una camicia da notte di Susan.
In camicia e senza trucco non mostrava più del suoi diciotto anni. Mi chiesi come facesse una ragazzina ad essere così sicura ed aggressiva. Ma già, il denaro può fare qualsiasi miracolo.
Avevo appena spento la luce, che la sentii rigirarsi.
“Tom!”
“Che c’è?”
“Non per offenderti, ma non posso passare la notte ad inalare l’aroma dei tuoi piedi”.
“Va bene”, dissi, “Sistemati, ma sta girata dalla parte della tua sponda, io sto voltato dalla mia”.
Si rigirò mettendo il cuscino accanto al mio
“Tu piuttosto”, disse, “Non fare il porco”.
“Non ci penso nemmeno”:
“Ma che peccato!”

Quando mi svegliai, righe di luce filtravano tra gli interstizi delle tapparelle. Nel sonno ci eravamo girati l’uno verso l’altra, e Cheryl dormiva con la testa poggiata sul mio braccio che le cingeva la spalla. Ci eravamo comportati in maniera più che fraterna, eppure svegliarsi al mattino tenendo una donna addormentata fra le braccia era una sensazione meravigliosa, mi sentivo molto più ben disposto verso di lei della sera prima, anche se per poco non mi tornava la mia vecchia acidità quando, andando in bagno, faticai a rintracciare il dentifricio e il tubetto della crema da barba dispersi tra rossetti, rimmel, cosmetici, creme per il viso e per il corpo ed altri ammennicoli femminili.
Facemmo colazione in cucina con uova, pancetta ed una robusta caraffa di caffè.
Cheryl diede un’occhiata al giornale del giorno prima e le sfuggì un potente “Cristo!”
“Che c’è?”, chiesi.
“Ma non hai letto? Niente cratere, un miglio quadrato di sabbia vetrificata: se anche questa finiva in una foresta invece che in mezzo al deserto, era la sorella gemella di quella di Tunguska”.
Le raccontai della mia gita del giorno prima.
“Tom!”, disse eccitata, “E’ veramente qualcosa di grosso, se hanno mandato l’esercito, se hanno pensato che la patata era troppo grossa e bollente per la polizia californiana. Hai letto qui? Parla di frammenti metallici. Nelle meteoriti ci sono talvolta dei minerali metallici, ma bisogna essere geologi per individuarli, e da vicino. Prima che arrivasse l’esercito, sono state scattate solo delle fotografie aeree”.
“potrebbe essere un satellite artificiale”, dissi.
“Non credo”, fece lei, “Di solito un satellite orbitale è un affare relativamente piccolo: a causa dell’attrito atmosferico, quaggiù non ne arriverebbe neanche un pezzettino, e se è uno di quelli grossi, lo si sa un mese prima che venga giù. e poi nel 1908 non c’erano satelliti artificiali”.
“Allora tu pensi che si tratti davvero...”, stentavo a dire la parola.
“Di un’astronave aliena, Tom”.
Ebbi l’impressione che la cucina ondeggiasse intorno a me.
Le donne, credo che non le capirò mai, nei momenti più incredibili sanno sfoggiare un sorprendente senso pratico.
“Beh”, disse Cheryl, “Si vede che sei divorziato da poco, gli scapoli imparano a tenere le loro cose in ordine. Se te ne vai a fare un po’ di spesa, cercherò di trasformare la tua tana in un’abitazione da esseri umani. Compra anche i giornali e cerca di tenere le orecchie ben aperte su tutto quello che senti in giro”:
Feci come aveva detto, e presi anche i giornali. Sui quotidiani locali non c’era niente, solo sul New York Times c’era un trafiletto, evidentemente un comunicato d’agenzia, che ripeteva quanto apparso sui quotidiani californiani il giorno prima, ma senza dare grande rilievo alla cosa, che era descritta semplicemente come “la caduta di un grosso meteorite”. La cosa era sospetta, qualcuno non voleva che la stampa facesse baccano. Mi convinsi sempre più che Cheryl aveva ragione, e che ci eravamo imbattuti in qualcosa di grosso.
Tornai a casa tutto allegro, di un umore decisamente migliore di quanto fossi stato da alcuni mesi in qua. Cheryl era riuscita davvero a ridare alla mia casa un aspetto civile, e vidi con somma soddisfazione che era seduta in cucina e stava leggendo uno dei miei manoscritti.
“Beh, che te ne pare?”, domandai.
Solo allora mi accorsi che teneva in mano il foglio che avevo battuto il giorno prima, aveva in mano una matita, e lo aveva coperto di rigacci.
“E’ pieno di errori”, disse.
“Grazie tante!”, replicai acido, “Quando sarò ricco come tuo padre, assumerò una dattilografa professionista”.
“Ma no”, disse lei, “Non volevo offenderti, guarda!”
Era strano, ma i miei errori, sottolineati, formavano delle frasi coerenti: ad esempio, sulla prima riga avevo battuto per errore un pronome, un He in lettere maiuscole, più avanti, in due altre parole, avevo interpolato una L e una P dove non andavano. HE-L-P, aiuto!
“Interessante”, dissi, “ma non sbalorditivo: hai scoperto il lapsus freudiano con mezzo secolo di ritardo. Sapevo già che il mio subcosciente ha bisogno di aiuto, ma non mi posso permettere uno psicanalista”.
“E così”; disse Cheryl, il tuo subcosciente starebbe precipitando a mille miglia all’ora a causa di un guasto al velivolo spaziale! Tom, tu hai ricevuto un messaggio telepatico!”
Le presi i fogli dalla mano e cominciai a leggere con avidità frenetica.
“Ho lasciato l’astronave in avaria, mi trovo...”
Purtroppo, a quel punto avevo smesso di scrivere...Ero sbalordito: davvero il mio subconscio aveva registrato un messaggio telepatico proveniente da un pilota extraterrestre?
“Ma...ma”, chiesi sbalordito, “Come fa un essere di un altro mondo a conoscere l’inglese?
“Sciocco”, disse Cheryl, “Lui non lo sa, è il tuo subconscio che ha tradotto il messaggio telepatico in inglese”.
Per lei era tutto chiaro, per me non era chiaro un accidente.
“Presto”, disse lei, “Rimettiti a scrivere. Può darsi che il resto del messaggio sia rimasto registrato nel tuo inconscio.
“E cosa scrivo?”
“Quello che vuoi, l’importante sono gli errori di battuta”. Andò in salotto e tornò con un volume dell’enciclopedia. “Ecco”, disse, “Copia da qui”.
Mi misi alla macchina da scrivere e ribattei le voci capra, caprifoglio e caprimulgo dell’Enciclopedia Americana, cercando di scrivere il più in fretta possibile, e di non guardare i fogli, in modo da massimizzare la possibilità di errori. Come i fogli uscivano dalla macchina, così Cheryl li acchiappava e sottolineava con una penna rossa gli errori di battuta.
“Senti qui”, mi disse, “Sono prigioniero da due notti e un giorno nella roccia” - Cristo, è un messaggio in data di oggi - “Ho cercato di dirigermi verso i punti di riferimento...Cadendo, ho visto che mi trovavo sulla riva di un lungo golfo stretto tra due lunghissime dita di roccia”. Cosa può essere, secondo te?”
“Ehi, ma ci sono!”, dissi io, “E’ la Baja California. Le due “dita” di roccia devono essere la penisola californiana e la costa del Messico viste dalle parti di Mexicali”.
“Cosa aspettiamo?”, chiese Cheryl entusiasta, “Andiamoci!”
“Col cavolo!”, replicai, “Sai che voglia di scarrozzarmi fino in Messico alla caccia di alieni che forse esistono solo nella nostra fantasia, e poi non ho abbastanza quattrini da spendere gironzolando per il Messico”.
“Oh, ma se è solo per questo!”, disse Cheryl sfoderando un sorrisetto di superiorità.
Andò a prendere il beauty case e me lo aprì davanti al naso, era stipato zeppo di bigliettoni verdi.
“Papà non mi manda mai in giro senza i soldini per le caramelle. Pensi che duemila dollari possano bastare?”
Il pomeriggio andai a fare spese: comprai provviste per diversi giorni, taniche di benzina, teli da tenda, due sacchi a pelo; in Messico non si sa mai quello che puoi trovare o non trovare. Con due mazzette di bigliettoni di Cheryl che mi frusciavano nelle tasche, mi sentivo ben disposto verso tutti gli UFO delle galassie.
I nostri passaporti erano in regola, ci sarebbe stato bisogno solo dei visti di entrata quando avremmo raggiunto la frontiera messicana.
Dopo aver cenato (e devo ammettere che Cheryl era una brava cuoca), andammo a dormire, decisi ad alzarci presto l’indomani mattina. Era molto meno tardi della sera prima e mi sentivo molto meno stanco, e poi non ero più irritato verso Cheryl, e insomma non sono mica impotente.
“Cheryl”, dissi appena spenta la luce.
“Che c’è, Tom?”
“Cerca di non toccarmi, sennò non sono sicuro di riuscire a non saltarti addosso”.
“Non ci provare, se non vuoi trovarti con il cranio sfondato”.
Ero sempre deciso a non immischiarmi in una nuova avventura sentimentale, tanto meno con la figlia di Clark C. Arthur, ma insomma sono un uomo, ed era un vero supplizio di Tantalo. Mi girai verso la mia sponda cercando di pensare alla mia situazione finanziaria, che era una cosa che avrebbe fatto ammosciare anche King Kong.

La mattina seguente, dopo aver caricato l’attrezzatura per il viaggio, partimmo verso sud seguendo la costa. Anche in jeans e maglietta, Cheryl aveva l’aria di una principessina, e mi sentivo un po’ ridicolo a scarrozzarla sul mio macinino stracarico.
Allungai la mano verso il pacchetto delle sigarette: era quello che avevo aperto il giorno prima, ed era ancora mezzo pieno, mi accorsi che in quei due giorni avevo fumato molto meno del solito, almeno molto meno da quando Susan se n’era andata.
Facemmo una deviazione e portai Cheryl a vedere l’abitato di Hollywood, con le sue ville ed i suoi stupendi viali alberati, ed a dare una sbirciatina dall’esterno ai celebri sudios cinematografici.
Evitammo invece l’abitato di Los Angeles e riprendemmo il percorso lungo la costa. Alle dieci eravamo già a Long Beach, poi, invece di proseguire verso San Diego, deviai verso est, allontanandomi dal Pacifico in direzione Santa Ana, Escondido, Brawley, in modo da tagliare il confine proprio a Mexicali.
Mexicali è una cittadina molto graziosa, o meglio due cittadine, una al di qua, una al di là del confine. La parte messicana ha ancora un aspetto ottocentesco, con le casette bianche dai muri a calce, il disegno barocco delle finestre, gli odori di tortillas, di tequila e gli altri aromi insoliti che impregnano l’aria. Ho il sospetto che questo aspetto della cittadina, che fa pesare ai tempi di Pancho Villa sia stato conservato ad uso e consumo dei turisti, ma la cosa non ha una grande importanza.
Cheryl ed io trovammo facilmente alloggio in una simpatica posada dall’aria rustica, e fu nel patio di quella posada, quella sera, davanti ad una cena composta da specialità messicane, aiutato dalla tequila e dalla musica languida di un’orchestrina, che riuscii finalmente a sedurla, o forse fu lei a sedurre me, non lo so e me lo chiedo ancora. Di certo non mi stupirò più che il Messico sia la terra dei matrimoni facili e dei divorzi ancora più facili. “Cucurucucu Paloma” sotto le stelle del Messico, avvolti da languidi effluvi tropicali, può fare strani scherzi.
Quella notte sotto le stelle del Messico, materialmente sotto il soffitto imbiancato a calce della nostra stanza alla posada, in un alto letto dall’ottocentesca testiera di ottone, Cheryl fu finalmente mia.
Erano da poco passate le sei del mattino, quando Cheryl mi svegliò con un robusto scrollone.
“Che c’è?”, grugnii ancora stordito.
“Tom, svegliati”, disse lei, “Non dimenticare che non siamo qui in viaggio di nozze.
Appena il mio cervello ebbe acquistato una parvenza di lucidità, mi disse che si era svegliata in preda ad una tremenda sensazione di urgenza, e mi ingiunse di mettermi alla macchina da scrivere, che ovviamente ci eravamo portati dietro, nella speranza di captare qualche altro messaggio. Borbottai qualcosa di confuso, non ero ancora sicuro che tutta la faccenda non fosse uno scherzo del mio subcosciente.
Acchiappai una rivista e mi misi a trascrivere un barbosissimo articolo sulla preparazione di conserve e marmellate. Come i fogli scappavano dal carrello della macchina, Cheryl li acchiappava al volo, sottolineando gli errori, cui dava la caccia con determinazione feroce.
“Se non riesci a sfondare come scrittore”, mi disse, “hai sempre davanti a te una promettente carriera di medium. Senti qui: “Sono prigioniero tra le rocce, suono vicino alla foce di un fiume”.
“Se non è tutto un abbaglio”, dissi, “non può essere che la foce del fiume Colorado. Arriva al mare proprio alla sommità della forcella formata dal golfo di California.
“Andiamoci, cosa aspettiamo?”, disse Cheryl in un impeto del suo solito entusiasmo.
“Ma è prestissimo”, protestai, “facciamo almeno colazione”.
“Stavolta ne farai senza”:
La guardai con occhi imploranti: “almeno un caffè”.
“E va bene, andiamo”.

Dopo aver solcato in territorio americano quello che credo sia il più grande canyon del mondo, il Colorado si getta nel Pacifico in una bassa spiaggia sabbiosa, anche se circondata ad est e ad ovest da due grandi dita di roccia che sono la penisola della Baja California e la costa messicana del distretto di Sonora. Vi arrivammo nella tarda mattinata, dopo aver incrociato campi di mais e qualche rara abitazione di peones.
Da Mexicali alla costa, praticamente non ci sono villaggi degni di questo nome. Il terreno è arido, e sulla costa diventa roccioso e inadatto alla coltivazione, e nessuno si sognerebbe di costruire un porto su quello stretto budello di acqua che è la sommità del golfo californiano. A parte Ensenada, sulla Baia de Todos Santos, che si trova dalla parte opposta della penisola, verso il Pacifico, bisogna scendere molto a sud per trovare delle cittadine di qualche importanza, come San Felipe e San Telmo. La zona era deserta e nuda di vegetazione, a parte qualche cespuglio di agave e piante spinose.
Ci guardammo bene attorno. In quel tratto, formazioni rocciose vere e proprie non ce n’erano, ma sulla riva destra c’erano delle ondulazioni del suolo, arenaria o forse solo sabbia inumidita e resa compatta dal calore del sole. Andammo a vedere. Io mi sentivo il cuore in gola per l’emozione.
Sulla sommità stranamente tronca di una duna solidificata, c’era un’ampia chiazza scura di materia vetrosa formata dal calore sulla sabbia; attraverso, si scorgeva con fatica una grossa sagoma oblunga. Era quella la prigione del nostro misterioso amico?
Per un po’, discutemmo su come liberarlo, purtroppo, non avevo portato con me attrezzi da scavo. Poi ebbi un’idea: il precedente proprietario aveva trasformato la mia VW in un fuoristrada installando una struttura di tubi per rinforzare il telaio, avrei potuto smontare una delle centine laterali, ed usarla a mo’ di leva per far saltare via come un tappo lo strato di sabbia vetrificata.
Tornai alla volkswagen e con una chiave inglese mi misi a svitare i bulloni che tenevano al suo posto una delle centine. Per smontare il tubo mi ci vollero cinque minuti, per far saltare lo strato di sabbia vetrificata quasi un’ora, sebbene Cheryl mi aiutasse come poteva, perché l’arenaria era friabile e costituiva un pessimo punto di appoggio. Infine, dopo un’ora, sudati e ansanti per la fatica e per il caldo, avevamo portato alla luce un cilindro metallico con una lunghezza di tre metri e un diametro di quasi due, era di un metallo argenteo liscio e compatto, senza interruzioni o connessure, ma quando lo toccai con la mano, una sezione si mise a ruotare come se fosse incernierata a dei cardini.
Cheryl ed io ci tuffammo a guardare all’interno del cilindro; non credo che la vita mi riserverà più un momento altrettanto emozionante.
Immerso in un liquido gelatinoso trasparente, forse qualche sostanza nutritiva destinata a mantenere vitali i suoi tessuti in animazione sospesa, c’era un essere un po’ più alto e grosso di un uomo, di forma approssimativamente umana, ma che fin troppo chiaramente non apparteneva alla nostra specie. Il suo corpo era bruno argilloso ed era più massiccio e con gli arti in proporzione più corti di quelli di un uomo, ma le differenze maggiori erano la testa e la faccia: la testa era rozzamente conica, a pera, la faccia sporgeva in avanti formando una specie di becco largo e arrotondato su cui c’erano le narici, non aveva un naso vero e proprio, gli occhi era un po’ simili a quelli dei gatti, le orecchie avevano dei lunghi lobi penduli.
Nel complesso, rimasi meravigliato proprio dalla somiglianza con gli esseri umani; ero psicologicamente preparato piuttosto ad una mostruosità verdastra e/o scagliosa e/o tentacolata e/o con gli occhi d’insetto, chele o antenne.
L’essere si mosse, si rizzò a metà e cominciò ad uscire dal cilindro. Stranamente, non mi sentivo allarmato, e nemmeno Cheryl, a quel che potevo giudicare.
“Grazie”.
La voce, curiosamente, mi risuonò all’interno della testa; in ogni caso, l’alieno non aveva mosso la bocca senza labbra.
Ci fece cenno di scostarci, poi toccò qualcosa sulla superficie interna del cilindro. Il cilindro prese fuoco. Vidi con stupore il metallo che non si fondeva, ma bruciava! Dopo poco, era solo una grande macchia nera di materia arsa, dove nessuno avrebbe potuto identificare qualcosa.
“Bene, amico, ora che facciamo?”, dissi
Era un problema che mi aveva preoccupato fin dall’inizio. Se avessimo ritrovato l’alieno vivo, non potevamo consegnarlo alle autorità messicane od a quelle americane: il poveretto sarebbe diventato una cavia guardata a vista, un soggetto da esperimento, sia che la sua esistenza fosse tenuta segreta o data in pasto ai mass media. E come avremmo potuto nascondere un alieno o rispedirlo al suo pianeta d’origine?
Lui parve aver capito le mie parole, o almeno i miei pensieri.
Udii di nuovo la voce nella mia testa: “Devo inviare un messaggio alla mia gente. Ho ancora bisogno di voi, se siete disposti ad aiutarmi”.
Fu Cheryl a rispondere: “Puoi contarci, amico. A proposito, come ti dobbiamo chiamare?”
Di nuovo quella voce che si trasmetteva senza suono: “Il mio nome non avrebbe significato per voi, e non riuscireste a pronunciarlo”.
“OK”, rispose lei sorridendo, “Allora ti chiameremo Joe”.
E così l’alieno divenne “Joe”.
“Fatemi pensare un attimo”, disse Cheryl, “Non posiamo portarcelo dietro così, darebbe troppo nell’occhio”.
Andò alla macchina e tornò con alcuni souvenir che aveva comprato a Mexicali: un poncho ed un sombrero, drappeggiò il poncho sulle spalle di “Joe” e gli calcò il sombrero, che per fortuna aveva la cupola molto alta, fin sulla fronte, gli avvolse una sciarpa attorno alla bocca coprendogli la metà inferiore della faccia, e gli mise i miei occhiali da sole. “Joe” lasciava fare tranquillo come un pupazzo di neve. Sì, da lontano, seduto in macchina, specie in moto, avrebbe potuto superare un’osservazione non troppo minuziosa, ma da vicino la faccenda era completamente diversa.
C’erano molte cose che ero ansioso di chiedere a “Joe”, una volta accortomi che la lingua non costituiva un ostacolo. Il primo contatto con esseri di un altro mondo me l’ero immaginato in maniera completamente diversa da quell’incontro e quella conversazione seduti sul mio scassato macinino, straordinaria per le circostanze, ma assolutamente banale nei modi.
Ciò di cui gli ufologi non tengono conto, è l’enormità delle distanze interstellari, e il limite della velocità della luce che nessuna tecnologia, per quanto progredita, può consentire di superare, e non credo molto a tutte le scappatoie immaginate, che si reggono perlopiù su un’assoluta ignoranza delle leggi della fisica: viaggi dentro i buchi neri, deformazioni del tessuto spazio-temporale, iperspazio, altre dimensioni, o magari il richiamo a qualche ipotetica energia paranormale, anche se spesso mi ero servito di tutte queste cose nei miei romanzi e racconti.
Questo, secondo me, non rende il viaggio interstellare impossibile, ma viaggi di questo tipo dovrebbero essere estremamente rari per esseri che hanno una durata della vita paragonabile a quella umana, ed i costi tecnologici ed il dispendio energetico sarebbero comunque enormi anche per una civiltà altamente evoluta.
Logico quindi, pensavo, che se esseri di un altro mondo decidessero di farci visita, probabilmente in cerca della cosa più preziosa e più facile da trasportare attraverso gli spazi interstellari, le informazioni scientifiche e tecnologiche, cercherebbero di sfruttare al massimo quello che per loro, in termini umani, tecnologici ed energetici rappresenterebbe comunque un ben costoso investimento. Probabilmente, si farebbero precedere da contatti radio, si metterebbero in comunicazione con i capi di stato e gli scienziati dei paesi più progrediti per scambiare informazioni scientifiche e tecniche, cercherebbero di conoscere a fondo i popoli della Terra e di farsi conoscere, sarebbe un evento che non avrebbe nessuna possibilità di passare inosservato. Ho sempre ritenuto ridicola e infantile l’idea degli ometti verdi che si sgroppano centinaia di anni luce per andare a fare una chiacchierata con un vigile urbano in servizio notturno, o magari per trasmettere confusi messaggi morali ad un venditore di hot dog come il famoso George Adamski; e adesso proprio io mi trovavo coinvolto in qualcosa di non molto diverso, con un garbato alieno accovacciato sul sedile posteriore della mia VW.
Esternai i miei dubbi a “Joe”, cercando di farlo nella maniera più educata possibile.
“Si”, udii ronzare nella mia testa quella sua discreta voce telepatica, “I contatti che abbiamo avuto con esseri di altri sistemi stellari sono avvenuti più o meno così, abbiamo scambiato messaggi radio con altre civiltà galattiche, ma un contatto diretto è avvenuto solo due volte in tutta la nostra storia. C’è solo una pecca nel tuo ragionamento: il mio popolo vive in questo sistema solare.
Ero ancor più stupito. Nel sistema solare ci sono certamente dei luoghi dove esseri tecnologicamente evoluti possono vivere: Marte, i satelliti di Giove (che anche se lontani dal sole, beneficiano della radiazione termica emessa dal gigantesco pianeta, che è un vero sole abortito) e, con sofisticate attrezzature, anche Venere, la Luna, forse i più grandi tra i pianetini, ma c’è un solo luogo in tutto il sistema solare che presenta condizioni biochimiche adatte all’origine della vita, la Terra.
“E’ esatto”, proseguì “Joe”, “Siamo originari proprio di questo pianeta. Vedo che hai un notevole acume”.
Il mio sbalordimento stava raggiungendo quelle stelle dalle quali supponevo provenisse il nostro ospite.
Proseguì la sua narrazione silenziosa. Ora non mi sentivo più tanto incline a sorridere: le rivelazioni che “Joe” ci elargiva in quella strana non-conversazione somigliavano troppo alle intuizioni confuse dell’ufologia e della clipeologia, alle escogitazioni dei raccoglitori del bizzarro alla Charles Fort, di cui avevo riso con troppa leggerezza.
Il suo popolo, ci spiegò, era stato la razza dominante terrestre; i loro esperimenti biologici avevano creato dalle scimmie superiori una razza di antropoidi intelligenti che erano stati i loro servitori ed i nostri antenati. Diecimila anni fa, le nazioni della razza di “Joe” si erano scontrate in un immane conflitto nucleare, in cui era andato distrutto un intero continente, quello di cui noi conserviamo il ricordo sotto il nome di Atlantide. Mi vennero in mente alcuni inquietanti passi dei Veda e del Popol Vuh, la bibbia dei Maya. No, non mi sentivo affatto incline allo scetticismo.
Quelli del suo popolo, ci disse, erano sempre stati pochi. Della sua gente sopravvissero solo quelli che si erano installati nelle colonie dei pianeti esterni. Per lunghi secoli, essi furono impegnati in una dura lotta per sopravvivere, e la Terra devastata fu lasciata a sé stessa. Quando essi tornarono, millenni dopo, a visitare il mondo che era stato dei loro padri, scoprirono che la razza umana si era moltiplicata e si stava faticosamente incamminando verso la civiltà. Gli antenati di “Joe” aiutarono gli uomini a progredire e divennero gli dei di molte mitologie, ma infine decisero di lasciare la Terra agli uomini, che erano diventati i nuovi signori del pianeta
Solo in tempi recenti, a causa della scoperta da parte degli uomini dell’energia atomica e del volo spaziale, essi avevano ripreso ad osservare l’umanità, attentamente ma con discrezione; è da allora, dagli anni 50 che si segnalano i fenomeni UFO.
Domandai a “Joe” se la “meteora” del 1908 precipitata in Siberia, era stata una delle loro astronavi. Mi rispose di sì, un velivolo assai più grande del suo, e non c’erano stati superstiti; anche allora si era fatto in modo che l’apparecchio precipitasse lontano da zone abitate.
Ma eravamo tornati al problema di partenza: cosa dovevamo fare di “Joe”?
“Ascoltatemi”, ci comunicò telepaticamente il nostro amico, “Se volete aiutarmi a mettermi in contatto con la mia gente, dovete fare esattamente come vi dico”.
Estrasse da una tasca una specie di foglio quadrato di una decina di centimetri, fatto di una sostanza simile alla carta, ma ingualcibile come plastica: c’era un diagramma dalle linee blu chiaro, non sembrava trovarsi “sopra” il foglio come in una stampa, ma “dentro” il foglio come in una fotografia. Le linee univano tre figure: un bizzarro albero dai rami curiosamente geometrici, un uccello stilizzato e in alto una tozza figura umanoide che teneva le code di due serpenti ed aveva la testa curiosamente raggiata.
“Da secoli”, disse “Joe”, “teniamo d’occhio l’umanità, ed abbiamo creato un sistema d’emergenza. Questi segnali sono stati posti in una zona di questo pianeta, e formano i vertici di un triangolo. Nel suo baricentro esatto si trova un amplificatore di impulsi telepatici che consente di comunicare con la mia gente. Non sono lontanissimi da qui”.
Infatti, li avevo riconosciuti. L’albero non era altro che il misterioso, gigantesco bassorilievo della Sierra Parima, chiamato “las tres cruces” dagli indigeni e “il candelabro delle Ande” dagli archeologi. L’uccello era uno dei più grandi e più belli tra gli enormi pittogrammi che solcano la valle di Nazca, e fanno pensare a misteriose, cosmiche piste di atterraggio, e la figura umanoide era identica a quella incisa sulla chiave di volta della “puerta do sol” di Tihuanahuaco.
Lo dissi a Cheryl, ma non avevo idea di come raggiungere le Ande peruviane, od anche solo la nostra stanza nella posada a Mexicali, senza dare nell’occhio portandoci un alieno appresso.
“Uomo di poca fede!”, disse Cheryl ridendo, “Vedrai che con il denaro si riesce a fare miracoli!”
“Intanto leviamoci di qui”, replicai.
Misi in moto la VW. Riattraversammo il Colorado, tornando sulla sponda occidentale, poi mi diressi verso sud. Tenendosi lontani da Ensenada, prima di arrivare a San Felipe, c’è una vasta area di deserto roccioso, di colline, di pietre e macigni graffiati dal vento, che è chiamata Sierra Encantada, anche se, date le dimensioni, il nome di sierra è certamente esagerato. Strada facendo, spiegai il mio piano a Cheryl ed a “Joe”. Saremmo rimasti nella sierra per tutto il giorno. A sera, con l’aiuto del buio e di un po’ di fortuna, saremmo forse riusciti a portare “Joe” nella posada ed a nasconderlo senza dare troppo nell’occhio.
Passammo il resto della giornata, una deliziosa giornata, a crogiolarci tra i sassi e la sabbia, sotto un sole che faceva diventare il mio macinino per davvero una caffettiera bollente, e ci incollava la fintapelle dei sedili alla camicia.
Verso sera mi sentivo la pelle delle spalle calda come una caffettiera e rigida come il cuoio. Cercai di non pensare a quando il calore se ne sarebbe andato per lasciare il posto ad un prurito gigante. La mia schiena doveva essere rossa come quella di un gambero. Non potevo nascondermi di provare una certa invidia per Cheryl che, abituata al sole delle Andamane, sembrava del tutto indifferente a quello della Baja California. Mi occupai di “Joe”. Con il poncho sulle spalle ed il sombrero schiacciato il più possibile in testa, avrebbe forse potuto passare per un grasso peone nelle ombre del crepuscolo.
Si era fatto abbastanza buio per poterci muovere con scarso pericolo di essere notati. Ingranai la marcia della VW e partimmo: avevo fretta di arrivare a Mexicali prima di tutto per cercare un certo flaconcino di olio solare che avevo lasciato da qualche parte nella nostra camera, e poi avevo una gran fame, non avevamo preventivato di dividere il nostro pranzo con “Joe”, che da parte sua ci aveva assicurato di poter mangiare tutto quello che mangiano i terrestri. Ci eravamo accorti che era vero, solo non ci aveva preavvisato della quantità di cibo che era capace di far sparire in quel suo grosso corpaccio.
La Sierra Encantada era anche più vuota di notte, di quanto lo fosse di giorno, ma avvicinandoci a Mexicali incrociammo un paio di macchine. Nessuno accelerò o si gettò fuori strada, dal che arguii che finora l’avevamo fatta franca. In città, naturalmente, sarebbe stato un altro affare. Mentre mi tormentavo le nocche stringendo il volante con più forza del necessario, mi chiedevo se le leggi messicane prevedono qualche reato come contrabbando od occultamento di alieno.
Ma i languidi effluvi del Messico d’or, sotto una provvidenziale luna nuova d’estate, ci vennero in aiuto: non incontrammo che ubriachi sfatti di tequila e coppiette troppo prese a scambiarsi convenevoli negli angoli bui. Scendemmo dalla VW. “Joe” se ne stava tutto rannicchiato sotto il sombrero ed il poncho; chi lo avesse visto avrebbe pensato che fosse anche lui un ubriaco. Cheryl entrò nella posada ed eseguì la manovra che avevamo concordato; devo dire che fu bravissima a distrarre il portiere mentre raggiungevo con Joe la nostra camera, ma mentre salivamo la scaletta di legno del ballatoio, questo non mi impedì di sentirmi male ad ogni scricchiolio che il passo pesante di Joe evocava dagli scalini tarlati.
Quella che mi aspettava, fu una delle notti più orribili della mia vita: avevo la schiena nella quale mi sembrava fosse accampato un migliaio di formiche rosse, e c’era Joe accoccolato in un angolo, anche se inerte e silenzioso, ma questo non impedì a Cheryl di esprimere più volte e in tono sprezzante la sua opinione sul perché Susan mi avesse lasciato. Il mattino mi trovò pallido, stravolto, assonnato e profondamente frustrato nelle mie pretese di virilità.

“E adesso che facciamo?”, ripetevo passeggiando nervosamente per la stanza. Mi sembrava già assurda l’idea di riuscire a trovare un modo per portare di nuovo Joe fuori dalla posada, figurarsi poi raggiungere le Ande peruviane.
“Calma, hombre”, rispondeva Cheryl imperturbabile, “Attaccati a me e segui la corrente”.
Tanto per illustrare il concetto, si vestì rapidamente (è l’unica donna che conosco che, in caso di emergenza, è capace di alzarsi dal letto, lavarsi, vestirsi, truccarsi in meno di mezz’ora) e scese dabbasso a fare colazione. Io, ovviamente, dovevo rimanere su, nel caso che qualcuno bussasse alla porta della camera. Avevo una fame che mi dava le traveggole, e mi sembrava che la mia schiena fosse stata fustigata di fresco con mazzi di ortiche, anche se per fortuna non avevo febbre, ma Cheryl aveva deciso che dovevo aspettare.
Appena ebbe varcato la soglia, mi girai verso Joe che mi guardava con aria triste e, così mi sembrò, infinitamente paziente.
“Anche le vostre donne sono così impulsive?”, gli chiesi.
“Si”, disse lui, “Ma di solito hanno un carattere più docile”.
“Di solito lo hanno anche le nostre”, conclusi io.
Era una situazione strana, ma Joe lo trovavo simpatico, e dopo un po’ finivo per scordarmi che la nostra conversazione avveniva senza che lui muovesse le labbra.
Passò un’ora abbastanza spiacevole, in cui mi sembrava di star seduto su un nido di formiche. Finalmente Cheryl tornò, era stata in farmacia (si, incredibile, ce n’erano anche a Mexicali) ed aveva comprato una pomata per la mia schiena. Dopo una bella frizione sulle mie spalle doloranti, potei finalmente scendere a mangiare.

Dovevamo essere un ben strano trio: la danarosa, precoce e procace giovinetta, T. J. Sykes, scrittore fallito, squinternato e divorziato, e l’alieno “Joe” che probabilmente era il più normale dei tre. Preparammo il nostro piano di battaglia, ma per la verità eravamo nelle mani di Cheryl ed in quelle del conto corrente del suo munifico padre che giocava a tennis e studiava la comunicazione con i delfini dall’altra parte del globo, del tutto ignaro dei nostri guai. Il piano di Cheryl era semplice: attraverso i soldi e le conoscenze di suo padre, contava di procurarci un piccolo aereo da turismo e un permesso di volo che ci avrebbero consentito di filarcela quatti in direzione del Perù, dove Joe avrebbe potuto lanciare il suo appello ai suoi misteriosi compagni. Personalmente non avevo dubbi sulla potenza del denaro, avendo spesso sperimentato l’impotenza derivante dal non possederne, ma dubitavo che le amicizie di Clark C. Arthur con tutto il Pacifico e metà dell’oceano Indiano di distanza, potessero tornarci utili in quel particolare frangente.
Espressi a Cheryl i miei dubbi, e lei rispose con uno smagliante sorriso.
“Diciamo che...anche la persona più onesta, quando si trova a maneggiare e ad investire grosse somme di denaro, deve avere amici tra coloro che lavorano nel ramo principale dell’economia locale...e gli abitanti delle isole dell’Oceano Indiano campano, oltre che sul turismo, sulla coltivazione e il commercio di piante da cui si ricavano strane polverine, ed hanno i loro contatti e soci in Messico, dove una produzione analoga occupa una discreta fetta dell’economia locale”.
Chiaro, no?, e semplice, ma io vedevo con preoccupazione il contrabbando di stupefacenti aggiungersi alla lista delle mie imputazioni.
Cheryl sarebbe tornata negli States, perché da Mexicali era impossibile telefonare alle Andamane e mettere in moto gli ingranaggi delle conoscenze di papà, io sarei rimasto sul posto ad assicurarmi che tutto procedesse bene, cioè che nessuno notasse Joe. Era strano, ma dovevo ammettere con me stesso che la presenza di Cheryl mi dava sicurezza, la prospettiva di quel paio di giorni (sperando che non fossero di più) senza di lei mi rendeva nervoso, a parte che non mi garbava dover attendere per riscattare la notte appena trascorsa con una brillante dimostrazione della mia virilità, mortificata dall’effetto combinato di insolazione, fame e nervosismo.
Cheryl partì poco dopo colazione, lasciandomi a girarmi i pollici nell’afa messicana, ma il povero Joe che non poteva mettere il naso, anzi il becco, fuori dalla stanza della posada, era conciato peggio di me. Ero preoccupato anche perché Cheryl se n’era andata sul mio VW fuoristrada, era una bestia robusta, ma era facile farsi prendere la mano, e ci voleva una guida esperta.
Non avevamo alternative tranne passare il tempo chiacchierando, ma a me non mancava la curiosità, né a Joe gli argomenti. Venni a sapere un sacco di cose sulla sua gente e sul loro modo di vita: non erano molto diversi da noi, solo un po’ di millenni più avanti. Avevano installato colonie su Marte, sulla Luna, sui satelliti di Giove, anche se avevano ritenuto Mercurio e Venere da un lato, Saturno ed i pianeti più esterni dall’altro, inadatti a qualsiasi forma d’insediamento.
Cinquant’anni prima, una nave della loro gente era partita verso un sistema solare nella costellazione del Centauro che ritenevano potesse ospitare pianeti abitabili, e il ritorno era atteso da lì a quattro o cinque anni.
“Se troveremo una nuova patria”, disse, “ce ne andremo lasciando il sistema solare all’umanità, che per parte sua sta diventando anche troppo intraprendente”.
Sull’umanità in genere, Joe aveva un’opinione migliore della mia: c’è molta irrazionalità, molta violenza nelle culture umane, ma il popolo di Joe era passato per una fase analoga millenni addietro, e dopo esserci avvicinati molto, sembrava stessimo allontanandoci dall’orlo del baratro di quella catastrofe che aveva travolto il mondo dei suoi antenati.

Aprii la porta e mi venne un mezzo colpo: Joe era sparito. Scesi di corsa i gradini di legno e guardai in giro nel pianoterra della posada: era la solita stanza fumosa con il bancone delle mescite in fondo, e i tavolini di metallo sparsi in giro, con i soliti avventori intenti a trangugiare tequila, giocare a carte e palpare le natiche di qualche senorita. Corsi fuori sulla strada polverosa e non vidi niente d’insolito: c’erano i soliti mendicanti rannicchiati sotto qualche androne e l’odore di tortillas che si spandeva dalle finestre aperte delle case. Solo un grosso cane peloso di razza indefinibile mi degnò di uno sguardo interrogativo. D’un tratto cominciai a sentirmi vagamente idiota, cosa potevo fare, fermare la gente per strada e domandare: “Scusate, signore, avete visto passare di qua un extraterrestre?”. Cercai di riflettere, se Joe fosse stato scoperto, ci sarebbe stata parecchia animazione in giro, ma tutto era tranquillo. Me ne tornai alla posada con le pive nel sacco.
“Tom, non ti fa bene agitarti così, ti farai venire l’ulcera”.
Era la “voce”, l’impulso telepatico di Joe, e veniva dal fondo della sala. Mi diressi ad un tavolo d’angolo, dove era seduto un peone corpulento che stava vuotando metodicamente una bottiglia di tequila, era Joe con poncho e sombrero, e chissà dove si era procurato camicia, calzoni e scarpe. Il cocuzzolo del sombrero nascondeva egregiamente la forma conica della testa, e sulla struttura a becco della faccia aveva applicato un paio di baffoni alla Francesco Giuseppe che, mi accorsi, erano fatti di stoppa e colorati con lucido da scarpe; nella penombra fumosa, il risultato era perfetto.
“Ti avevo detto di non muoverti dalla stanza”, protestai.
“Ero stufo di starmene in camera a contare le mosche. Hanno un liquorino mica male qui: leggero ma aromatico”, disse vuotando un altro bicchiere, “Ne vuoi un po’?”
Che razza di metabolismo doveva avere il mio amico! Tracannava la tequila come se fosse stata una bibita, e non era nemmeno un po’ alticcio.
La sera del terzo giorno da quando eravamo rimasti soli, sentii bussare alla porta della camera.
“Chi è”, chiesi.
“Sono io, Cheryl, apri, sbrigati”.
Con un sospiro di sollievo, tolsi il chiavistello: era Cheryl in compagnia di un giovane indio dai lineamenti più marcatamente mongolici che avessi mai visto, un ragazzo alto, magro e silenzioso.
“E lui chi è?”, domandai.
“Uno dei nostri, sbrigati, facci passare e chiudi la porta”.
Mi accorsi che i baffi che ornavano il labbro superiore del ragazzo erano finti. “Si vede che il carnevale nella Baja California capita alla metà di giugno”, pensai. Ma no, quello non era un messicano, ma un asiatico autentico, anche se insolitamente alto e agghindato da peone.
“E’ un vero colpo di fortuna”, stava dicendo Cheryl, “San è un ninja, e si trovava negli Stati Uniti per un affare per conto della yakuza”.
“Che cavolo è la yakuza, e chi è un ninja?”, sbottai.
“La yakuza è la mafia giapponese, e un ninja…credo che la parola occidentale più vicina all’idea sia killer”.
“Che strane amicizie ha tuo padre!”
“Beh, sai, tra miliardari capita di doversi scambiare dei favori, e poi il milieu dei ricconi dell’Asia orientale è molto ristretto. Quello che importa è che San ha avuto l’ordine di aiutarci, e lo farà a costo della vita, e non parlerebbe nemmeno sotto tortura”.
Aspettammo un paio d’ore che fosse buio, poi ce la filammo all’inglese seguiti dai due falsi peones, quello nipponico e quello marziano. Prima di andarcene, lasciai sul bancone una busta con il nostro conto e una grossa mancia (ma il contenuto l’aveva fornito Cheryl) per evitare guai futuri; i messicani sanno essere molto discreti quando si tratta di denaro.
Uscimmo da Mexicali camminando verso nord per un paio di chilometri. Stavo già pensando che Cheryl avesse intenzione di rientrare negli Stati Uniti a piedi. Ci fermammo davanti ad un tozzo pagliaio; Cheryl e San si misero a buttare all’aria le stoppie, subito aiutati da Joe e me, nascosto sotto la paglia c’era un piccolo aereo da turismo.
“Siamo venuti con questo”, disse Cheryl, “La tua volkswagen te l’ho lasciata a Santa Monica”.
Saltammo a bordo, San ai comandi, Cheryl sul sedile accanto; io e Joe ci stringemmo nella carlinga. L’alieno sembrava accettare ogni cosa con tranquilla rassegnazione, ma io cominciavo a risentirmi del modo in cui venivo sbatacchiato in qua e là.
“Senti un po’, Cheryl”, chiesi, “Ma il tuo amico ha il brevetto di pilota?”
“Veramente no, ma ha un po’ di pratica, e poi suo padre era nei kamikaze”.
“Valgame, Virgen de Guadalupa!”
“Piantala, Tom”, disse lei, “Non sei mai stato un tipo religioso”.
L’aereo cominciò a rullare saltellando sulla pista costituita da un campo di granturco mietuto, e mi sembrava che sarebbe bastata una radice più grossa delle altre per farci capovolgere. In un modo o nell’altro, dopo poco eravamo in volo verso sud, diretti alle Ande peruviane; sapevamo dove andare: avevo calcolato esattamente la posizione del baricentro del triangolo con ai vertici la Puerta do sol di Tihuanahuaco, il candelabro della Sierra Parima e i graffiti di Nazca, ma non avevamo la più pallida idea di cosa vi avremmo trovato, e nemmeno se ci fosse abbastanza spazio per atterrare.
Cheryl mi diede un passaporto, era il mio, con il visto consolare per l’ingresso in Perù, rilasciato dal consolato di Los Angeles. Lei e San erano altrettanto forniti, ma per Joe non si era potuto fare nulla. Mi chiesi se secondo la legge peruviana un alieno potesse essere imputato di immigrazione clandestina.
Alla nostra sinistra il cielo schiariva, e presto la visibilità fu buona. Sorvolammo l’oceano Pacifico tenendoci a occidente di Panama: era la rotta più diretta, e si evitava di violare lo spazio aereo di una dozzina di paesi. Cominciava a imbrunire di nuovo quando scorgemmo la costa sudamericana verso est. Avevamo volato praticamente per tutta la giornata ed eravamo quasi al limite dell’autonomia, anche se eravamo partiti con i serbatoi stracolmi. Al di là della sottile linea costiera, la dorsale andina si alzava con rapidità impressionante, salendo per migliaia di metri. Ci trovammo quasi all’improvviso a sfiorare creste montuose che a me parevano incredibilmente vicine ed aguzze, ed a volteggiare sopra vertiginosi precipizi.
Dopo un’altra ora di volo, mentre il cielo diventava sempre più scuro, arrivammo ad una valletta corta e stretta, circondata da guglie di roccia acuminata. Vidi che San diminuiva il numero di giri del motore.
“Cosa aspetti a superare quella dannata forra?”, chiesi.
“Quella dannata forra è proprio il posto dove noi dobbiamo atterrare, secondo i tuoi dannati calcoli”, rispose lui, “Ma non ti preoccupare, mio padre diceva sempre che l’atterraggio non è mai un problema, basta centrare il ponte di volo della portaerei”.
Mi sentii molto rassicurato.
Facemmo un paio di giri per perdere velocità, ma la valletta era sempre troppo corta, infine San mise giù il carrello e filammo incontro allo strapiombo che si trovava all’imboccatura della valle. San frenò con tutta la sua energia, mentre il burrone era sempre più vicino ad ogni secondo. L’aereo capottò con il muso verso il basso a un metro dal precipizio. Scendemmo intontiti per la botta ma ancora interi.
Guardai le pale dell’elica contorte e il radiatore che perdeva olio.
“Un vero atterraggio da kamikaze”, dissi.
Cheryl mi rifilò una gomitata nelle costole. San che era dall’altra parte del velivolo e stava aiutando il nostro corpulento amico alieno a scendere, non mi aveva sentito. Adesso sono più informato su certe antiche tradizioni giapponesi, e non mi sognerei mai di dire a un ninja qualcosa di meno che gentile, ma allora non mi resi conto che la morte mi aveva sfiorato per due volte nel giro di una decina di secondi. Continuavo a tremare e rabbrividire, ma non per la paura, faceva un freddo bestiale: passare dal tiepido sole messicano alle altitudini andine non era cosa da poco. Joe e San avevano dei pesanti ponchos di lana, altrettanto efficaci contro il freddo che contro il caldo, Cheryl si era portata un maglione che sembrava una corazza, ma io ero in maniche di camicia.
“C’è un altro maglione nella mia borsa da viaggio”, disse Cheryl, “mettitelo”.
Andai a prendere la borsa e lo tolsi fuori: era un cardigan rosa lavorato a treccine. Cheryl mi guardò divertita.
“Se preferisci beccarti un’insolazione e una polmonite nella stessa settimana, fa come ti pare”, disse.
Me l’infilai, dovevo avere all’incirca la stessa aria virile di Oscar Wilde.
All’imboccatura opposta della valle c’era un capanno vuoto.
“Possiamo installarci lì finché non arrivano i compagni di Joe”, suggerì Cheryl.
“E se viene qualcuno?”, chiesi io.
“Non credo”, disse lei indicando uno steccato di legno anch’esso vuoto poco più in là, “Dev’essere di qualche pastore di lama che porta le sue bestie quassù nella stagione estiva, e che sicuramente ora le sta svernando più in basso”:
“La stagione estiva? Ma se siamo in giugno!”
“Tom, ti sei dimenticato che qui siamo nell’emisfero australe?”
Vedevo per la prima volta Joe mostrare segni d’inquietudine, gironzolava per la valle sempre più eccitato, come un cane da tartufi, poi a un certo punto ci chiamò, mostrandoci uno strano glifo dalle linee contorte inciso su una roccia, era quello l’amplificatore d’impulsi telepatici? Ci disse di si, quello che contava non era tanto la materia di cui era fatto, ma la forma e la posizione rispetto al campo magnetico terrestre.
Si sedette vicino alla roccia in una posizione simile a quella del loto, e rimase in concentrazione per alcuni minuti. Nei giorni seguenti ripetè quella specie di rito regolarmente ogni tre ore. Era la conferma di una cosa che avevo sempre sospettato: le discipline mistiche, la magia, le cosiddette scienze occulte, devono essere il ricordo deformato di una tecnica avanzata, dotata di poteri reali e di un supporto materiale cocreto, risalente forse alla civiltà atlantide, di cui il popolo di Joe era un superstite.
Ci sistemammo nel capanno, dove portammo le nostre cose, vale a dire quattro sacchi a pelo e una collezione di cibi in scatola assortiti. Ci buttammo sulle scatolette, era dal mattino che non mangiavamo.
Più tardi, Cheryl ed io facemmo un interessante esperimento: era possibile unire le cerniere dei sacchi a pelo ricavando un comodo letto a due piazze.
Ragazzi, fu una notte splendida!

Passammo due giornate tranquille. Joe ripeteva regolarmente le sue meditazioni-segnalazioni, non vedemmo intorno nessuno, tranne qualche lama selvatico.
“Sapete”, ci disse San, “I lama tibetani hanno all’incirca le stesse abitudini di quelli andini, e puzzano più o meno allo stesso modo”.
Joe e San erano diventati amiconi.
“I giapponesi”, ci disse una volta l’alieno, “sono un popolo formidabile, hanno conservato antiche tradizioni e discipline di pensiero e sono all’avanguardia nella tecnica; se riuscissero a stabilire un collegamento fra le due cose, sarebbero i padroni della Terra, gli basterebbe solo capire il nesso tra lo zen e l’informatica”.

Era là, sospesa nella notte sopra di noi: una gigantesca forma grosso modo ovoidale, la cui struttura era rivelata da numerose luci di posizione, era il momento più incredibile della mia vita, ma come posso descriverlo senza farlo sembrare troppo deja vu? Come posso raccontarlo meglio di come ha fatto Steven Spielberg in Close encounters ed E.T.? La raffigurazione fantastica faceva sbiadire l’evento reale: non ci scambiammo né piante di geranio né taumaturgiche ditate sulla fronte, ma solo un saluto cordiale e forse un po’ banale, data la cosmica portata dell’avvenimento; confesso che sotto sotto mi sentivo perfino un tantino stupido.
Prima di andarsene, i compagni di Joe ci rimisero a posto l’aereo; non chiedetemi di spiegare come fecero a raddrizzare le pale dell’elica, le irradiarono con qualcosa, e poi le stirarono modellandole come se fosse stata plastilina invece di metallo.
Sentii Cheryl sospirare: “Papà non sarà affatto contento, una storia incredibile, un sacco di soldi buttati via, e nemmeno uno straccio di prova”.
La mattina dopo, eravamo di nuovo in volo verso la California.

Quella mattina, quando infilai la porta del bar di Joe (quello terrestre!), avevo due occhiaie profonde e l’espressione più cupa del solito.
“Ehi Tom!”, mi fece lui gioviale, “Dove ti eri ficcato? Ti sei perso il meglio. Sapessi che viavai di cervelloni nei giorni scorsi per la faccenda del meteorite”.
Non notò, e per fortuna non la notò nemmeno l’interessata, l’occhiata di rancore che lanciai a Janet. In quel momento mi sentivo in collera con la Provvidenza, o chi per lei, che aveva scelto fra i tanti, semplici, comodi e puliti metodi di riproduzione: scissione, gemmazione, spore, proprio quello a sessi separati per l'umanità. In quel momento le donne stavano toccando la quotazione più bassa nella mia stima. Avevo chiesto a Cheryl se voleva sposarmi. Lei era diventata fredda come un iceberg e mi aveva domandato se ero pazzo; quanto a lei, mi aveva detto, non sapeva cosa farsene di uno spiantato scrittore fallito e per di più divorziato, e che non era nemmeno un gran che a letto.

Mi trincerai dentro casa portandomi dietro una bottiglia di wisky, deciso a prendermi una sbronza solenne, poi vidi la macchina da scrivere su cui era ancora infilato il racconto a cui stavo lavorando il giorno della caduta del “meteorite”. Perché non buttare giù qualche riga? La sbornia poteva aspettare. In pochi minuti misi insieme una collezione impressionante di refusi.
E se…
E se fosse stato un messaggio come l’altra volta? Presi una penna e segnai con un circoletto gli errori di battuta.
Lessi: “Addio amico, non ti dimenticherò mai, forse un giorno ci rivedremo”.

© Fabio Calabrese





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